Noi e gli antichi
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Noi e gli antichi

Perché lo studio dei Greci e dei Romani giova all'intelligenza dei moderni

Luciano Canfora

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Noi e gli antichi

Perché lo studio dei Greci e dei Romani giova all'intelligenza dei moderni

Luciano Canfora

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Il vincolo che collega la nostra cultura alla lingua, alla storia, al pensiero dei Greci e dei Romani non va ricercato in una presunta identità tra noi e gli antichi. Al contrario, capire le differenze ci consentirà di conoscere il senso che il passato e la sua eredità hanno su di noi. È questa la via seguita da Luciano Canfora nei saggi scritti per questo volume, incentrati su alcuni temi cruciali: il metodo degli storici antichi, il rapporto tra storiografia e verità, la visione della storia come fiume 'grande e lutulento' che assimila e trascina le più diverse tradizioni culturali. L'opera propone solidi argomenti per riflettere sulla centralità degli studi classici nella formazione della cultura moderna e spiega come essi rivelino qualcosa di nuovo non solo sul mondo antico, ma anche sul nostro. Il volume, arricchito in questa edizione da una nuova parte sulla tradizione classica, si conclude con una sezione, non priva di spunti polemici, dedicata all'attuale statuto scolastico della cultura classica e riporta in Appendice uno scritto latino del giovane Marx sul principato di Augusto.

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Information

Publisher
BUR
Year
2012
ISBN
9788858636107

PREMESSA

Se si possa fare storia di un evento recente sembra essere la tipica domanda del “senso comune”. La risposta del senso comune è che no, non si può, o per lo meno non è prudente. Le ragioni addotte o sottintese sono varie: perché, se trascorre molto tempo, si può accertare meglio la “verità”; o perché, se trascorre molto tempo le passioni si depurano ed è possibile una storia meno faziosa, e così via. Ovviamente non si precisa mai cosa voglia dire «molto» o «poco», e si resta per lo più nel vago in attesa del consolidarsi di una opinio communis, o anche di una vulgata. Le conseguenze di questo pseudo-concetto abbastanza diffuso sono ben note: nei nostri licei ci si arresta, nello studio della storia, più o meno nel primo quarto del secolo XX: il quale, peraltro, è appena finito, ed essendo senza dubbio tra i più ricchi di eventi complessi e tra loro intrecciati, forse meriterebbe il primato, da questo punto di vista, rispetto a tutti i precedenti, nonché, nell’ambito dell’ordinamento scolastico dello studio della storia, un anno di corso tutto per sé.
Che però la storia «contemporanea», o meglio recente e recentissima, sia materia scivolosa e inadatta al lavoro dello storico, non fu sempre opinione accreditata. Nel mondo antico greco e romano vigeva senz’altro, anzi predominava, la veduta contraria. Il più incline alla metodologia tra gli storici greci, Tucidide, ha dedicato tutto l’inizio della sua opera concentrata sulla storia contemporanea, anzi sulla storia in fieri, a dimostrare la superiorità della storiografia sul presente rispetto alla storiografia sul passato: o meglio, alla dimostrazione della sostanziale impossibilità di quest’ultima.
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Ma Tucidide non è isolato in questa veduta: mezzo secolo dopo di lui, Eforo sosteneva che la storiografia sul passato, specie se remoto, è in genere falsa, salvo – caso per caso – si possa addurre una prova contraria. E gli storici di epoca romana, quando, nelle loro amplissime opere, finalmente giungono all’epoca loro, manifestano esultanza e quasi si rasserenano perché finalmente la materia è solida e chi scrive può formulare il massimo vanto dello storico (antico): di essere stato «presente ai fatti narrati».
Un tale vanto è molto sintomatico e ci porta al cuore di una delle ragioni principali della preferenza, dagli storici a lungo manifestata, per la storia contemporanea: il fatto cioè che – nonostante la veste esteriore (in genere quella di una vastissima storia generale) – si trattava in realtà, ogni volta, della storia di gruppi dirigenti e della loro politica: gruppi con i quali questi storici erano in strettissimo rapporto, di cui spesso erano parte e la cui veduta consideravano l’unica possibile e l’unica degna di essere tramandata.

Quando questo nesso è entrato in crisi, si è posta sempre più accentuatamente la questione della distanza dello storico dai fatti. Uno dei maggiori vantaggi di tale distanza è sempre stato considerato l’accesso agli archivi: accesso che per lo più, anzi quasi sempre, diviene possibile solo quando è trascorso molto tempo dagli avvenimenti cui i documenti raccolti negli archivi si riferiscono. Sono note le molteplici limitazioni che gravano sulla libera consultazione dei documenti: per gli archivi inglesi il lasso di tempo richiesto è di quaranta anni, ma per gli archivi vaticani l’ultimo anno accessibile resta il 1939; per gli archivi sovietici le regole stesse erano differenziate a seconda degli utenti; e nella nostra democratica repubblica gli atti processuali relativi ai processi-farsa del «Tribunale speciale per la difesa dello Stato» soggiacciono all’obbligo di segretezza di settanta anni, come se si trattasse di normali processi penali! E così via.
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Certo, si potrebbe osservare che in fondo è solo questione di pazienza: meglio se passano alcuni anni, le passioni si raffreddano, i documenti ci aspettano ben ordinati in buste e fascicoli destinati al tardivo godimento degli storici. Nulla di più illusorio. In quanto emanazione dello Stato e del potere, l’archivio continua a essere manipolato (o per lo meno può continuare a esserlo).

Ma questo è solo un lato della questione: il momento delicato è quello del “versamento”, quando cioè lo Stato concede a quella parte di se stesso che sono gli archivi la conservazione dei documenti in una condizione di relativa pubblicità, ed il versamento si produce solo dopo un’adeguata scrematura. A grandi linee si può dire insomma che la storia – l’unica degna del nome, quella su documenti – può, finalmente, farsi quando i vincitori hanno scelto quali documenti far sopravvivere.
Non si tratta del paradosso mirante a dimostrare che dunque scrivere storia è necessario e impossibile al tempo stesso. Si tratta di prendere nozione della costante e consustanziale relatività del mestiere dello storico. A seconda della distanza dall’evento trattato, gli storici ne daranno un profilo e ne rileveranno delle facce volta a volta differenti: tutte, in fondo, in qualche modo vere, e spesso tra loro complementari: nessuna esaustiva, come esaustiva non sarebbe neanche la meccanica somma di tutte quelle facce. La Rivoluzione d’ottobre può essere la prima rivoluzione comunista del XX secolo, l’ultima rivoluzione tradizionale (dal punto di vista della tecnica della presa del potere) che conclude la gloriosa serie apertasi nel 1789, può essere il primo risveglio del terzo mondo e il capofila di quel risveglio, può essere lo strumento originale con cui la Russia si è modernizzata e così via. L’Atene democratica del V secolo a.C. è parsa, volta a volta, il regno dell’uguaglianza coniugata con l’eunomia (dall’Epitafio pericleo a George Grote), ovvero una sostanziale aristocrazia ammantata di ordinamenti democratici e appannaggio – in forza della ristrettezza del diritto di “cittadinanza” – di una piccola cerchia privilegiata di “cittadini” (Tocqueville), ovvero una sorta di Stato militar-razziale (Wilamowitz), ovvero il luogo geometrico della demagogia più sfrenata (Eduard Meyer), o infine un esempio ante litteram di “Stato sociale” (Arthur Rosenberg) ecc.

Nessuna di queste definizioni è falsa: lo sarebbe se pretendesse di essere l’unica vera. È importante ogni volta stabilire chi esprime un determinato giudizio storico e in quale momento, oltre che con quale fine. In questo senso, e con spirito diverso da quello della originaria formulazione, possiamo dunque concludere che davvero ogni storia è sempre contemporanea, per lo meno finché non possiamo liberarcene. Finora ci siamo liberati non più che della storia degli Ittiti; ma forse, a ben riflettere, neanche di quella.

LA TRADIZIONE CLASSICA

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1

GIOCHI DI GUERRA

1569. Denis Lambin, umanista, poeta in proprio, editore di classici (Orazio, Aristotele, Cicerone, Lucrezio, per ricordare solo i maggiori suoi lavori), non va alla guerra – che sarà, fatalmente, guerra di religione, cioè guerra civile. È vecchio, dice (ha più di quarant’anni) e non combatterà. Nella scorsa guerra ha pagato l’armatura e l’equipaggiamento di un combattente, a risarcimento della propria assenza. Ora offre al fratello del re di Francia (cioè al futuro Enrico III) uno strumento di tutt’altro genere: il commento alle Vite di Cornelio Nepote. Ma non è un dono erudito. È un modo, financo scoperto in certi luoghi del commento (cha all’autore saranno fatali), di chiedere al re di non fare la guerra, ma di rispettare la pace di Longjumeau dell’anno prima (1568), la pace di compromesso con gli ugonotti.

Poco dopo, messo sotto accusa da pamphlettisti cattolici come fiancheggiatore del “nemico”, sarà vittima del panico causato dalla notte di San Bartolomeo (25-27 agosto 1572), in pieno clima tridentino.
Cattolico, forse intimamente agnostico, ma soprattutto amico di Pierre de la Ramée, ugonotto, mise in gioco la sua vita, non saprei dire quanto consapevole del rischio, per aver tentato di dire, attraverso la parola degli antichi, e traendo spunto da un’altra guerra civile, che da guerre siffatte si esce con l’amnistia piuttosto che con la vittoria sul campo. Un richiamo all’amnistia di Trasibulo che già era riaffiorato, grazie all’intelligenza politica di Cicerone, nell’ultima guerra civile della Repubblica romana, e che tornerà, due secoli dopo Lambin, in un’altra traumatica resa dei conti all’indomani del Termidoro.
Quel massacro di ugonotti, di cui la fantasia tardo-giacobina di Giosuè Carducci immaginava che Luigi XVI chiedesse perdono al suo dio durante la prigionia nel Tempio, rendeva chiaro, circa dieci anni dopo Trento, quale fosse l’implicazione pratica, e operativa, della riscossa tridentina. Nella vita della Francia fu scelta gravida di conseguenze di lunga durata: dall’emanazione dell’editto di Nantes alla sua revoca, quasi un secolo più tardi, alla diaspora che quella revoca determinò e che fu anche diaspora di semi di libertà in tutta Europa. E come avrebbe potuto essere diversamente? Gli uomini che abbandonarono allora la Francia ricompattata nazione cattolicissima (ma gallicana) da Luigi XIV, come avrebbero potuto, visto quello che avevano patito, non portare lo spirito di tolleranza proprio nelle contrade protestanti nelle quali cercavano rifugio? Senza il loro apporto, critico e anche polemico, quelle contrade rischiavano di diventare l’equivalente, di segno contrario, delle contrade cattoliche.
La via della libertà – in cui la riflessione sugli antichi ha avuto la sua parte – passa attraverso questa esperienza intellettuale e attraverso questo tornante della storia d’Europa, che ha messo alla prova due opposte intolleranze.

1581. Henri II Estienne, già amico della casa regnante di Francia, ma ormai rifugiato a Ginevra, dove ha trasferito la sua azienda, sostenuta dalla ricchezza dei Fugger, approfittando della riedizione di un Senofonte opera omnia, incita i sovrani a proteggere le lettere. E traccia il profilo del principe ideale, il principe che «unisce Marte alle lettere». Sull’esempio appunto – alquanto discutibile – dell’ateniese Senofonte. Circa vent’anni dopo, nel 1605, Cervantes farà una satira di questo armonico ideale nel capitolo XXXVIII del Chisciotte.
Diversamente dalla precedente edizione senofontea, questa dell’81 recava in principio non solo una dedica (assente nel 1561) ma anche dei testi di carattere introduttivo. La dedica è per Giacomo VI, re di Scozia, il fragile ed epilettico figlio di Maria Stuarda, allora poco più che un fanciullo, sempre schiacciato dall’incubo della sua potente vicina, Elisabetta d’Inghilterra. La lettera prefatoria è invece per un grande dotto protestante, Joachim Camerarius, il grande amico di Melantone, uno dei simboli della cultura classica protestante in Germania. Segue, a questo punto, un singolare testo, un «discorso» (oratio) dal fantasioso titolo De coniugendis cum Marte Musis, exemplo Xenophontis. Qui Henri Estienne tratteggia la figura del perfetto sovrano, o, meglio, delinea la migliore educazione per il condottiero e per il principe: quella appunto che risulterebbe dalla felice simbiosi da un lato di educazione militare e, dall’altro, di un efficace tirocinio filosofico e letterario. Tutto lo scritto è una vibrante polemica contro coloro che propugnano una educazione unilaterale del principe, esclusivamente incentrata sull’arte militare e sulla caccia.
Senofonte, ascoltatore e interlocutore di Socrate, poi, a seguito di imprevedibili circostanze, comandante improvvisato ma capace di un esercito sbandato e depresso da guidare per mesi e mesi tra mille pericoli ed in un contesto ostile, è un esempio insigne della tesi di fondo che Henri Estienne sostiene: che cioè un lungo tirocinio di studi può essere il miglior viatico per chi debba sostenere gli oneri del comando e della guerra.
È l’esatto contrario dell’ideale del «condottiero» tutto guerra e ferocia che spira dalle statue equestri del Gattamelata o del Colleoni, esaltato o esecrato negli scritti di Candido Decembrio, di Guarino Guarini, di Flavio Biondo. E persino il ritratto ideale del capitano, che Machiavelli tratteggia nella Vita di Castruccio Castracani, non contempla che letture guerresche ed implica, come caratteristica del predestinato, il rifiuto delle altre: «Lasciàti e’ libri ecclesiastici [Castruccio] cominciò a trattare le armi; né di altro si dilettava che o di maneggiare quelle, o con gli altri suoi equali correre, saltare, fare alle braccia, e simili esercizii; dove ei mostrava virtù d’animo e di corpo grandissima, e di lunga tutti gli altri della sua età superava. E se pure ei leggeva alcuna volta altre lezioni non gli piacevano che quelle che di guerre o di cose fatte da grandissimi uomini ragionassino». Né, del resto, tra i requisiti del «principe» Machiavelli annovera, nel suo maggior trattato, la formazione letteraria o filosofica: semmai ammaestra il principe fornendogli il frutto della sua propria ricchissima esperienza della politica, ricavata non solo dai fatti del presente ma anche, e non meno, dalla storia antica dei Greci e dei Romani.
Non c’è dubbio che Estienne miri a tratteggiare il ritratto ideale di un principe attraverso il profilo della sua educazione. Il senso dell’intera oratio di Estienne è proprio questo: non si creda che a chi trascorre gli anni giovanili nello studio sia precluso un futuro di uomo d’azione (in guerra o nello Stato); l’esempio di Senofonte, passato in modo così naturale e proficuo dalla frequentazione di Socrate al comando di diecimila mercenari, ne è la migliore dimostrazione. Il tutto arricchito da una infinita serie di esempi classici, di citazioni e di episodi, con il singolare oblio dei due maggiori esempi antichi di letterati-principi o letterati-guerrieri: Cesare e l’imperatore Giuliano.
Ovviamente il Senofonte che Henri Estienne valorizza e delinea, nell’ultima parte dello scritto, è il Senofonte dell’Anabasi. La derivazione dall’autorappresentazione che Senofonte dà di sé in quel suo efficace ed abile diario di guerra è esplicita. Ed il riferimento non è soltanto ai saggi discorsi, ai comportamenti temperati e giusti di cui Senofonte fa larga ostentazione in tutto il suo racconto, è anche, con ogni probabilità, ad episodi come quello del legato persiano che, rivolto ad un giovane greco (con ogni probabilità lo stesso Senofonte), gli dice, colpito dalle sue parole: «Sembri un filosofo! ». «Per tutto il tempo del suo comando – così scrive concludendo – non si preoccupava del suo utile né di perseguire i torti subiti: rapportando tutto alla salvezza comune, difende la sua autorità ed il suo grado ma senza prevaricazione alcuna; tempera la durezza necessaria a far compiere ai soldati il loro dovere con una incredibile mitezza. Rincuora l’animo dei soldati nei momenti di scoraggiamento e di disperazione, lo consola nei momenti di difficoltà: li riporta alla ragione quando il successo li induce ad eccessiva baldanza, li tiene sotto controllo quando sono in tumulto, li placa quando ardono d’ira, li riconcilia a sé quando gli sono ostili». È il ritratto del «principe» che Tucidide traccia a proposito di Pericle e che da Tucidide Cicerone ricava e riferisce nel De repubblica al suo princeps ideale. Molto diversi entrambi dal trepido e pavido Giacomo Stuart.

1609. Isacco Casaubon, rimasto calvinista soprattutto per fedeltà agli antenati, e rinsaldato nella sua fede dall’assassinio infame di Enrico IV (1610), dedica, nel 1609, il suo splendido Polibio appunto ad Enrico IV (l’ugonotto che s’è fatto cattolico per salvare la pace religiosa, e dunque civile, del suo paese). E nello stesso tempo include, ad illustrazione di un’opera essenzialmente di guerra e di diplomazia qual è quella polibiana, il trattato di Enea Tattico intitolato Come si resiste all’assedio (il maggior trattato poliorcetico di età classica). Casaubon non solo, dolorosamente, condivide l’idea, che era stata a suo tempo di Machiavelli come anche, ora, del suo quasi coetaneo Giusto Lipsio, secondo cui è la guerra il principale “lavoro” del sovrano. Ma con quei due grandi condivide anche l’idea, vecchia, e tipicamente classicista, che l’arte della guerra si impara dagli antichi: dalla trattatistica antica, direttamente pertinente alla guerra moderna. I cinque libri di Lipsio De militia romana (di fatto un commento a Polibio) questo presumono, nonostante l’ormai vincente polvere da sparo. Una novità che non sfugge invece a don Chisciotte, nel ricordato capitolo XXXVIII, dove appunto contro questa micidiale invenzione l’intrepido cavaliere così inveisce:

Benedetti quei fortunati secoli cui mancò la spaventosa furia di questi indemoniati strumenti di artiglieria, al cui inventore io per me son convinto che il premio per la sua diabolica invenzione glielo stanno dando all’inferno, perché con essa diede modo che un braccio infame e codardo to...

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