Quando il respiro si fa aria
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Quando il respiro si fa aria

Un medico, la sua malattia e il vero significato della vita

Paul Kalanithi, Manuela Faimali

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Quando il respiro si fa aria

Un medico, la sua malattia e il vero significato della vita

Paul Kalanithi, Manuela Faimali

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La lezione di vita di un medico che si Ăš trovato ad affrontare in prima persona la malattia.
A 36 anni, appena conclusa la scuola di specializzazione in neurochirurgia e con una brillante carriera davanti a sé, Paul Kalanithi scopre di avere un cancro ai polmoni in stato avanzato. Improvvisamente, da medico che si prende cura degli altri, Paul si ritrova, in una posizione diametralmente opposta, a lottare per la propria vita. Il futuro che lui e sua moglie avevano immaginato insieme evapora in un istante. Questo struggente memoir Ú la cronaca della trasformazione di Kalanithi da giovane studente di medicina, alla continua ricerca di cosa renda una vita piena di significato, a neurochirurgo di Stanford che si occupa di cervello, a paziente che deve affrontare una malattia mortale. Cosa rende la vita degna di essere vissuta quando ci si confronta con la morte? Cosa fare quando il futuro davanti a noi si appiattisce in un eterno presente? Cosa significa avere un figlio, nutrire una nuova esistenza mentre la propria svanisce? Sono solo alcune delle domande che Kalanithi si pone in questo memoir intenso e di grande scrittura. Paul Ú scomparso il 15 marzo 2015 mentre stava lavorando a questo libro, ma le sue parole sopravvivono: una riflessione indimenticabile sulle sfide che la morte ci obbliga ad affrontare e sulla relazione tra medico e paziente, da un brillante scrittore che Ú stato entrambe le cose.

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Information

Parte prima

IN PERFETTA SALUTE, INCOMINCIO

La mano del Signore fu sopra di me e il Signore mi trasportĂČ mediante lo spirito e mi depose in mezzo a una valle piena d’ossa; mi fece passare presso di esse, tutt’attorno. Ecco erano numerosissime sulla superficie della valle, ed erano anche molto secche. Mi disse: «Figlio d’uomo, queste ossa potrebbero rivivere?».
EZECHIELE 37, 1-3
Avevo la certezza che non sarei mai diventato un medico. Sdraiato al sole, mi stavo rilassando su un altopiano deserto sopra la nostra casa. Mio zio, un medico come molti miei parenti, quel giorno mi aveva chiesto quale carriera avessi intenzione di intraprendere, ora che il college era alle porte, e io non avevo dato peso alla sua domanda. Se fossi stato costretto a rispondere, credo che avrei detto lo scrittore, ma sinceramente in quel momento qualsiasi idea di carriera mi sembrava assurda. Nel giro di poche settimane avrei lasciato quella cittadina dell’Arizona, e non mi sentivo come uno che si prepara a fare carriera ma piuttosto come un elettrone ronzante che sta per raggiungere la velocità di fuga, catapultato verso uno strano universo sfavillante.
Mentre ero sdraiato sul terriccio, inondato dal sole e dai ricordi, avevo la sensazione che quella cittadina di quindicimila anime, distante quasi mille chilometri dal mio nuovo dormitorio di Stanford e dal suo carico di promesse, si stesse rimpicciolendo.
Conoscevo la medicina solo per la sua assenza: nello specifico, l’assenza di un padre mentre stai crescendo, uno che andava al lavoro prima dell’alba e tornava con il buio per una cena riscaldata. Quando avevo dieci anni, mio padre ci aveva costretti a trasferirci – tre figli maschi di quattordici, dieci e otto anni – da Bronxville, New York, un sobborgo denso e benestante poco a nord di Manhattan, a Kingman, in una valle desertica dell’Arizona cinta da due catene montuose, nota al mondo esterno soprattutto come tappa dove fare rifornimento per raggiungere altre destinazioni. Ad attrarlo erano stati il sole, il costo della vita – altrimenti dove avrebbe trovato i soldi per iscrivere i figli ai college ai quali aspirava? – e l’opportunitĂ  di aprire un ambulatorio regionale di cardiologia tutto suo. La sua tenace dedizione ai pazienti lo aveva reso presto un membro rispettato della comunitĂ . Le poche volte in cui lo vedevamo, a tarda sera o nei fine settimana, era un miscuglio di gesti d’affetto e diktat severi, di abbracci e baci frammisti a spietate asserzioni: «È facilissimo essere il numero uno: basta trovare il tizio che Ăš il numero uno e segnare un punto piĂč di lui». Nella sua mente era giunto a una sorta di compromesso secondo cui la paternitĂ  poteva essere distillata; qualche esplosione, breve e concentrata (ma sincera), ad alta intensitĂ  poteva eguagliare
 quello che facevano gli altri padri, qualunque cosa fosse. Io sapevo solo che, se quello era il prezzo della medicina, era semplicemente troppo alto.
Dal mio altopiano desolato riuscivo a scorgere la nostra casa ai piedi delle Cerbat Mountains, appena fuori dai confini della cittĂ , in mezzo a un deserto di roccia rossa punteggiato di mesquite, cespugli rotolanti e cactus a forma di pale. LĂ  i turbini di polvere sbucavano dal nulla e offuscavano la vista prima di disperdersi. Gli spazi si spiegavano a perdita d’occhio, fino a scomparire in lontananza. I nostri due cani, Max e Nip, non si stancavano mai della libertĂ . Ogni giorno si avventuravano nel deserto e portavano a casa qualche nuovo tesoro: la zampa di un cervo, avanzi di lepre da mangiare piĂč tardi, il teschio di un cavallo sbiancato dal sole, la mascella di un coyote.
Anche i miei amici e io amavamo la libertĂ , e passavamo i pomeriggi esplorando, camminando, perlustrando il deserto in cerca di ossa e di rari corsi d’acqua. Dopo avere vissuto per anni in un sobborgo leggermente boschivo nel Nordest, con una via principale fiancheggiata da alberi e un negozio di dolciumi, il deserto selvaggio e ventoso mi appariva alieno e allettante. Durante la mia prima escursione solitaria, a dieci anni, avevo scoperto una vecchia grata per l’irrigazione. L’avevo aperta, sollevandola con le dita, e lĂŹ, a pochi centimetri dal mio viso, avevo visto tre ragnatele bianche e setose, occupate ciascuna da un corpo bulboso, nero e lucente, che avanzava sulle zampe affusolate: avevo scorto cosĂŹ, in tutto il suo fulgore, la tanto temuta clessidra rosso sangue. Accanto a ciascun ragno, una sacca pallida e pulsante segnalava la nascita imminente di una moltitudine di vedove nere. Avevo lasciato cadere la grata in preda all’orrore, incespicando all’indietro. Era stato uno dei cosiddetti «fatti di campagna» a scatenare quell’orrore («Non c’ù niente di piĂč letale del morso della vedova nera »), insieme alla postura disumana, al fulgore nero e alla clessidra rossa. Avrei avuto gli incubi per anni.
Il deserto offriva un pantheon di terrori: tarantole, ragni lupo, ragni violino, scorpioni corteccia, uropigi, centopiedi, crotali adamantini, crotali cerasti, crotali del Mojave. Alla fine avevamo familiarizzato con queste creature, e ci convivevamo in tranquillitĂ . Quando i miei amici e io scovavamo il nido di un ragno lupo, ci divertivamo a piazzare una formica lungo il margine esterno e osservavamo i suoi ingarbugliati tentativi di fuga che irradiavano tremiti lungo i fili di seta, fino all’oscura cavitĂ  centrale del ragno, anticipando il momento fatale in cui sarebbe sbucato di scatto dai suoi abissi ghermendo con le mandibole la formica condannata. Avevo finito per inquadrare i «fatti di campagna» come i cugini rurali delle leggende metropolitane. Via via che li apprendevo, questi conferivano poteri sovrannaturali alle creature del deserto, rendendo il mostro di Gila, per citarne uno, non meno reale della Gorgone. Solo dopo avere vissuto per un po’ nel deserto ci eravamo resi conto che alcuni fatti di campagna, come l’esistenza delle lepri cornute, erano stati creati di proposito per confondere la gente di cittĂ  e divertire i locali. Una volta avevo passato un’ora cercando di convincere un gruppo di studenti berlinesi in visita di scambio che sĂŹ, esisteva davvero una specie particolare di coyote che viveva dentro i cactus e poteva saltare anche dieci metri per attaccare le sue prede (per esempio, certi tedeschi ignari). Eppure nessuno sapeva riconoscere esattamente la veritĂ  fra i turbini di sabbia; per ogni fatto di campagna all’apparenza illogico, ce n’era uno che sembrava vero e concreto. «Controlla sempre di non avere scorpioni nelle scarpe», per esempio, sembrava semplice buonsenso.
A sedici anni accompagnavo a scuola in macchina mio fratello minore, Jeevan. Una mattina ero in ritardo come al solito, e Jeevan aspettava spazientito in anticamera, gridando che non gli andava di essere trattenuto di nuovo dopo le lezioni per colpa della mia lentezza, e pregandomi di darmi una mossa. Allora avevo sceso le scale di corsa, spalancato la porta d’ingresso
 e per poco non calpestavo un serpente a sonagli lungo quasi due metri, appisolato. A sentire un altro fatto di campagna, se uccidi un serpente a sonagli sulla porta di casa il suo compagno e la sua prole vi faranno un nido permanente, come la madre di Grendel in cerca di vendetta. Così Jeevan e io avevamo tirato a sorte: il fortunato aveva preso una pala, lo sfortunato un paio di guanti spessi da giardinaggio e la federa di un cuscino, e praticando una danza tra il serio e il faceto eravamo riusciti a infilare il serpente nella federa. Poi, come un campione olimpico di lancio del martello, avevo scagliato il fagotto nel deserto, ripromettendomi di recuperare la federa nel pomeriggio, per non finire nei guai con nostra madre.
Dei molti misteri della nostra infanzia, il principale non era perchĂ© nostro padre avesse deciso di condurre la propria famiglia nella cittadina desertica di Kingman, Arizona, che avevamo imparato ad amare, ma come fosse riuscito a convincere mia madre a seguirlo. I due innamorati erano fuggiti da un capo all’altro del mondo, dal Sud dell’India a New York City (lui cristiano, lei induista, il loro matrimonio era stato condannato da entrambe le parti, scatenando annosi dissensi familiari: la madre di mia madre non aveva mai accettato il mio nome, Paul, insistendo perchĂ© venissi chiamato con il mio secondo nome, Sudhir) fino all’Arizona, dove mia madre si era dovuta confrontare con un terrore cieco e feroce per i serpenti. Anche il piĂč piccolo, il piĂč carino, il piĂč innocuo dei colubridi la faceva correre in casa urlando, dopodichĂ© chiudeva le porte a chiave e si armava con il primo attrezzo che le capitava a tiro, purchĂ© fosse grande e appuntito: un rastrello, una mannaia, un’ascia.
I serpenti erano una fonte d’ansia costante per mia madre, ma era soprattutto il futuro dei suoi figli a preoccuparla. Prima che ci trasferissimo, mio fratello Suman, il maggiore, aveva quasi terminato il liceo nella contea di Westchester, che gli avrebbe aperto le porte di un college d’élite. Era stato accettato a Stanford poco dopo il nostro arrivo a Kingman, ed era partito quasi subito. Ma Kingman non era Westchester, come capimmo presto. Nel sondare il sistema delle scuole pubbliche nella contea di Mohave, mia madre rimase sconvolta. Secondo i dati censuari degli Stati Uniti, Kingman era allora il distretto meno istruito d’America. Il tasso di abbandono scolastico nei licei si aggirava sopra il trenta percento. Pochi studenti si iscrivevano al college, e senz’altro nessuno a Harvard, che per mio padre era un esempio di eccellenza. Quando mia madre chiamĂČ amici e parenti dai sobborghi agiati della East Coast per chiedere consiglio, qualcuno si mostrĂČ solidale, qualcun altro fu sollevato che i figli non dovessero piĂč competere con i Kalanithi, d’un tratto tagliati fuori dall’istruzione.
Di notte piangeva, singhiozzando da sola nel letto. Nel timore che la miseria del sistema scolastico potesse ostacolare i suoi figli, si procurĂČ chissĂ  dove un «elenco di letture propedeutiche al college». Mia madre, che in India aveva studiato per diventare fisiologa, che si era sposata a ventitrĂ© anni e che si crucciava al pensiero di crescere tre figli in un paese diverso dal suo, aveva letto pochissimi libri di quella lista ma avrebbe provveduto a farli conoscere ai figli. A dieci anni mi fece leggere 1984; rimasi scandalizzato dal sesso, ma mi instillĂČ anche un profondo amore e una profonda attenzione per la lingua.
A quello seguirono schiere interminabili di libri e autori, scorrendo metodicamente l’elenco: Il conte di Montecristo, Edgar Allan Poe, Robinson Crusoe, Ivanhoe, Gogol, L’ultimo dei Mohicani, Dickens, Twain, Austen, Billy Budd
 A dodici anni cominciai a scegliermi i libri da solo, e mio fratello Suman mi spediva quelli che aveva letto al college: Il Principe, Don Chisciotte, Candido, La morte di ArtĂč, Beowulf, Thoreau, Sartre, Camus. Alcuni lasciarono un segno piĂč profondo di altri. Il mondo nuovo gettĂČ le basi per la mia nascente filosofia morale, e diventĂČ l’argomento del mio saggio di ammissione al college, nel quale argomentavo che non Ăš la felicitĂ  lo scopo della vita. L’Amleto mi sostenne migliaia di volte durante le tipiche crisi adolescenziali. Alla sua amante ritrosa e altre liriche romantiche procurarono a me e ai miei amici tante allegre disavventure negli anni del liceo. Spesso, per dirne una, uscivamo di nascosto, di notte, per cantare American Pie sotto la finestra della capitana delle cheerleader. (Il padre era un ministro del culto locale, perciĂČ lo ritenevamo meno incline a spararci.) Dopo avermi sorpreso, all’alba, al ritorno da una di queste bravate notturne, mia madre, preoccupata, mi sottopose a un interrogatorio minuzioso in merito a tutte le droghe assunte dagli adolescenti, senza sospettare che la mia esperienza piĂč inebriante fino a quel momento fosse stata il volume di poesie romantiche che mi aveva dato lei stessa la settimana precedente. I libri divennero i miei piĂč intimi confidenti, lenti ben smerigliate che mi offrivano nuove visioni del mondo.
Nei suoi sforzi per assicurare un’istruzione ai figli, mia madre ci accompagnĂČ a piĂč di centosessanta chilometri a nord, fino alla grande cittĂ  piĂč vicina, Las Vegas, dove sostenemmo vari test standardizzati per l’ammissione al college. EntrĂČ nel consiglio scolastico, convocĂČ gli insegnanti e pretese che si aggiungessero alcuni corsi avanzati al curriculum. Era un fenomeno: si accollĂČ il compito di trasformare il sistema scolastico di Kingman, e ci riuscĂŹ. All’improvviso, noi liceali avevamo l’impressione che le due catene montuose che cingevano la cittadina non demarcassero piĂč l’orizzonte: l’orizzonte era ciĂČ che si spiegava al di lĂ  dei monti.
All’ultimo anno, il mio caro amico Leo, il nostro salutatorian, cioĂš il secondo migliore studente diplomato della scuola, oltre che il ragazzo piĂč povero che conoscessi, fu chiamato dall’addetto all’orientamento, che gli disse: «Sei brillante, dovresti entrare nell’esercito».
Leo me ne parlĂČ. «’fanculo» disse. «Se tu vai a Harvard, Yale o Stanford, allora ci vado anch’io.»
Non so se fossi piĂč felice quando ammisero me a Stanford o quando Leo venne ammesso a Yale.
L’estate passĂČ, e dato che le lezioni a Stanford cominciavano un mese dopo rispetto alle altre scuole, tutti i miei amici si dispersero e mi ritrovai solo. Al pomeriggio andavo quasi sempre nel deserto per i fatti miei, a dormicchiare e a riflettere, finchĂ© la mia ragazza Abigail non finiva il turno all’unica tavola calda di Kingman. Il deserto offriva una scorciatoia, attraverso i monti e poi giĂč fino in cittĂ , e andare a piedi era molto piĂč divertente che in macchina. Abigail aveva poco piĂč di vent’anni, era iscritta allo Scripps College, e non volendo chiedere prestiti si era presa un semestre di pausa per mettere da parte i soldi per la retta. Ero attratto dalla sua mondanitĂ , dalla sensazione che conoscesse i segreti riservati a chi ha frequentato il college – aveva studiato psicologia! –, e ci incontravamo spesso quando staccava dal lavoro. Era un’ambasciatrice della clandestinitĂ , di quel nuovo mondo che mi avrebbe accolto nel giro di poche settimane. Un pomeriggio alzai gli occhi dopo un pisolino e vidi gli avvoltoi volteggiare in cerchio sopra di me: mi credevano una carogna. Controllai l’orologio: erano quasi le tre. Avrei fatto tardi. Diedi una scrollata ai jeans e mi misi a correre per il deserto, finchĂ© la sabbia non lasciĂČ il posto all’asfalto, poi comparvero i primi edifici, e girando l’angolo trovai Abigail, scopa alla mano, che spazzava la veranda del locale.
«Ho già pulito la macchina del caffÚ» disse. «Per oggi dovrai rinunciare al tuo caffellatte con ghiaccio.»
Dopo che ebbe spazzato anche i pavimenti, entrammo. Abigail andĂČ al registratore di cassa e prese un libro in brossura che aveva nascosto lĂŹ. «Tieni» disse, lanciandomelo. «Dovresti leggerlo. Leggi sempre e solo quella robaccia di alta cultura
 PerchĂ© non provi qualcosa piĂč terra terra, per una volta?»
Era un romanzo di cinquecento pagine, scritto da Jeremy Leven e intitolato Satan: His Psychotherapy and Cure by the Unfortunate Dr. Kassler, J.S.P.S. Lo portai a casa e lo lessi in un giorno. No, non era alta cultura. Avrebbe voluto essere divertente, ma non lo era. Tuttavia, ipotizzava con una certa disinvoltura che la mente non fosse altro che l’attività del cervello, e questa idea mi colpì con forza, dando uno scossone alla mia ingenua visione del mondo. Non poteva che essere vero – cosa farebbero i nostri cervelli altrimenti? pur essendo dotati di libero arbitrio, noi siamo anche organismi biologici –, il cervello ù un organo, per altro soggetto a tutte le leggi della fisica! Mentre la letteratura fornisce un ampio resoconto del significato dell’essere umano, il cervello sarebbe l’ingranaggio che in qualche modo lo rende possibile. Mi sembrava una magia. Quella sera, nella mia stanza, aprii il catalogo rosso dei corsi di Stanford, che avevo letto da cima a fondo decine di volte, e presi un evidenziatore. Oltre ai vari corsi di letteratura che avevo segnato, cominciai a interessarmi anche a biologia e neuroscienze.
A distanza di qualche anno non avevo ancora riflettuto a fondo sulla mia carriera, sebbene stessi per laurearmi in letteratura inglese e biologia. A guidarmi non era tanto la sete di successo ma piuttosto il tentativo di comprendere, fino in fondo, cosa desse significato alla vita umana. Avevo ancora la sensazione che la letteratura offrisse il miglior resoconto possibile della vita della mente, mentre le neuroscienze stabilivano le piĂč raffinate regole del cervello. Il concetto di significato, per quanto sfuggente, sembrava inestricabile dai rapporti umani e dai valori morali. La terra desolata di T.S. Eliot mi colpĂŹ profondamente poichĂ© collegava tra loro l’insensatezza, l’isolamento e la disperata ricerca di contatto umano. Sentivo le metafore di Eliot infiltrarsi nel mio linguaggio. Mi colpirono anche altri autori. Nabokov, per la sua consapevolezza di come la nostra sofferenza possa renderci insensibili alla evidente sofferenza degli altri. Conrad, per la sua finissima comprensione di quanto profondamente incida la comunicazione inefficace sulla vita delle persone. La letteratura non illuminava solo le esperienze altrui, ...

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