Storia della Russia
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Storia della Russia

Dalle origini agli anni di Putin

Roger Bartlett, Marco Federici

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Storia della Russia

Dalle origini agli anni di Putin

Roger Bartlett, Marco Federici

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Chiudere la storia della Russia in un unico volume significa raccontare, in poche centinaia di pagine, il passato e il presente di una zona vasta un sesto della superficie terrestre; un regno multietnico in cui si parlano oltre cento lingue; una civiltà che ha prodotto una cultura sfaccettata, di straordinaria ricchezza, e che ha dato al mondo artisti, musicisti e scienziati di grande influenza; una struttura militare e politica di primo piano sullo scacchiere mondiale.
È quello che Roger Bartlett riesce a fare in quest'opera che dall'antica Rus' giunge fino all'epoca di "zar" Putin, offrendo un'ampia prospettiva sullo sviluppo storico di questo paese. Concentrandosi sulle origini della cultura politica, sul ruolo della grandissima maggioranza contadina e sul suo rapporto sulle élite contadine, sull'evoluzione della società e del pensiero russo moderno, l'autore offre ai suoi lettori uno strumento ideale, attendibile ed equilibrato, per conoscere il passato di questa grande nazione e capirne la posizione nel panorama internazionale contemporaneo.

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Information

Publisher
Mondadori
Year
2014
ISBN
9788852059544
VI

L’impero russo e l’Unione Sovietica: da paria a superpotenza

1917-1953
Il governo provvisorio della Duma, che ereditò il potere con la Rivoluzione di febbraio, non riuscì a soddisfare le aspirazioni delle masse e perse gradualmente consensi a favore dei rinati bolscevichi, che lo rovesciarono in ottobre, con un colpo di stato a Pietrogrado. Sotto la guida di Lenin, i bolscevichi sopravvissero alla dura guerra civile che seguì, imponendo e consolidando un nuovo autoritario e violento ordine comunista. Alla fine degli anni Venti, Stalin aveva ormai preso le redini del partito e del governo. La «rivoluzione staliniana» diede avvio alla collettivizzazione di massa, a una rapida industrializzazione e a un profondo cambiamento culturale, esercitando il controllo su una mobilità sociale di enormi dimensioni e sul terrore di massa. L’Unione Sovietica uscì trionfatrice dalla Seconda guerra mondiale e dalla devastante «Grande guerra patriottica» sul fronte orientale, arrivando a dominare buona parte dell’Esteuropa. Dopo il 1945, Stalin riaffermò nel paese un controllo oppressivo e tenne alta la tensione a livello internazionale; morì nel 1953.

«Costruire il socialismo»

La Rivoluzione d’ottobre

Il nuovo governo provvisorio, che entrò in carica a Pietrogrado nel febbraio del 1917, era composto da rappresentanti delle principali correnti politiche, eccetto quelle estreme. All’inizio poté contare, sebbene con alcune riserve, su un appoggio generale, ma creò enormi aspettative, come enormi furono anche i problemi che dovette affrontare: la guerra, l’approvvigionamento alimentare, la terra per i contadini, le aspirazioni degli operai e delle minoranze nazionali, e soprattutto l’organizzazione di un’Assemblea costituente eletta, cui, in quanto governo provvisorio, delegò le questioni costituzionali e riforme altrettanto fondamentali. Anche il suo potere amministrativo era incerto. Una delle prime misure intraprese fu lo smantellamento di tutte le istituzioni repressive zariste, in particolare gli organi di polizia; in periferia l’autorità degli enti amministrativi si faceva sempre più fragile e l’esercito diventava ogni giorno meno affidabile. Sperando nei benefici della vittoria, il governo provvisorio decise di continuare la guerra e tenere fede al proprio impegno con gli Alleati, una scelta per nulla popolare: come prima, le questioni economiche e sociali urgenti andavano messe in secondo piano per far fronte alle necessità belliche. Il governo riconobbe l’indipendenza polacca, tuttavia contrastò quelle di Finlandia e Ucraina, negoziando in luglio un compromesso con la nuova Rada (Consiglio) nazionalista di Kiev, ma ordinando lo scioglimento della Dieta finlandese, quando proclamò la propria autonomia.
All’inizio il soviet riconobbe il governo provvisorio e accettò, almeno parzialmente, la sua politica. La direzione del soviet era in mano ai popolari menscevichi e agli SR, gruppi che dopo febbraio ingrossarono le loro file: in autunno i menscevichi erano cresciuti da poche migliaia a 200.000, mentre gli SR, che tra città e campagna vantavano un milione di affiliati, erano di gran lunga il partito politico maggiore; il consenso bolscevico fu da principio molto più limitato. Nessuno dei due partiti voleva l’onere scomodo e pericoloso di assumersi cariche politiche. Tuttavia, le crescenti difficoltà spinsero il governo provvisorio a cercare l’appoggio diretto dell’altra parte del «doppio potere» e, nei successivi rimpasti, rappresentanti menscevichi e SR del soviet entrarono a far parte del gabinetto. Come conseguenza, i partiti rivoluzionari moderati si ritrovarono a sostenere l’«ordine borghese»; partecipando alla politica del governo furono coinvolti anche nel suo fallimento di fronte alle aspirazioni popolari. In giugno una nuova offensiva contro gli austriaci si trasformò in una pesante ritirata, che incrementò le già numerose diserzioni e le richieste da parte del popolo che si giungesse a una guerra puramente difensiva o alla fine delle ostilità. In agosto i tedeschi sfondarono le difese russe sul Baltico e conquistarono Riga. La sola grande corrente rimasta fuori dal governo era quella dei bolscevichi, secondo cui instaurare in Russia il «potere dei soviet» avrebbe dato il via a una rivoluzione internazionale e posto fine alla guerra. I bolscevichi si impegnarono attivamente per far crollare le strutture esistenti, per edificare sulle ceneri del capitalismo una società socialista mondiale; non temevano affatto l’idea di una guerra civile e incoraggiavano l’attivismo locale per rovesciare l’ordine esistente.
Tra le masse la delusione nei confronti del governo e dei suoi alleati di sinistra continuò a crescere. I contadini cominciarono a occuparsi direttamente del problema delle terre; già nel marzo del 1917 si registrarono i primi casi di occupazione dei terreni di alcuni piccoli proprietari, episodi che si fecero più frequenti, soprattutto dopo la mietitura. Un numero sempre maggiore di fabbriche finì sotto il «controllo operaio»: 378 imprese in luglio, 573 in ottobre. I bolscevichi moltiplicarono il loro consenso: nel 1918 gli affiliati raggiunsero quota 300.000. Ma con l’aumento dell’inflazione, la penuria di cibo, i fallimenti commerciali e la disoccupazione, l’economia si ritrovò in pieno collasso. La sconfitta di giugno provocò a Pietrogrado una serie di dimostrazioni di massa, che chiedevano l’immediato «potere ai soviet» ed ebbero un certo sostegno dai bolscevichi. Il governo, ora guidato dall’SR Aleksandr Kerenskij, aveva ancora abbastanza autorità e forza militare per reprimere l’opposizione dei «giorni di luglio» con la forza e far arrestare i capi bolscevichi: Lenin fu accusato di essere una spia tedesca (in effetti i bolscevichi erano stati davvero finanziati dai tedeschi) e riparò clandestinamente in Finlandia. A fine agosto Kerenskij, preoccupato dalla debolezza del governo, ordinò al suo nuovo comandante in capo, il generale autoritario e conservatore Lavr Kornilov, di portare le truppe a Pietrogrado; ma poi, riconosciuto il pericolo di un colpo di stato militare, ritirò l’ordine. Kornilov continuò ugualmente la sua avanzata e Kerenskij fu costretto a ricorrere al soviet e agli agitatori bolscevichi per fermare le truppe del generale, che fu arrestato (e più tardi rilasciato). L’episodio allontanò ulteriormente le masse dal governo. A settembre i bolscevichi ottennero finalmente la maggioranza all’interno del soviet di Pietrogrado, tendenza che rapidamente fu seguita da quasi tutti i soviet delle città russe. Kerenskij, nel frattempo, in attesa dell’Assemblea costituente, provò a radunare i moderati in un’Assemblea nazionale, nota come «Preparlamento», con l’unico esito di peggiorare la situazione.
Lenin, dal suo rifugio all’estero, con una febbrile campagna cercò di convincere i bolscevichi ancora riluttanti a prendere subito il potere in nome dei soviet di tutto il paese, dove il partito era ormai predominante. Il Comitato centrale bolscevico alla fine accettò la proposta, ma rimandò l’insurrezione al II Congresso panrusso dei soviet, fissato per il 25 ottobre (VS): così il colpo di stato bolscevico poteva essere legittimato dall’autorità dei soviet. Uno strumento perfetto divenne disponibile quando il soviet di Pietrogrado, preoccupato per un eventuale attacco alla capitale da parte di truppe tedesche o di destra, creò un Comitato militare rivoluzionario, in grado di dirigere operazioni militari. Nella notte fra il 24 e il 25 ottobre il Comitato, guidato da Trockij, coordinò l’occupazione armata da parte delle forze bolsceviche di alcuni punti nevralgici della città. I disordini furono limitati: il 25 ottobre Pietrogrado proseguì la sua vita di tutti i giorni. Il Palazzo d’Inverno fu preso d’assalto e i ministri del governo che vi si erano barricati vennero tratti in arresto. Gli insorti non incontrarono nessuna reale opposizione, solo un vuoto di potere. Un memorialista socialrivoluzionario commentò che 500 soldati ben addestrati avrebbero potuto spazzare via i bolscevichi dalle strade di Pietrogrado. Kerenskij fuggì in cerca di aiuto militare, ma il suo successivo tentativo di sferrare un contrattacco usando truppe rimaste fedeli al governo venne frustrato. L’esercito si stava disgregando.
Il Congresso dei soviet ratificò il trasferimento di potere proclamato dai bolscevichi. Ma il dissenso scoppiò quando fu chiaro che Lenin rifiutava la tradizionale concezione di sinistra di un’amministrazione socialista di ampie convergenze e tendeva a un governo esclusivamente bolscevico. I menscevichi e molti SR definirono criminale la presa del potere da parte dei bolscevichi, e per protesta uscirono dal soviet, lasciando così campo libero agli avversari e facendo, fatalmente e senza rendersene conto, proprio il gioco di Lenin. Con una celebre frase al vetriolo Trockij dichiarò che i suoi antagonisti appartenevano alla pattumiera della storia. Per dirigere il paese, i bolscevichi istituirono un ristretto Consiglio dei commissari del popolo (Sovnarkom: gli acronimi divennero un tratto distintivo dell’amministrazione sovietica), con Lenin come presidente e Trockij come commissario degli Affari Esteri. Commissario per le Nazionalità fu nominato Stalin, che in un’occasione Lenin aveva definito il suo «meraviglioso georgiano». Stalin portò nel proprio incarico le sue esperienze di non russo: figlio di un calzolaio ubriacone, aveva vissuto in Georgia un’infanzia povera e violenta; dopo aver ricevuto un’educazione incompleta in un seminario ortodosso, aveva svolto un’efficace attività clandestina tra gli operai di Baku, impegno che gli era costato l’esilio in Siberia. A dicembre gli SR di sinistra, l’ala radicale degli SR che aveva formato un proprio partito, si unirono al Sovnarkom.
La Rivoluzione bolscevica fu un evento epocale: diede avvio, nel più grande paese del pianeta, a un tentativo senza precedenti di ingegneria sociale autoritaria, e rappresentò una sfida dottrinaria contro l’intero ordine capitalistico, con conseguenze planetarie che influenzarono la politica mondiale per quasi tutto il secolo. Il nuovo governo agì subito per mettere in pratica il suo vasto programma. Tramite un decreto sulla pace fu lanciato un appello al mondo per il raggiungimento di una «pace giusta e democratica» che ponesse fine alla guerra mondiale, «il più grande crimine commesso contro l’umanità». Trockij e Lenin pensavano che portare la rivoluzione socialista in Russia e rendere pubblici tutti i suoi trattati segreti con le altre potenze «imperialiste» avrebbe scatenato la rivoluzione in tutto il mondo. Il decreto sulla terra fu copiato in gran parte dal popolare programma agrario redatto dagli SR dopo febbraio, che si basava sui mandati contadini, e per una volta rispecchiò davvero le loro genuine aspirazioni: dichiarava che tutta la terra doveva appartenere al popolo e incoraggiava l’occupazione dei terreni non assegnati alla classe contadina; tuttavia, l’esatta natura della futura proprietà delle terre rimaneva volutamente vaga e fuorviante. Questo, in pratica, dava mano libera ai contadini, come essi volevano: il governo non era nella posizione di fare altrimenti. Vennero promulgate norme per regolamentare il controllo operaio delle industrie (si trattava più di una supervisione che di una gestione diretta) e ratificare la giornata lavorativa di otto ore. Seguì una lunga serie di ulteriori decreti, che miravano a cambiare radicalmente il volto della vita sociale. A dicembre si arrivò alla creazione del Consiglio supremo per l’economia nazionale (VSNCh), legato al Sovnarkom, con poteri coercitivi per dirigere l’economia. Tutte le banche, statali e private, furono fuse in una banca del popolo nazionalizzata, misura che preannunciava il ripudio dei diritti degli azionisti e la cancellazione dei debiti esteri nel febbraio del 1918. Il 2 novembre una Dichiarazione dei diritti dei popoli della Russia, redatta da Lenin e Stalin, abolì tutte le distinzioni basate su nazionalità e religione, invocando la creazione di un’unione volontaria delle nazioni e riconoscendo il diritto alla secessione delle minoranze nazionali; l’indipendenza polacca era già stata confermata. I bolscevichi non avevano alcuna intenzione di lasciare che l’ex impero si disgregasse, ma erano convinti che le minoranze si sarebbero unite all’imminente rivoluzione socialista, grazie alla quale ogni differenza nazionale e ogni confine sarebbero diventati cose obsolete. Un Congresso dei soviet ucraini, a larga maggioranza bolscevica, proclamò la Repubblica Sovietica Ucraina l’11 dicembre, esautorando poco dopo la Rada; una settimana più tardi il Sovnarkom sancì l’indipendenza della Finlandia.
Sull’onda degli avvenimenti di Pietrogrado, il «potere dei soviet» cominciò ad affermarsi anche in altre zone del paese. Il 3 novembre, con una sollevazione bolscevica, a Mosca il Cremlino venne occupato definitivamente. Entro il 1° novembre, in genere in modo più pacifico, i soviet avevano preso il controllo di molte città sul Volga e a Tver’, Rjazan’ e Rostov sul Don; anche Ufa in Baškirija, Baku, centro dell’industria petrolifera del Caspio, e Taškent in Asia centrale erano in mano ai sovietici. Nell’inverno del 1917-1918 in tutta la Russia i soviet rurali assunsero il controllo a livello distrettuale (volost’). Nel frattempo l’opposizione cominciò a riorganizzarsi. Alcune deboli azioni antibolsceviche a Pietrogrado non ottennero risultati, ma nel mese di novembre, a Tiflis (Tiblisi), in Georgia, fu istituito un «Commissariato transcaucasico» antibolscevico, di cui facevano parte anche i menscevichi, e a Novočerkassk (in territorio cosacco) i generali Kornilov e Alekseev cominciarono a organizzare un «esercito volontario». Il Sovnarkom prendeva misure per rafforzare il suo monopolio del potere: il 28 ottobre un decreto aveva proibito i giornali «controrivoluzionari»; fu introdotta una rigida censura. Mentre i «volontari» cominciavano a riunirsi, fu spiccato un ordine di cattura nei confronti dei capi «cadetti», accusati di fomentare la guerra civile. Il 7 dicembre il Sovnarkom creò la Commissione straordinaria panrussa per la lotta al sabotaggio e alla controrivoluzione (Čeka), una nuova polizia segreta diretta dall’ex nobile polacco Feliks Džeržinskij: la Čeka, che poteva contare su poteri ampi e indefiniti, divenne il principale organo di controllo politico nell’Unione Sovietica. Nel 1922 cambiò ufficialmente nome in GPU («Direzione politica di stato»), subendo nel tempo altre trasformazioni nominali e istituzionali: OGPU, NKVD, NKGB («Commissariato del popolo per gli Affari Interni/per la Sicurezza di stato»), MGB, KGB («Ministero/Comitato per la sicurezza dello stato»), e dopo il 1991 FSB («Servizio per la sicurezza federale»).
Intanto, si stavano svolgendo le elezioni dell’Assemblea costituente, rimandate ormai da troppo tempo: i bolscevichi non avevano ritenuto prudente cancellare l’Assemblea «borghese» a lungo promessa ed erano comunque convinti di ottenere la maggioranza. Ma presto si resero conto che sarebbero stati superati di misura dagli elettori rurali degli SR, che infatti ottenne il 58% dei voti. A dicembre Lenin pubblicò le Tesi sull’Assemblea costituente, chiedendo la piena ratifica del potere ai soviet (dunque ai bolscevichi). Riunitasi nel gennaio del 1918, l’Assemblea respinse la proposta di Lenin e fu dichiarata sciolta, chiusa dalle guardie di sinistra che ne garantivano la «sicurezza». Una settimana più tardi si riunì a Pietrogrado il III Congresso panrusso dei soviet, a maggioranza bolscevica, che adottò una Dichiarazione dei diritti dei popoli lavoratori e sfruttati e proclamò la Repubblica Federativa Socialista Sovietica Russa (RSFSR): la prima Costituzione sovietica fu approvata nel luglio del 1918.
Nel frattempo si era dato avvio ai negoziati con le potenze centrali per porre fine alla partecipazione russa alla guerra. Finora la presa di potere da parte dei soviet e dei bolscevichi non aveva innescato la promessa rivoluzione europea; dopo gli eventi del 1917, l’ex esercito imperiale russo era al collasso e il Sovnarkom aveva autorizzato la smobilitazione. Ciononostante, i sovietici proposero una «pace giusta» senza annessioni o indennizzi, che rispettasse i diritti di autodeterminazione nazionale. Naturalmente gli avversari non gradirono l’offerta. Il Sovnarkom spostò allora la capitale a Mosca, città relativamente più sicura, e cominciò a costituire una nuova Armata rossa di operai e contadini, sotto la direzione di Trockij, commissario del popolo per gli Affari Militari, che intanto cercava di ritardare i negoziati diplomatici – «né guerra né pace» – e di far appello al proletariato mondiale, scavalcando i capitalisti guerrafondai: la risposta proletaria fu debolissima, ma i diplomatici ne rimasero sconcertati. Alla fine, le potenze centrali persero la pazienza, posero condizioni durissime e ripresero l’avanzata, che il Sovnarkom non era in grado di affrontare. Lenin, con il suo realismo, prevalse sui sostenitori della prosecuzione della «lotta rivoluzionaria»: gli SR di sinistra lasciarono indignati il governo e nel marzo del 1918 il trattato di Brest-Litovsk pose fine alla guerra, privando il Sovnarkom di tutti i territori occidentali dell’impero, che rappresentavano per la Russia un quarto della popolazione e dei terreni coltivati, nonché tre quarti delle risorse di carbone e di metalli. L’occupazione tedesca di Kiev instaurò nuovamente la Rada nazionalista ucraina. Queste perdite colossali inflissero un colpo terribile al prestigio e alla forza del Sovnarkom; il ritiro russo dalla guerra provocò l’intervento degli Alleati occidentali, che videro scomparire il loro secondo fronte e venire meno un importante supporto militare. Fortunatamente per Lenin, le operazioni alleate si limitarono alle periferie: le truppe, stremate da anni di battaglie, condussero solo azioni di portata ridotta, dando vita a un intervento nel complesso inefficace. Inoltre, nel novembre del 1918, la sconfitta decisiva inflitta alle potenze centrali permise ai bolscevichi di denunciare il trattato di Brest-Litovsk; a Versailles gli Alleati imposero ai tedeschi sconfitti condizioni pesantissime, ma ritirarono le loro truppe dalla Russia senza cercare di ottenere nient’altro dal suo governo.
Il nuovo regime aveva preso il potere sperando nell’appoggio delle masse popolari in patria e nella rivoluzione internazionale. Nelle varie questioni specifiche non seguiva una linea precisa. Nel suo pamphlet utopico del 1917, Stato e rivoluzione, Lenin aveva sostenuto che, una volta stabilito un ordine rivoluzionario socialista, le innovazioni tecniche del capitalismo moderno avrebbero reso i compiti quotidiani di governo così semplici, da poter essere eseguiti da «qualsiasi persona alfabetizzata»: «sotto la direzione del proletariato armato» e con il «controllo operaio» sarebbe stato possibile «organizzare l’intera economia come il servizio postale». In altri scritti, Lenin sottolineò l’importanza delle contingenze: il compito primario era instaurare il potere proletario socialista, il resto sarebbe venuto da sé.
L’ottobre del 1917 vide il manifestarsi di due rivoluzioni. Al centro, un colpo di stato bolscevico rovesciò il governo in carica e diede il via a un nuovo ordine politico. Ma Lenin e i suoi compagni riuscirono a mettere in atto e consolidare la loro presa del potere soltanto grazie a cambiamenti ben più profondi alla base della società, che avevano indebolito le strutture delle autorità e del potere statale. Questi cambiamenti, inoltre, prendevano forme differenti nelle città, in campagna e nelle zone di confine delle minoranze nazionali. I bolscevichi non crearono, ma seguirono e incoraggiarono l’attivismo locale di contadini, operai, soldati e di tutti coloro che nella crisi generale del 1917-1918 respinsero come inaccettabile qualsiasi autorità esterna e formarono istituzioni proprie per perseguire interessi e scopi immediati. Gli operai e i contadini avevano orizzonti essenzialmente locali: le loro preoccupazioni non riguardavano le questioni generali del paese, e così si scontravano con le politiche che cercavano di mantenere in equilibrio gli interessi nazionali e quelli internazionali. Senza la presa bolscevica del potere, l’estate del 1917 sarebbe potuta finire con qualche altra insurrezione radicale. Una delle caratteristiche più sorprendenti degli anni rivoluzionari fu il crescente anti intellettualismo popolare e l’animosità contro tutti i buržui («bastardi borghesi»): coloro che avevano un certo livello d’istruzione e denaro, portavano gli occhiali, avevano «mani bianche», non da lavoratori; anche i contadini benestanti. I soviet che si formarono nelle città e in campagna erano un’espressione reale e spontanea delle opinioni e dei sentimenti diffusi fra le popolazioni locali. Lo slogan bolscevico «tutto il potere ai soviet», che sembrava incarnare e legittimare questa attività di base...

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