Quando il respiro si fa aria
eBook - ePub

Quando il respiro si fa aria

Un medico, la sua malattia e il vero significato della vita

Paul Kalanithi, Manuela Faimali

Share book
  1. 168 pages
  2. Italian
  3. ePUB (mobile friendly)
  4. Available on iOS & Android
eBook - ePub

Quando il respiro si fa aria

Un medico, la sua malattia e il vero significato della vita

Paul Kalanithi, Manuela Faimali

Book details
Book preview
Table of contents
Citations

About This Book

La lezione di vita di un medico che si è trovato ad affrontare in prima persona la malattia.
A 36 anni, appena conclusa la scuola di specializzazione in neurochirurgia e con una brillante carriera davanti a sé, Paul Kalanithi scopre di avere un cancro ai polmoni in stato avanzato. Improvvisamente, da medico che si prende cura degli altri, Paul si ritrova, in una posizione diametralmente opposta, a lottare per la propria vita. Il futuro che lui e sua moglie avevano immaginato insieme evapora in un istante. Questo struggente memoir è la cronaca della trasformazione di Kalanithi da giovane studente di medicina, alla continua ricerca di cosa renda una vita piena di significato, a neurochirurgo di Stanford che si occupa di cervello, a paziente che deve affrontare una malattia mortale. Cosa rende la vita degna di essere vissuta quando ci si confronta con la morte? Cosa fare quando il futuro davanti a noi si appiattisce in un eterno presente? Cosa significa avere un figlio, nutrire una nuova esistenza mentre la propria svanisce? Sono solo alcune delle domande che Kalanithi si pone in questo memoir intenso e di grande scrittura. Paul è scomparso il 15 marzo 2015 mentre stava lavorando a questo libro, ma le sue parole sopravvivono: una riflessione indimenticabile sulle sfide che la morte ci obbliga ad affrontare e sulla relazione tra medico e paziente, da un brillante scrittore che è stato entrambe le cose.

Frequently asked questions

How do I cancel my subscription?
Simply head over to the account section in settings and click on “Cancel Subscription” - it’s as simple as that. After you cancel, your membership will stay active for the remainder of the time you’ve paid for. Learn more here.
Can/how do I download books?
At the moment all of our mobile-responsive ePub books are available to download via the app. Most of our PDFs are also available to download and we're working on making the final remaining ones downloadable now. Learn more here.
What is the difference between the pricing plans?
Both plans give you full access to the library and all of Perlego’s features. The only differences are the price and subscription period: With the annual plan you’ll save around 30% compared to 12 months on the monthly plan.
What is Perlego?
We are an online textbook subscription service, where you can get access to an entire online library for less than the price of a single book per month. With over 1 million books across 1000+ topics, we’ve got you covered! Learn more here.
Do you support text-to-speech?
Look out for the read-aloud symbol on your next book to see if you can listen to it. The read-aloud tool reads text aloud for you, highlighting the text as it is being read. You can pause it, speed it up and slow it down. Learn more here.
Is Quando il respiro si fa aria an online PDF/ePUB?
Yes, you can access Quando il respiro si fa aria by Paul Kalanithi, Manuela Faimali in PDF and/or ePUB format, as well as other popular books in Technology & Engineering & Science & Technology Biographies. We have over one million books available in our catalogue for you to explore.
Parte prima

IN PERFETTA SALUTE, INCOMINCIO

La mano del Signore fu sopra di me e il Signore mi trasportò mediante lo spirito e mi depose in mezzo a una valle piena d’ossa; mi fece passare presso di esse, tutt’attorno. Ecco erano numerosissime sulla superficie della valle, ed erano anche molto secche. Mi disse: «Figlio d’uomo, queste ossa potrebbero rivivere?».
EZECHIELE 37, 1-3
Avevo la certezza che non sarei mai diventato un medico. Sdraiato al sole, mi stavo rilassando su un altopiano deserto sopra la nostra casa. Mio zio, un medico come molti miei parenti, quel giorno mi aveva chiesto quale carriera avessi intenzione di intraprendere, ora che il college era alle porte, e io non avevo dato peso alla sua domanda. Se fossi stato costretto a rispondere, credo che avrei detto lo scrittore, ma sinceramente in quel momento qualsiasi idea di carriera mi sembrava assurda. Nel giro di poche settimane avrei lasciato quella cittadina dell’Arizona, e non mi sentivo come uno che si prepara a fare carriera ma piuttosto come un elettrone ronzante che sta per raggiungere la velocità di fuga, catapultato verso uno strano universo sfavillante.
Mentre ero sdraiato sul terriccio, inondato dal sole e dai ricordi, avevo la sensazione che quella cittadina di quindicimila anime, distante quasi mille chilometri dal mio nuovo dormitorio di Stanford e dal suo carico di promesse, si stesse rimpicciolendo.
Conoscevo la medicina solo per la sua assenza: nello specifico, l’assenza di un padre mentre stai crescendo, uno che andava al lavoro prima dell’alba e tornava con il buio per una cena riscaldata. Quando avevo dieci anni, mio padre ci aveva costretti a trasferirci – tre figli maschi di quattordici, dieci e otto anni – da Bronxville, New York, un sobborgo denso e benestante poco a nord di Manhattan, a Kingman, in una valle desertica dell’Arizona cinta da due catene montuose, nota al mondo esterno soprattutto come tappa dove fare rifornimento per raggiungere altre destinazioni. Ad attrarlo erano stati il sole, il costo della vita – altrimenti dove avrebbe trovato i soldi per iscrivere i figli ai college ai quali aspirava? – e l’opportunità di aprire un ambulatorio regionale di cardiologia tutto suo. La sua tenace dedizione ai pazienti lo aveva reso presto un membro rispettato della comunità. Le poche volte in cui lo vedevamo, a tarda sera o nei fine settimana, era un miscuglio di gesti d’affetto e diktat severi, di abbracci e baci frammisti a spietate asserzioni: «È facilissimo essere il numero uno: basta trovare il tizio che è il numero uno e segnare un punto più di lui». Nella sua mente era giunto a una sorta di compromesso secondo cui la paternità poteva essere distillata; qualche esplosione, breve e concentrata (ma sincera), ad alta intensità poteva eguagliare… quello che facevano gli altri padri, qualunque cosa fosse. Io sapevo solo che, se quello era il prezzo della medicina, era semplicemente troppo alto.
Dal mio altopiano desolato riuscivo a scorgere la nostra casa ai piedi delle Cerbat Mountains, appena fuori dai confini della città, in mezzo a un deserto di roccia rossa punteggiato di mesquite, cespugli rotolanti e cactus a forma di pale. Là i turbini di polvere sbucavano dal nulla e offuscavano la vista prima di disperdersi. Gli spazi si spiegavano a perdita d’occhio, fino a scomparire in lontananza. I nostri due cani, Max e Nip, non si stancavano mai della libertà. Ogni giorno si avventuravano nel deserto e portavano a casa qualche nuovo tesoro: la zampa di un cervo, avanzi di lepre da mangiare più tardi, il teschio di un cavallo sbiancato dal sole, la mascella di un coyote.
Anche i miei amici e io amavamo la libertà, e passavamo i pomeriggi esplorando, camminando, perlustrando il deserto in cerca di ossa e di rari corsi d’acqua. Dopo avere vissuto per anni in un sobborgo leggermente boschivo nel Nordest, con una via principale fiancheggiata da alberi e un negozio di dolciumi, il deserto selvaggio e ventoso mi appariva alieno e allettante. Durante la mia prima escursione solitaria, a dieci anni, avevo scoperto una vecchia grata per l’irrigazione. L’avevo aperta, sollevandola con le dita, e lì, a pochi centimetri dal mio viso, avevo visto tre ragnatele bianche e setose, occupate ciascuna da un corpo bulboso, nero e lucente, che avanzava sulle zampe affusolate: avevo scorto così, in tutto il suo fulgore, la tanto temuta clessidra rosso sangue. Accanto a ciascun ragno, una sacca pallida e pulsante segnalava la nascita imminente di una moltitudine di vedove nere. Avevo lasciato cadere la grata in preda all’orrore, incespicando all’indietro. Era stato uno dei cosiddetti «fatti di campagna» a scatenare quell’orrore («Non c’è niente di più letale del morso della vedova nera…»), insieme alla postura disumana, al fulgore nero e alla clessidra rossa. Avrei avuto gli incubi per anni.
Il deserto offriva un pantheon di terrori: tarantole, ragni lupo, ragni violino, scorpioni corteccia, uropigi, centopiedi, crotali adamantini, crotali cerasti, crotali del Mojave. Alla fine avevamo familiarizzato con queste creature, e ci convivevamo in tranquillità. Quando i miei amici e io scovavamo il nido di un ragno lupo, ci divertivamo a piazzare una formica lungo il margine esterno e osservavamo i suoi ingarbugliati tentativi di fuga che irradiavano tremiti lungo i fili di seta, fino all’oscura cavità centrale del ragno, anticipando il momento fatale in cui sarebbe sbucato di scatto dai suoi abissi ghermendo con le mandibole la formica condannata. Avevo finito per inquadrare i «fatti di campagna» come i cugini rurali delle leggende metropolitane. Via via che li apprendevo, questi conferivano poteri sovrannaturali alle creature del deserto, rendendo il mostro di Gila, per citarne uno, non meno reale della Gorgone. Solo dopo avere vissuto per un po’ nel deserto ci eravamo resi conto che alcuni fatti di campagna, come l’esistenza delle lepri cornute, erano stati creati di proposito per confondere la gente di città e divertire i locali. Una volta avevo passato un’ora cercando di convincere un gruppo di studenti berlinesi in visita di scambio che sì, esisteva davvero una specie particolare di coyote che viveva dentro i cactus e poteva saltare anche dieci metri per attaccare le sue prede (per esempio, certi tedeschi ignari). Eppure nessuno sapeva riconoscere esattamente la verità fra i turbini di sabbia; per ogni fatto di campagna all’apparenza illogico, ce n’era uno che sembrava vero e concreto. «Controlla sempre di non avere scorpioni nelle scarpe», per esempio, sembrava semplice buonsenso.
A sedici anni accompagnavo a scuola in macchina mio fratello minore, Jeevan. Una mattina ero in ritardo come al solito, e Jeevan aspettava spazientito in anticamera, gridando che non gli andava di essere trattenuto di nuovo dopo le lezioni per colpa della mia lentezza, e pregandomi di darmi una mossa. Allora avevo sceso le scale di corsa, spalancato la porta d’ingresso… e per poco non calpestavo un serpente a sonagli lungo quasi due metri, appisolato. A sentire un altro fatto di campagna, se uccidi un serpente a sonagli sulla porta di casa il suo compagno e la sua prole vi faranno un nido permanente, come la madre di Grendel in cerca di vendetta. Così Jeevan e io avevamo tirato a sorte: il fortunato aveva preso una pala, lo sfortunato un paio di guanti spessi da giardinaggio e la federa di un cuscino, e praticando una danza tra il serio e il faceto eravamo riusciti a infilare il serpente nella federa. Poi, come un campione olimpico di lancio del martello, avevo scagliato il fagotto nel deserto, ripromettendomi di recuperare la federa nel pomeriggio, per non finire nei guai con nostra madre.
Dei molti misteri della nostra infanzia, il principale non era perché nostro padre avesse deciso di condurre la propria famiglia nella cittadina desertica di Kingman, Arizona, che avevamo imparato ad amare, ma come fosse riuscito a convincere mia madre a seguirlo. I due innamorati erano fuggiti da un capo all’altro del mondo, dal Sud dell’India a New York City (lui cristiano, lei induista, il loro matrimonio era stato condannato da entrambe le parti, scatenando annosi dissensi familiari: la madre di mia madre non aveva mai accettato il mio nome, Paul, insistendo perché venissi chiamato con il mio secondo nome, Sudhir) fino all’Arizona, dove mia madre si era dovuta confrontare con un terrore cieco e feroce per i serpenti. Anche il più piccolo, il più carino, il più innocuo dei colubridi la faceva correre in casa urlando, dopodiché chiudeva le porte a chiave e si armava con il primo attrezzo che le capitava a tiro, purché fosse grande e appuntito: un rastrello, una mannaia, un’ascia.
I serpenti erano una fonte d’ansia costante per mia madre, ma era soprattutto il futuro dei suoi figli a preoccuparla. Prima che ci trasferissimo, mio fratello Suman, il maggiore, aveva quasi terminato il liceo nella contea di Westchester, che gli avrebbe aperto le porte di un college d’élite. Era stato accettato a Stanford poco dopo il nostro arrivo a Kingman, ed era partito quasi subito. Ma Kingman non era Westchester, come capimmo presto. Nel sondare il sistema delle scuole pubbliche nella contea di Mohave, mia madre rimase sconvolta. Secondo i dati censuari degli Stati Uniti, Kingman era allora il distretto meno istruito d’America. Il tasso di abbandono scolastico nei licei si aggirava sopra il trenta percento. Pochi studenti si iscrivevano al college, e senz’altro nessuno a Harvard, che per mio padre era un esempio di eccellenza. Quando mia madre chiamò amici e parenti dai sobborghi agiati della East Coast per chiedere consiglio, qualcuno si mostrò solidale, qualcun altro fu sollevato che i figli non dovessero più competere con i Kalanithi, d’un tratto tagliati fuori dall’istruzione.
Di notte piangeva, singhiozzando da sola nel letto. Nel timore che la miseria del sistema scolastico potesse ostacolare i suoi figli, si procurò chissà dove un «elenco di letture propedeutiche al college». Mia madre, che in India aveva studiato per diventare fisiologa, che si era sposata a ventitré anni e che si crucciava al pensiero di crescere tre figli in un paese diverso dal suo, aveva letto pochissimi libri di quella lista ma avrebbe provveduto a farli conoscere ai figli. A dieci anni mi fece leggere 1984; rimasi scandalizzato dal sesso, ma mi instillò anche un profondo amore e una profonda attenzione per la lingua.
A quello seguirono schiere interminabili di libri e autori, scorrendo metodicamente l’elenco: Il conte di Montecristo, Edgar Allan Poe, Robinson Crusoe, Ivanhoe, Gogol, L’ultimo dei Mohicani, Dickens, Twain, Austen, Billy Budd… A dodici anni cominciai a scegliermi i libri da solo, e mio fratello Suman mi spediva quelli che aveva letto al college: Il Principe, Don Chisciotte, Candido, La morte di Artù, Beowulf, Thoreau, Sartre, Camus. Alcuni lasciarono un segno più profondo di altri. Il mondo nuovo gettò le basi per la mia nascente filosofia morale, e diventò l’argomento del mio saggio di ammissione al college, nel quale argomentavo che non è la felicità lo scopo della vita. L’Amleto mi sostenne migliaia di volte durante le tipiche crisi adolescenziali. Alla sua amante ritrosa e altre liriche romantiche procurarono a me e ai miei amici tante allegre disavventure negli anni del liceo. Spesso, per dirne una, uscivamo di nascosto, di notte, per cantare American Pie sotto la finestra della capitana delle cheerleader. (Il padre era un ministro del culto locale, perciò lo ritenevamo meno incline a spararci.) Dopo avermi sorpreso, all’alba, al ritorno da una di queste bravate notturne, mia madre, preoccupata, mi sottopose a un interrogatorio minuzioso in merito a tutte le droghe assunte dagli adolescenti, senza sospettare che la mia esperienza più inebriante fino a quel momento fosse stata il volume di poesie romantiche che mi aveva dato lei stessa la settimana precedente. I libri divennero i miei più intimi confidenti, lenti ben smerigliate che mi offrivano nuove visioni del mondo.
Nei suoi sforzi per assicurare un’istruzione ai figli, mia madre ci accompagnò a più di centosessanta chilometri a nord, fino alla grande città più vicina, Las Vegas, dove sostenemmo vari test standardizzati per l’ammissione al college. Entrò nel consiglio scolastico, convocò gli insegnanti e pretese che si aggiungessero alcuni corsi avanzati al curriculum. Era un fenomeno: si accollò il compito di trasformare il sistema scolastico di Kingman, e ci riuscì. All’improvviso, noi liceali avevamo l’impressione che le due catene montuose che cingevano la cittadina non demarcassero più l’orizzonte: l’orizzonte era ciò che si spiegava al di là dei monti.
All’ultimo anno, il mio caro amico Leo, il nostro salutatorian, cioè il secondo migliore studente diplomato della scuola, oltre che il ragazzo più povero che conoscessi, fu chiamato dall’addetto all’orientamento, che gli disse: «Sei brillante, dovresti entrare nell’esercito».
Leo me ne parlò. «’fanculo» disse. «Se tu vai a Harvard, Yale o Stanford, allora ci vado anch’io.»
Non so se fossi più felice quando ammisero me a Stanford o quando Leo venne ammesso a Yale.
L’estate passò, e dato che le lezioni a Stanford cominciavano un mese dopo rispetto alle altre scuole, tutti i miei amici si dispersero e mi ritrovai solo. Al pomeriggio andavo quasi sempre nel deserto per i fatti miei, a dormicchiare e a riflettere, finché la mia ragazza Abigail non finiva il turno all’unica tavola calda di Kingman. Il deserto offriva una scorciatoia, attraverso i monti e poi giù fino in città, e andare a piedi era molto più divertente che in macchina. Abigail aveva poco più di vent’anni, era iscritta allo Scripps College, e non volendo chiedere prestiti si era presa un semestre di pausa per mettere da parte i soldi per la retta. Ero attratto dalla sua mondanità, dalla sensazione che conoscesse i segreti riservati a chi ha frequentato il college – aveva studiato psicologia! –, e ci incontravamo spesso quando staccava dal lavoro. Era un’ambasciatrice della clandestinità, di quel nuovo mondo che mi avrebbe accolto nel giro di poche settimane. Un pomeriggio alzai gli occhi dopo un pisolino e vidi gli avvoltoi volteggiare in cerchio sopra di me: mi credevano una carogna. Controllai l’orologio: erano quasi le tre. Avrei fatto tardi. Diedi una scrollata ai jeans e mi misi a correre per il deserto, finché la sabbia non lasciò il posto all’asfalto, poi comparvero i primi edifici, e girando l’angolo trovai Abigail, scopa alla mano, che spazzava la veranda del locale.
«Ho già pulito la macchina del caffè» disse. «Per oggi dovrai rinunciare al tuo caffellatte con ghiaccio.»
Dopo che ebbe spazzato anche i pavimenti, entrammo. Abigail andò al registratore di cassa e prese un libro in brossura che aveva nascosto lì. «Tieni» disse, lanciandomelo. «Dovresti leggerlo. Leggi sempre e solo quella robaccia di alta cultura… Perché non provi qualcosa più terra terra, per una volta?»
Era un romanzo di cinquecento pagine, scritto da Jeremy Leven e intitolato Satan: His Psychotherapy and Cure by the Unfortunate Dr. Kassler, J.S.P.S. Lo portai a casa e lo lessi in un giorno. No, non era alta cultura. Avrebbe voluto essere divertente, ma non lo era. Tuttavia, ipotizzava con una certa disinvoltura che la mente non fosse altro che l’attività del cervello, e questa idea mi colpì con forza, dando uno scossone alla mia ingenua visione del mondo. Non poteva che essere vero – cosa farebbero i nostri cervelli altrimenti? pur essendo dotati di libero arbitrio, noi siamo anche organismi biologici –, il cervello è un organo, per altro soggetto a tutte le leggi della fisica! Mentre la letteratura fornisce un ampio resoconto del significato dell’essere umano, il cervello sarebbe l’ingranaggio che in qualche modo lo rende possibile. Mi sembrava una magia. Quella sera, nella mia stanza, aprii il catalogo rosso dei corsi di Stanford, che avevo letto da cima a fondo decine di volte, e presi un evidenziatore. Oltre ai vari corsi di letteratura che avevo segnato, cominciai a interessarmi anche a biologia e neuroscienze.
A distanza di qualche anno non avevo ancora riflettuto a fondo sulla mia carriera, sebbene stessi per laurearmi in letteratura inglese e biologia. A guidarmi non era tanto la sete di successo ma piuttosto il tentativo di comprendere, fino in fondo, cosa desse significato alla vita umana. Avevo ancora la sensazione che la letteratura offrisse il miglior resoconto possibile della vita della mente, mentre le neuroscienze stabilivano le più raffinate regole del cervello. Il concetto di significato, per quanto sfuggente, sembrava inestricabile dai rapporti umani e dai valori morali. La terra desolata di T.S. Eliot mi colpì profondamente poiché collegava tra loro l’insensatezza, l’isolamento e la disperata ricerca di contatto umano. Sentivo le metafore di Eliot infiltrarsi nel mio linguaggio. Mi colpirono anche altri autori. Nabokov, per la sua consapevolezza di come la nostra sofferenza possa renderci insensibili alla evidente sofferenza degli altri. Conrad, per la sua finissima comprensione di quanto profondamente incida la comunicazione inefficace sulla vita delle persone. La letteratura non illuminava solo le esperienze altrui, ...

Table of contents