Archangel
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Archangel

Robert Harris, Renato Pera

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  1. 350 pages
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Archangel

Robert Harris, Renato Pera

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Fluke Kelso, professore inglese in viaggio di studio a Mosca, ascolta incredulo la storia che gli racconta Papu Rapava. Papu era presente la notte in cui Stalin morì e giura di aver assistito al furto delle sue carte. Poche ore dopo Papu viene ucciso, e tutto lascia pensare che stia accadendo qualcosa di incredibile. Forse il dittatore più crudele della storia o qualcuno che gli era molto vicino sta per ritornare.
Un thriller magistrale costruito su un'inquietante ipotesi fantapolitica.

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Information

Publisher
Mondadori
Year
2014
ISBN
9788852056390

Parte seconda

ARCHANGEL
Se hai paura dei lupi, sta’ alla larga dai boschi.
J.V. STALIN, 1936

16

Prima di lasciare Mosca dovettero rifornirsi di benzina perché, come diceva O’Brian, fuori città non potevi mai sapere quale piscio annacquato di cavallo ti avrebbero rifilato. Si fermarono quindi al nuovo distributore Nefto Agip di Prospekt Mira, dove il giornalista riempì, oltre al serbatoio della Land Cruiser, quattro grosse taniche da trenta galloni ciascuna di benzina senza piombo ad alto numero di ottani. Fece poi controllare olio e pneumatici e, quando finalmente si rimisero in strada, si trovarono in piena ora di punta, con file di auto che procedevano nella fanghiglia sollevando spruzzi.
Impiegarono quasi un’ora per raggiungere la circonvallazione esterna, ma, una volta lì, fortunatamente, il traffico si fece meno intenso, scomparvero i monotoni palazzoni alternati a fabbriche e d’improvviso si ritrovarono in piena campagna, con i suoi campi grigioverdi, i giganteschi piloni e un cielo sconfinato come quello del Kansas. Erano passati oltre dieci anni dall’ultima volta in cui Kelso si era avventurato a nord, sulla M8. Molte chiese dei villaggi, adibite a granai sin dai tempi della Rivoluzione, erano avvolte in incastellature di legno per essere restaurate. Vicino a Dvoriki, una cupola dorata sembrava assorbire la debole luce del sole, splendendo all’orizzonte come un falò autunnale.
O’Brian era nel suo elemento. «Sulla strada, via dalla città» ripeteva di tanto in tanto, «è splendido, non ti sembra? Semplicemente splendido.» Manteneva una velocità costante di 110 all’ora, parlava in continuazione, con una mano stringeva il volante e con l’altra batteva il tempo ascoltando una cassetta di musica rock.
«Semplicemente splendido»
La cartella con il quaderno, avvolta nella plastica, era appoggiata sul sedile posteriore insieme con uno stravagante campionario: due sacchi a pelo, biancheria intima termica («Ce l’hai i termici, Fluke? Sapessi come servono, quei termici!»), due giacconi imbottiti impermeabili, stivali di gomma (per Kelso) e militari (per O’Brian), binocolo normale, binocolo notturno a infrarossi, una vanga, una bussola, bottiglie d’acqua, pastiglie per potabilizzare l’acqua, due confezioni da sei lattine di birra Budweiser, due thermos pieni di caffè, fettuccine, una torcia elettrica, una trasmittente a onde corte, batterie di scorta, un pentolino elettrico da viaggio la cui spina poteva essere infilata nella presa dell’accendino dell’auto. A questo punto Kelso perse il conto e non riuscì ad andare avanti.
Nel vano portabagagli della Toyota erano state sistemate le taniche piene di benzina e quattro valigie metalliche con il logo dell’Sns. O’Brian ne enumerò il contenuto con orgoglio professionale: una videocamera digitale Camcorder miniaturizzata; un telefono satellitare Inmarsat; una moviola video Dvc-Pro delle dimensioni di un computer portatile e infine qualcosa che il giornalista chiamò Toko Video Store and Forward Unit. Valore complessivo di quelle quattro apparecchiature: 120.000 dollari.
«Ti è mai capitato di spostarti con una semplice borsa da viaggio?» gli chiese Kelso.
«Vuoi scherzare?» O’Brian sorrise. «Guarda che il peso è ridotto al massimo. A me bastano quattro valigie per portarmi dietro materiale che una volta prevedeva l’impiego di sei uomini e un camion. Se c’è del bagaglio in eccesso, amico mio, questo sei tu.»
«Non è stata mia l’idea di venire.»
Ma O’Brian non lo stava nemmeno ad ascoltare. Grazie a quelle quattro valigie, diceva, aveva mandato servizi da tutto il mondo. La carestia in Africa. I genocidi in Ruanda. La bomba in un villaggio dell’Irlanda del Nord che era riuscito a filmare mentre esplodeva (e grazie alla quale aveva vinto un premio giornalistico). Le fosse comuni in Bosnia. I missili che sorvolavano le case di Baghdad e sembravano seguire le strade, a destra, poi a sinistra, da quale parte per il palazzo presidenziale, per favore? Poi, naturalmente, la Cecenia. In Cecenia, purtroppo…
(Sei un uccello del malaugurio, pensò Kelso. Giri il mondo e dove ti fermi c’è carestia, morte, distruzione: in un’altra epoca, più semplice e credulona, i cittadini si sarebbero radunati ai primi segnali del tuo arrivo e ti avrebbero messo in fuga a sassate.)
… in Cecenia, purtroppo, stava dicendo O’Brian, era già tutto finito quando lui era arrivato. Aveva deciso quindi di fermarsi per qualche tempo a Mosca, una città da far paura. «Mille volte meglio Sarajevo, credimi.»
«Quanto pensi di rimanere a Mosca?»
«Non molto, fino alle elezioni presidenziali. Immagino che saranno divertenti.»
Divertenti?
«E poi dove pensi di trasferirti?»
«Chi lo sa? Perché me lo chiedi?»
«Così, per poterti stare alla larga.»
O’Brian rise e pigiò il piede sull’acceleratore. La lancetta del contachilometri si fermò sui 120.
Mantennero quella velocità, mentre calavano le ombre della sera e O’Brian continuava a parlare senza interruzione (Gesù, ma non si stancava mai?). All’altezza di Rostov la strada costeggiava un grande lago, con un imbarcadero ai due lati del quale erano ormeggiate le barche già ricoperte dai teli per l’inverno, accanto a una fila di capanne di legno. Kelso seguì con lo sguardo, al centro del lago, un’imbarcazione isolata, con la luce già accesa a poppa, che dondolava al vento puntando verso riva, e si sentì assalire da quella leggera depressione che provava sempre quando si faceva sera.
Alle sue spalle avvertiva la presenza materiale delle carte di Stalin, come se il Segretario Generale fosse seduto dietro di loro. Era preoccupato per Zinaida e aveva voglia di uno scotch e una sigaretta, ma nella Toyota O’Brian aveva messo il fumo al bando.
«Sei nervoso» disse il giornalista, interrompendo il suo monologo. «Si vede.»
«E ti meravigli?»
«Perché? Per Mamantov? Non mi spaventa.»
«Non hai visto come ha ridotto quel povero vecchio.»
«Posso immaginarlo. Ma se non è completamente pazzo si guarderà bene dal riservare lo stesso trattamento a noi. A un inglese e un americano, voglio dire.»
«Forse. Ma potrebbe prendersela con Zinaida.»
«Non mi preoccuperei tanto per Zinaida. Anche perché, ormai, quelle carte non le ha più lei. Le abbiamo noi.»
«Sei proprio simpatico, lo sai? E se non le credono?»
«Sto solo dicendo che non c’è alcun motivo di preoccuparsi di Mamantov, tutto qui. L’ho intervistato due volte e posso dirti che è uno pneumatico sgonfio. Vive nel passato, quello, come te.» Sorrise alla sua battuta.
«E tu? Tu non vivi nel passato, immagino.»
«Io? Neanche per sogno, non potrei permettermelo facendo questo lavoro.»
«Ah, sì? E allora vediamo un po’.» Kelso stava idealmente aprendo un cassetto per scegliere il coltello più affilato. «Se ho capito bene, secondo te il passato non è importante in quei Paesi dei quali ti sei riempito la bocca nelle ultime due ore, Africa, Bosnia, Medio Oriente, Irlanda del Nord. Vero? Credi che vivano tutti nel presente? Che si siano svegliati una mattina e, vedendo O’Brian e le sue quattro valigie, abbiano deciso di fare una guerra? Non era, per caso, già in corso quando sei arrivato? “Ehi, guardate tutti, sono R.J. O’Brian e ho appena scoperto questi Balcani del cazzo…”»
«Okay» biascicò il giornalista, «ora però non c’è bisogno di essere offensivi.»
«E invece sì che c’è.» Kelso si stava scaldando. «Perché questo è il grande mito della nostra epoca, capisci, il grande mito dell’Occidente. L’arroganza del nostro tempo si è personificata, scusami, in te. Quell’arroganza che porta a ritenere che, siccome in un Paese ci sono i McDonald’s e la Mtv e accettano l’American Express, questo Paese è uguale agli altri, non ha un passato, è all’Anno Zero. E invece no!»
«Ti senti migliore di me, vero?»
«No.»
«Più intelligente, allora?»
«Nemmeno. Sta’ a sentire, hai detto che Mosca è una città spaventosa e hai ragione. Ma lo sai perché? Te lo dico subito. Perché in Russia non esiste una tradizione di proprietà privata. All’inizio i lavoratori e i contadini non possedevano nulla e il Paese era in mano alla nobiltà. Poi lavoratori e contadini continuarono a non possedere nulla e il Paese divenne proprietà del partito. Ora ci sono ancora i lavoratori e i contadini a mani vuote e il Paese è, come sempre, di chi ha i pugni più grossi. Se non capisci questo, non capisci la Russia. Non puoi cogliere il senso del presente se una parte di te non vive nel passato.» Kelso tornò ad appoggiarsi allo schienale. «Fine della lezione.»
E per mezz’ora, mentre O’Brian meditava sulle parole del compagno di viaggio, nella Toyota scese un delizioso silenzio.
Arrivarono poco dopo le nove di sera a Jaroslavl, città di una certa dimensione, e attraversarono il Volga. Kelso riempì due bicchieri di caffè e se ne versò una parte addosso mentre percorrevano una strada dissestata, O’Brian lo bevve continuando a guidare. Mangiarono della cioccolata. La fila di fari in senso contrario che avevano trovato sulla circonvallazione era quasi completamente scomparsa.
«Vuoi che guidi io?» chiese Kelso.
O’Brian scosse il capo. «No, sto bene, diamoci il cambio a mezzanotte. Tu dovresti dormire un po’.»
Ascoltarono il notiziario radio delle dieci. Alla Duma, la maggioranza comunista e nazionalista stava bloccando le ultime misure decise dal presidente e c’era quindi la minaccia di una nuova crisi politica. Alla Borsa di Mosca le azioni avevano perduto in una sola settimana un quarto del loro valore. «Aurora» pubblicava, grazie a una soffiata, un rapporto segreto del ministro dell’Interno al presidente relativo alla concreta minaccia di una ribellione armata.
Di Rapava, di Mamantov e delle carte di Stalin non si faceva alcun cenno.
«Non dovresti essere a Mosca a seguire questi avvenimenti?»
O’Brian fece un gesto infastidito. «Cosa? “Nuova crisi politica in Russia”, sai che novità? Con roba del genere R.J. O’Brian non andrà mai in onda ogni ora.»
«Con le carte di Stalin invece sì?»
«“Abbiamo scoperto l’amante segreta di Stalin, la ragazza del mistero.” Che te ne pare?»
O’Brian spense la radio. Kelso si girò sul sedile e prese da quello posteriore un sacco a pelo, stendendoselo addosso come una coperta. Poi premette un pulsante e abbassò lo schienale.
Chiuse gli occhi ma non riusciva a prendere sonno, la sua mente era gradualmente invasa da immagini di Stalin. Stalin nella descrizione che ne aveva fatto Milovan Gilas subito dopo la guerra, seduto accanto all’autista nella berlina ufficiale che lo riportava al Bližnij, mentre accendeva una lucina per leggere l’ora su un orologio da polso appeso a un gancio sul cruscotto. “… avevo davanti ai miei occhi la sua schiena già incurvata e la pelle raggrinzita della nuca sopra il colletto duro dell’uniforme da maresciallo…” (Gilas, quella sera, aveva trovato Stalin molto invecchiato: a tavola il Segretario Generale si ingozzò di cibo, perse più di una volta il filo del discorso, raccontò barzellette sugli ebrei.)
E l’immagine di Stalin, meno di ...

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