Aldo Moro
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Discorso al Congresso di Napoli. Alle radici del Centro-sinistra

Enrico Farinone

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Discorso al Congresso di Napoli. Alle radici del Centro-sinistra

Enrico Farinone

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Oggetto di questo libro è certo uno dei più importanti interventi politici di tutta quella che è stata definita la Prima Repubblica. È il discorso che sostanzialmente dà l'avvio al centrosinistra di governo in Italia pur essendo ancora nel pieno della Guerra Fredda. Ma è anche un metodo, tipico proprio di Aldo Moro anche se non solo suo, che ha nell'argomentazione e nel tentativo del convincimento il proprio peculiare carattere. Con dovizia di spiegazioni, non lesinando parole, verbi, aggettivi. E gli incisi, quelle frasi poste fra due virgole che tendono a sottolineare alcuni aspetti, a motivare alcune apparenti contraddizioni, a tranquillizzare l'ascoltatore via via preoccupato dal procedere della riflessione, insomma quella caratteristica della lingua italiana che la rende così affascinante ma anche, spesso, oscura per chi non è uno specialista del ramo di cui tratta il relatore.

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Information

© 2019 Enrico Farinone
© 2019 iacobellieditore®
Tutti i diritti riservati
prima edizione elettronica: Dicembre 2019
prima edizione stampa: Novembre 2019
www.iacobellieditore.it
isbn 978-88-6252-633-3 (elettronico)
isbn 978-88-6252-621-0 (stampa)
ENRICO FARINONE
Aldo Moro
Discorso al Congresso di Napoli
Alle radici del centro-sinistra
iacobellieditore
Alla memoria
del senatore Luigi Granelli,
mio indimenticato
Maestro di Politica
Prefazione
Una provocazione. Questo è quanto potrebbe pensare chi volesse leggere in questo mio saggio un retropensiero, e cioè che nell’epoca dei social, dei pensieri brevi e delle affermazioni-lampo svolgere una riflessione su un discorso politico durato oltre sei ore è un attentato allo spirito e alla prassi dei tempi, veloci e immediati, nei quali l’adesso è già superato un tweet dopo e il domani non esiste perché è già oggi.
Bene. Chi pensasse così ci avrebbe (quasi) visto giusto. Perché oggetto di questo libro è certo uno dei più importanti interventi politici di tutta quella che è stata definita la Prima Repubblica. È il discorso che sostanzialmente dà l’avvio al centrosinistra di governo in Italia pur essendo ancora nel pieno della Guerra Fredda. Ma è anche un metodo, tipico proprio di Aldo Moro anche se non solo suo, che ha nell’argomentazione e nel tentativo del convincimento il proprio peculiare carattere. Con dovizia di spiegazioni, non lesinando parole, verbi, aggettivi. E gli incisi, quelle frasi poste fra due virgole che tendono a sottolineare alcuni aspetti, a motivare alcune apparenti contraddizioni, a tranquillizzare l’ascoltatore via via preoccupato dal procedere della riflessione, insomma quella caratteristica della lingua italiana che la rende così affascinante ma anche, spesso, oscura per chi non è uno specialista del ramo di cui tratta il relatore.
E allora un così lungo argomentare confrontato con la nettezza del tweet è sì un po’ una provocazione. Non si possono risolvere questioni complicate in 140 caratteri, poi 280. Così si può solo dire bianco o nero. E infatti proprio questo accade. Affermo bianco e trovo i like di chi ama il bianco e gli insulti di chi preferisce il nero. E viceversa. Ma non è così che si può andare avanti. Democraticamente, intendo.
Certo, oggi un discorso di oltre sei ore sarebbe improponibile. E per la verità ormai la gente, inclusa quella in teoria interessata al tema, pare non reggere nulla che duri più di un’oretta al massimo. Ma la necessità di qualcosa che aiuti a capire, che provi a motivare, che cerchi di approfondire andando oltre la superficialità tracimante nel semplicismo comincia ad essere avvertita da molti. Qualcuno osa ancora leggere libri, altri leggono riviste saggistiche, taluni leggono ancora qualche giornale. E c’è pure chi prova a scrivere post su facebook che superano le tre righe.
Il discorso di Napoli quindi come invito all’approfondimento delle questioni e al recupero dell’umiltà necessaria per provare a spiegare un’idea, una linea politica, una scelta operativa. Da questo punto di vista allora quell’allocuzione – così importante per motivi politici storicizzati in quel contesto – potrebbe divenire pure rilevante per tornare a riscoprire una visione alta dell’arte oratoria, non fine a sé stessa bensì quale lezione di intelligenza. Ovvero di comprensione del contesto per incidervi e modificarlo.
Lo scenario internazionale
Il decennio dei buoni sentimenti, dell’utopia hippy, delle grandi speranze per il futuro dell’umanità, insomma i mitici anni Sessanta aveva visto nel 1961 il realizzarsi di alcuni eventi che si sarebbero rivelati fondamentali per quel futuro che poi si sarebbe dipanato con le caratteristiche così spesso ricordate e celebrate.
Il 20 gennaio era iniziata la presidenza di John Fitzgerald Kennedy. Il 12 aprile l’Unione Sovietica aveva inviato il primo uomo nello spazio, avviando quella corsa che alla fine del decennio gli Stati Uniti vinceranno facendo camminare i primi uomini sulla Luna. In agosto il governo della Repubblica Democratica Tedesca, la Germania dell’Est come la chiamavamo noi ad ovest, chiudeva il confine con la Repubblica Federale di Germania e, il 15, il suo esercito avviava la costruzione a Berlino del Muro, simbolo fisico e non solo della divisione del mondo e della Guerra Fredda. Che rischiò di divenire calda il 25 ottobre, quando nella ex capitale tedesca carri armati statunitensi e russi si fronteggiarono sfiorando l’irrimediabile. Che l’Unione Sovietica intendesse dimostrare la propria potenza lo certifica pure il test nucleare definito “Bomba Zar”, una potenza di 58 megatoni che il 25 ottobre diviene la più potente esplosione nucleare di tutti i tempi. E l’11 dicembre, infine, incomincia, di fatto, l’impegno militare statunitense in Vietnam.
Lo scontro fra “mondo libero” e “comunismo sovietico” era dunque in una fase molto avanzata (ed infatti solo pochi mesi dopo il pianeta giungerà sull’orlo della catastrofe con la crisi di Cuba). Non era quindi facile, per un politico occidentale, aprire spazi per partiti che ancora si definivano “socialisti”, anche se questi stessi partiti avevano condannato l’invasione ungherese ad opera dei russi nel 1956 e con essa l’imperialismo sovietico.
I rapporti di Moro con gli americani non erano mai stati particolarmente intensi. Da quando era assunto, nel 1959, alla segreteria nazionale della Democrazia Cristiana era stato “monitorato” con particolare attenzione dall’ambasciata di via Vittorio Veneto e le valutazioni non erano state granchè favorevoli. Lo si riteneva un personaggio debole, non in grado di guidare col piglio necessario un partito complesso come la DC (a maggior ragione dopo un’esperienza come quella di Fanfani). Ma in fin dei conti ciò che importava era che fosse confermata, senza deviazioni, la linea di netta chiusura non solo ai comunisti, che anzi dovevano essere combattuti anche sul piano sociale e non solo politico, ma pure ai socialisti, ritenuti inaffidabili anche dopo la loro netta presa di distanza dai primi all’indomani dei fatti di Budapest.
La nuova presidenza americana stava però cambiando atteggiamento, sia pure in modo misurato, e le aperture morotee nei confronti del PSI non venivano ostracizzate come si sarebbe immaginato sino a poco tempo prima. L’ambasciatore Reinhardt era piuttosto perplesso al proposito ma dovette suo malgrado interpretare la linea di non interferenza decisa dal Dipartimento di Stato.
Se l’idea di Moro era che la forza del PCI in Italia poteva essere limitata con una più ampia partecipazione delle masse popolari alla vita democratica (e anche con un incremento occupazionale consistente) la valutazione della componente liberal ora al governo a Washington era che effettivamente solo lo sviluppo economico e sociale di un Paese ancora arretrato fosse l’arma migliore per combattere l’insediamento sociale dei comunisti in Italia.
Il contesto italiano
Aldo Moro era diventato segretario nazionale la notte del 16 marzo 1959, quando la nuova corrente dei Dorotei lo individuò quale punto di mediazione fra le sue varie anime per portare l’attacco a Fanfani, reo di una conduzione del partito troppo centralista e autoritaria. Moro aveva il profilo del classico intellettuale del Sud cha aveva saputo offrire un contributo di qualità alla Costituente ma che non possedeva, né poteva avere, le doti del condottiero politico e quindi persona più facilmente influenzabile se non proprio “indirizzabile”. Era anche molto giovane, soprattutto per gli standard del tempo (43 anni) ed inoltre anche la fisiognomica non lo aiutava: un volto scavato, una gestualità rallentata, un’espressione quasi contrita. Dal che più d’uno ne dedusse che la sua sarebbe stata una segreteria di transizione o al massimo di mediazione tutta interna al partito e addirittura al neo-correntone doroteo. Nulla di più sbagliato.
Con i suoi modi garbati, col suo eloquio forbito capace di inventare formulazioni politico-letterarie che diverranno famose e, una, celeberrima, Moro rivelerà doti di mediazione e non di compromesso nonché una insospettata capacità di movimento all’interno del complicatissimo arcipelago democristiano. E soprattutto riuscirà a trovare un modus operandi con Fanfani al punto che i due – definiti proprio in seguito a questo periodo i “cavalli di razza” dc – saranno i dominus, l’uno da Piazza del Gesù l’altro da Palazzo Chigi, della progressiva, lenta ma inesorabile apertura ai socialisti determinando la conclusione del centrismo e l’avvento del centrosinistra. Il discorso di Napoli sarà il culmine, lo zenit di un lavoro paziente e diuturno durato tre anni. Per riassumerlo nei suoi passaggi salienti si può senz’altro partire dalla più iperbolica affermazione mai coniata da un politico italiano, al punto da essere conosciuta e citata ancor oggi, sei decenni più tardi, anche da chi non segue professionalmente le complicate vicende della politica.
Al congresso di Firenze (ottobre 1959) Moro aveva aumentato il consenso intorno a sé e ne era uscito personalmente più forte di come vi era entrato. Il ...

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