Per questo mi chiamo Giovanni (nuova edizione)
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Per questo mi chiamo Giovanni (nuova edizione)

Da un padre a un figlio il racconto della vita di Giovanni Falcone

Luigi Garlando

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Per questo mi chiamo Giovanni (nuova edizione)

Da un padre a un figlio il racconto della vita di Giovanni Falcone

Luigi Garlando

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Giovanni è un bambino di Palermo. Per il suo decimo compleanno, il papà gli regala una gita attraverso la città per spiegargli come mai, di tutti i nomi possibili, per lui è stato scelto proprio Giovanni. Tappa dopo tappa, nel racconto prendono vita i momenti chiave della storia di Giovanni Falcone, il suo impegno, le vittorie e le sconfitte, l'epilogo. Giovanni scopre che il papà non parla di cose astratte: la mafia c'è anche a scuola, la mafia è una nemica da combattere subito, senza aspettare di diventare grandi.

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Information

Publisher
RIZZOLI
Year
2012
ISBN
9788858625316
Topic
Law
Index
Law

Non si vendono più bambole

Papà fece scattare ancora il comando delle portiere. Click. Come una pistola che fa cilecca invece di sparare. È un rumore che da quel giorno non sopporto più.
«Andiamo» disse.
Guardai la collina, poi il cartello con il nome di Giovanni e di tutti quelli che sono morti nell’attentatuni del 23 maggio 1992. Feci un lungo respiro verso il mare e risalii in macchina. Papà non tornò verso Palermo, ma guidò fino all’aeroporto di Punta Raisi.
«Poche settimane dopo la morte di Giovanni, il mostro fece fuori anche Paolo.»
«Il suo grande amico?»
«Sì, quello che era in squadra con lui contro la mafia, il compagno con cui andava più d’accordo e che continuò la battaglia di Giovanni dopo la strage di Capaci. Ma la continuò solo per un paio di mesi. Era una domenica pomeriggio, una domenica di luglio. Paolo arrivò con cinque uomini della scorta in via D’Amelio, dove abitava sua mamma. Era passato per salutarla. Non fece caso alla piccola macchina che era posteggiata davanti al cancello: una 126. Quella macchina era imbottita di tritolo come un panino. Lo stesso esplosivo usato per Giovanni, più o meno alla stessa ora. Sono le 16.55 quando Paolo e la sua scorta s’incamminano nel vialetto del palazzo di via D’Amelio. Fanno solo pochi passi, poi la 126 esplode.»
«Come Rocco.»
«Uguale.»
«Hanno usato anche lì un radiocomando a distanza?»
«Sì. Per Paolo e la sua scorta non c’è nulla da fare. I loro corpi bruciano come pezzi di legno in un camino. Leggi là sopra…»
Eravamo arrivati a Punta Raisi. Papà aveva fermato la macchina nel parcheggio. Lessi la scritta sul tetto: «Aeroporto Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.»
«È giusto così» spiegò papà. «Chi arriva a Palermo deve saperlo subito: questa non è la città della mafia, questa è la città di Giovanni e di Paolo.»
Non disse più nulla fino alle porte di Palermo. Ci guardammo soltanto quando ripassammo davanti al cartello di Capaci. Osservai un’altra volta la collina del maiale e cercai di immaginare le ultime cose che aveva visto Giovanni prima di chiudere gli occhi per sempre: il verde dei campi, i tronchi dei vecchi olivi, il mare là in fondo, verso l’orizzonte. Una specie di cartolina della sua Sicilia che amava tanto. Una bella cartolina. Papà dice che Giovanni non ha fatto neppure in tempo ad accorgersi della bomba, perciò ha chiuso gli occhi con un sorriso. Credo.
Mentre ci avvicinavamo alla città, ripensai a tutta la sua vita, dal sasso bianco nel prato della Magione che avevo visto al mattino fino ai serpenti di ferro nella foto del giornale. E mi accorsi di una cosa ancora più strana della colomba bianca che era entrata dalla finestra il giorno che era nato: Giovanni, da piccolo, si era trasferito a Corleone per sfuggire dalle bombe della guerra e da grande è stato ucciso dalle bombe di Corleone. È vero: la mia è proprio una città capovolta.
Nel traffico della città papà ricominciò a raccontare: «La gente riempì la chiesa di San Domenico per i funerali di Giovanni. C’era tutta Palermo davanti a quella chiesa. Probabilmente anche la signora che aveva scritto al giornale per lamentarsi dei rumori. Magari ha pure pianto.»
«Sì, lacrime di coccodrillo…»
«E c’erano anche le grandi autorità dello Stato, arrivate da Roma, che non furono accolte tanto bene dalla gente: urla, fischi, insulti…»
«Perché, papà?»
«Coccodrilli anche loro. Certo, piangevano, ma prima dov’erano quando Giovanni e la sua squadra combattevano contro il mostro? Quando viveva come un topo in gabbia? Giovanni non ha dovuto difendersi solo dalla mafia: ha dovuto lottare anche contro l’invidia, contro l’indifferenza, contro i corvi, contro i sospetti, contro i propri colleghi; ha dovuto abbandonare Palermo perché non lo lasciavano più lavorare e si è ritrovato a Roma, dove non gli lasciavano guidare la macchina da guerra che aveva inventato lui… Giovanni aveva scoperto che tante persone perbene stavano dalla parte del mostro, e alcune di quelle persone erano lì nella chiesa di San Domenico a dire che Giovanni era un eroe. Per questo la gente che voleva bene a Giovanni era arrabbiata. È come se la tua maestra andasse da Simone a dirgli: “Poverino, mi spiace per il tuo braccio rotto” dopo aver aiutato Tonio a spingerlo giù per le scale. Capisci?»
«Ma se tutta quella gente si fosse arrabbiata un po’ prima e avesse aiutato Giovanni, forse sarebbe stato più facile sconfiggere il mostro? Non è la stessa gente che usciva dai ristoranti quando entrava Giovanni?»
«Bravo. Hai ragione. Hai perfettamente ragione. Ma vedi, è un po’ come se tutta Palermo si fosse svegliata di colpo dopo la morte di Giovanni, è come se l’esplosione sull’autostrada avesse aperto gli occhi a tanta gente che prima dormiva. Durante la cerimonia nella chiesa di San Domenico, una ragazza vestita di nero va al microfono e si rivolge ai mafiosi. Dice tra i singhiozzi: “So che siete anche qui dentro: io vi offro il mio perdono, ma voi inginocchiatevi e cambiate”. È una ragazza giovane, ha solo ventidue anni, si chiama Rosaria, ha gli occhi pieni di lacrime. Suo marito Vito era uno dei ragazzi della scorta morti con Giovanni. Poi Rosaria scriverà anche una lettera ai mafiosi e dirà: “Uomini senza onore, avete perduto. Avete commesso l’errore più grande perché, tappando cinque bocche, ne avete aperte cinquanta milioni”. Ha ragione, Rosaria. È proprio così. La bomba di Capaci è un gran botto che sveglia un po’ tutti, non solo a Palermo. Tutta l’Italia apre gli occhi: non si può vivere così, prigionieri di un mostro del genere. Troppa è la rabbia che suscitano le immagini di quell’autostrada ribaltata come un tappeto. E infatti in pochi mesi verranno arrestati tutti gli autori della strage.»
«Anche il maiale della collina e Totò, il capo?»
«Anche loro. Finiscono in gabbia. E sai chi dà informazioni preziose per farli arrestare? Santino, il papà di Giuseppe. Anche lui ha partecipato all’attentatuni: era tra i mafiosi che avevano portato l’esplosivo nel cunicolo di notte. Ma dopo l’attentato viene arrestato e comincia a collaborare con i giudici. Per questo il maiale gli uccide il figlio. L’esplosione di Capaci ha svegliato chi doveva fare la guerra al mostro. I capi più importanti della cupola finiscono dietro le sbarre. È come se li avesse portati dentro Giovanni in persona. E ci resteranno per tutta la vita. Anzi, di più. Totò è stato condannato a dodici ergastoli.»
«Quindi, se rinascerà altre undici volte, quell’animale passerà la vita comunque dietro le sbarre?»
«Esatto. Ma non è questa la vittoria più importante di Giovanni. È un’altra, la stessa che ottenne col maxiprocesso: la speranza. Ora ti mostro. Siamo arrivati all’ultima tappa del nostro viaggio.»
Via Notarbartolo. Parcheggiammo il gippone. Attraversammo la strada. Davanti al palazzo bianco del numero 23 c’erano una piccola casetta di vetro e un grosso albero, che saliva storto oltre il primo piano. Con tante foglie.
«In questo palazzo abitavano Giovanni e Francesca.»
«Questa è la casetta coi vetri antiproiettile dove stavano le guardie quando Giovanni era fuori casa?»
«Proprio così. E questo è l’albero Falcone. L’hanno chiamato così perché dopo la morte di Giovanni, tanti palermitani sono venuti qui a lasciare un biglietto, un fiore, un pensiero per lui. E come vedi, dopo dieci anni, continuano a farlo. Arrivano da tutta Italia e anche dall’estero. Vengono tanti bambini, classi intere con le loro maestre che raccontano la storia di Giovanni, come te l’ho raccontata io. Leggi…»
Il tronco dell’albero era coperto da fogli di quaderno e da biglietti di carta di tutti i colori, scritti con la penna o con i pennarelli. Oltre alle scritte c’erano una bella foto di Giovanni che sorrideva sotto i baffi, con il mantello nero che hanno sulle spalle gli avvocati durante i processi, e alcuni fazzoletti di stoffa legati al tronco da poliziotti e da militari. Uno anche dagli alpini. I fogli di carta erano quasi tutti infilati dentro cartelline di plastica trasparente in modo che quando piove l’inchiostro non si sciolga.
Mi avvicinai all’albero e lessi a voce alta. Foglietto bianco e pennarello nero: «Ti hanno chiuso gli occhi per sempre, ma tu li hai spalancati a noi palermitani!»
Piccola poesia firmata Roberto: «Tutta le gente di buona volontà prega / vuole cambiar le cose e tanta forza impiega. / Nessuno si arrende alla disonestà / e con coraggio vuole uscire dall’omertà. / La strada è lunga da seguire / ma con tenacia il fine bisogna perseguire.»
Pamela (IV A): «La persona che adesso non c’è più si era sacrificata per noi, per non esserci più mafia, per farci vivere un futuro più bello.»
Foglietto verde chiaro scritto in verde scuro: «Credete di averlo ucciso? Vi sbagliate, adesso la sua rabbia cova dentro di noi!»
Daniela (III F): «Caro Giovanni, io sono la nipote del tuo autista che si è salvato, sono rimasta sgomenta apprendendo la tua morte e quella dei tuoi agenti e di tua moglie che sono stati molto coraggiosi nel fare il proprio lavoro. Adesso che non ci siete più, ti prometto, in nome di Palermo, che la mafia la sconfiggeremo noi e ti dico: grazie.»
Alfonso da Roma: «Io non mi piegherò MAI!»
Angela: «In vita volevi sconfiggere la mafia. Con la morte ci riuscirai.»
Pietro: «È stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso.» Gli errori sono di Pietro, non i miei.
Claudia da Bergamo: «Anche noi che veniamo dal nord piangiamo lacrime come il sud! Non è da dimenticare questo posto!»
Renata da Palermo: «Somigliavi tanto a papà. Grazie per tutto quello che hai fatto.»
Ezio: «Io ho due figli di quindici e diciotto anni e ho un disperato bisogno di credere in un mondo migliore.»
V Ginnasio (Ist. Gonzaga): «Per te che hai dato la vita, vinceremo questa partita.»
Rosy ha disegnato un polipone nero che abbraccia la Sicilia e ha scritto: «Liberiamola dai tentacoli della mafia.»
Foglio giallo scritto in blu e appiccicato con lo scotch marrone: «Si può spezzare un fiore ma non fermare la primavera – Simone.»
Claudia ha scritto in stampatello su un foglio a righe: «Ho sette anni. Come tanti bambini dovremmo pensare solo ai giochi invece sentiamo spesso la parola mafia che fa tanta paura.»
«Guarda questo» indicò papà. «Viene addirittura dall’Australia, dall’altra parte del mondo. E leggi questo di Emilio: “Con la speranza di diventare come te”. E anche questo: “Vogliamo sperare ancora. Non sarete mai dimenticati – Un gruppo di giovani da Foggia”. Lo vedi? “Speranza”, “sperare”… Quasi tutti i verbi dei fog...

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