Idi di marzo
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Idi di marzo

Valerio Massimo Manfredi

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Idi di marzo

Valerio Massimo Manfredi

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Roma, inizi di marzo del 44 avanti Cristo. Caio Giulio Cesare, il dittatore perpetuo, è un uomo stanco e malato, incapace di reggere sulle spalle il peso di un potere immenso. I tempi e la logica politica della congiura definitiva incalzano implacabili. I presagi si compiranno, le Idi di marzo deflagreranno e il mondo non sarà più lo stesso. Valerio Massimo Manfredi dipana con maestria i fili che si aggrovigliano intorno a uno degli snodi cruciali della storia dell'umanità, riportandone alla luce tutta la complessità politica e la profondità psicologica, nonché la potenza drammatica. Sullo sfondo della Roma più bella, mai ricostruita con tanta vivida nitidezza e precisione topografica e alla presenza di coprotagonisti dalla colossale statura storica e tragica - Marco Junio Bruto, Cassio Longino, Marco Antonio, Marco Tullio Cicerone, Cleopatra -, Manfredi ci regala un thriller politico incalzante, un memorabile ritratto di Giulio Cesare e un'attualissima riflessione sul tema del potere e della democrazia.

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Information

Publisher
Mondadori
Year
2010
ISBN
9788852010675

CAPITOLO XIX

Romae, in aedibus Ciceronis, Id. Mart., hora secunda
Roma, casa di Cicerone, 15 marzo, le sette di mattina
Cicerone aveva fatto colazione ed era già vestito per la giornata che si preannunciava fresca con la sua tunica invernale di lana. Leggeva prendendo appunti su una tavoletta cerata. Un’altra invenzione di Tiro, che stendeva due strati di cera, il primo in basso di colore scuro, il secondo in alto di colore bianco naturale. Lo stilo incideva lo strato superiore e la scrittura appariva scura sul bianco come se uno scrivesse sulla pergamena con l’inchiostro.
Il tocco discreto sulla porta doveva essere il suo e Cicerone lo fece entrare: «Vieni avanti».
Tiro entrò tenendo fra le mani una lettera: «È di Tito Pomponio» disse. «Il suo servo l’ha recapitata poco fa. È urgente».
Cicerone l’aprì.
Idi di marzo
Tito Pomponio Attico al suo Marco Tullio: salute!
Ieri non sono stato bene, un forte mal di testa mi ha tormentato tutta la giornata e mi ha impedito di attendere alle mie occupazioni. La mia solita pozione di malva e rosmarino non mi ha giovato e anche oggi le mie condizioni non sono migliori. Dunque non potrò farti visita e me ne dolgo. Il temporale mi ha tenuto sveglio per buona parte della notte e sono certo che se uscissi il vento e l’umidità farebbero peggiorare il mio mal di testa. Esorto anche te a non uscire di casa e a riguardarti perché anche oggi ci sarà tramontana. Stammi bene.
Cicerone richiuse la lettera. “Malva e rosmarino” era l’espressione in codice che indicava un messaggio criptato e il segnale di gravità era indicato dal contenuto del tutto ordinario che contraddiceva l’urgenza dichiarata dal messaggero.
Il giorno prestabilito per l’impresa era arrivato. Le Idi di marzo!
«Ti ho fatto preparare la lettiga, padrone» disse Tiro. «La seduta oggi è alla curia di Pompeo.»
Cicerone si alzò e ripose la lettera nello scaffale che aveva alle spalle: «Non mi sento molto bene» rispose senza voltarsi. «Meglio che non esca di casa.»
Romae, in Domo Publica, Id. Mart., hora secunda
Roma, residenza del pontefice massimo, 15 marzo, le sette di mattina
Il temporale della notte aveva lasciato non poche tracce in città: rami secchi spezzati giacevano un po’ ovunque assieme a foglie morte rimaste attaccate alle piante per tutto l’inverno, tegole cadute dai tetti e andate in frantumi, imposte divelte trascinate dal vento lungo le strade e abbandonate contro i muri o sui marciapiedi. Negli angoli dei giardini e dei portici restavano grumi di grandine non ancora sciolta. L’aria, adesso, era limpida e fredda.
Con il sorgere del sole il cielo si era rischiarato; solo qualche nube sfilacciata passava veleggiando nell’azzurro intenso. In lontananza, verso oriente, le cime dei monti erano bianche di neve.
Cesare aveva fatto colazione e si preparava a uscire. Ritto nel mezzo dell’atrio, rivestito di una candida tunica laticlavia lunga fino ai piedi, osservava i servi che lo aiutavano a completare il suo abbigliamento. Uno gli fermava la cintura in vita, un altro gli allacciava un paio di eleganti calzari, altri due gli drappeggiavano la toga orlata di porpora, sulle spalle e attorno al braccio sinistro.
Calpurnia in disparte lo osservava preoccupata. Appena i servi se ne furono andati riprese il discorso che aveva lasciato interrotto al loro arrivo: «Ho avuto degli incubi terribili, premonizioni inquietanti: prima la tua statua in pezzi, poi ho sognato che ti tenevo fra le braccia, ferito, morente… non andare ti prego. Non uscire di casa».
«Ascoltami, Calpurnia: sei una donna colta e intelligente. Non puoi credere ai sogni. Sono soltanto le conseguenze delle nostre angosce diurne, delle nostre paure o dei nostri desideri. Il sogno ci presenta ciò che già abbiamo vissuto, non quello che dovremo ancora vivere. Sai perché hai fatto quei sogni? Perché presti orecchio a certe dicerie e perché io stesso ho avuto la brutta idea di parlarti di Spurinna e del suo vaticinio. Ecco tutto.»
Calpurnia lo guardava con gli stessi occhi sbarrati umidi di lacrime. La sua mente era dominata dagli incubi e le parole di Cesare non valevano a dissiparli.
«Che cosa dovrei fare, secondo te? Mandare a dire al senato che non posso andare alla seduta che io stesso ho convocato perché mia moglie ha fatto dei brutti sogni?»
«Non stai bene» replicò Calpurnia. «Hai la febbre e nemmeno tu hai dormito abbastanza. Si vede.»
«Non se ne parla. Che cosa penserebbero di me? Voglio che approvino ingenti stanziamenti per i miei veterani e non mi presento perché non sto tanto bene?»
Calpurnia si tormentava le mani, cercava di asciugarsi le lacrime che le scendevano sulle guance: «Che cosa posso fare perché tu non esca da questa casa? Ricordarti che mi sei debitore? Che non ho mai detto una parola né mutato la mia condotta quando tutti sapevano che mi tradivi? Devo ricordarti che ho sempre custodito la tua casa con devozione anche quando la regina d’Egitto ti ha partorito un figlio, anche ora che – ne sono certa – continua a mandarti ardenti messaggi d’amore?».
Cesare si volse verso di lei di scatto, la collera avvampava nel suo sguardo ma Calpurnia non smise di incalzarlo: «Sì, puoi maledirmi, imprecare, disprezzarmi, ma fai una cosa per me, una sola! Non lasciare queste sacre mura in un giorno così infausto. Non ti ho mai chiesto nulla, non ti chiederò mai più nulla. Ti lascerò partire a ciglio asciutto quando verrà il momento. Fallo per la tua sposa legittima, non ti chiedo altro».
Non riuscì a trattenere il pianto.
Cesare restò a guardarla in silenzio, turbato. Alla fine cedette: «E sia. Cercherò di trovare un pretesto che non mi renda ridicolo. E ora, ti prego, lasciami solo».
Calpurnia uscì in lacrime e Cesare chiamò il medico: «Antistio!».
«Eccomi, Cesare» rispose accorrendo.
«Manda un corriere al senato, fai annunciare che non posso andare alla seduta. Inventa tu una scusa plausibile.»
«Stai male, Cesare. Non basta?»
«No. Ma non ti mancheranno argomenti più gravi.»
«Naturalmente. E non ho bisogno di inventarli.»
«Allora vai. Non posso fare attendere i senatori.»
Antistio si gettò sulle spalle un mantello e si diresse verso il Campo Marzio. Attraversando il foro vide passare sul bordo settentrionale della piazza Cassio Longino, Tillio Cimbro, Publio Servilio Casca, e altri che non conosceva. Camminavano spediti, in gruppo. Cassio portava con sé un giovinetto, probabilmente suo figlio, che quel giorno avrebbe rivestito la toga virile.
Tirava un vento freddo da tramontana ma il cielo era quasi sgombro e il sole splendeva sulla città. A mano a mano che si avvicinava alla curia di Pompeo, dove si sarebbe tenuta la seduta, Antistio vedeva le lettighe di diversi nobili senatori che aveva imparato a riconoscere. Altri, fra i più tradizionalisti, andavano a piedi camminando di buon passo, altri ancora, affaticati dall’età, si appoggiavano a un bastone o erano sostenuti dai figli.
Vide Licinio Celere, Aurelio Cotta, Publio Cornelio Dolabella, riconobbe un anziano senatore amico di Cicerone, Popilio Lenate, e poi Gaio Trebonio e altri ancora. Affrettò il passo per arrivare prima della maggior parte di loro e quando fu giunto a destinazione si guardò intorno rendendosi conto che in pratica i senatori erano quasi tutti presenti. Non riuscì a vedere Cicerone ma vide Decimo Bruto e, poco dopo, Marco Junio Bruto. Torvo.
Si avvicinò al tavolo del senatore incaricato di redigere il verbale della seduta e gli comunicò il messaggio: «Cesare non potrà venire oggi. È indisposto e febbricitante e ha passato una notte agitata. Ti prega di presentare le sue scuse all’Assemblea».
Stava ancora parlando quando si avvicinò Decimo Bruto: «Che cosa succede, Antistio?».
«Cesare sta male, non potrà venire in senato questa mattina.»
«Che cosa? Non è possibile.»
«È come ti dico. Ha passato una brutta notte, ha la febbre. Ha chiesto di rimandare la seduta.»
Decimo Bruto si rivolse al cancelliere: «Non dare nessuna comunicazione finché non torno».
Antistio restò turbato dalla freddezza di Decimo Bruto che non aveva nemmeno chiesto che tipo di indisposizione avesse il suo comandante e amico. Tornò indietro per vedere che cosa sarebbe successo.
Un brusio percorse i gruppi di senatori che forse già si consigliavano sui temi da trattare in giornata. Adesso avevano qualcos’altro di cui discutere. Vide molti volti preoccupati, alcuni lasciare un gruppo e raggiungerne un altro, altri bisbigliare qualcosa all’orecchio di qualcuno che annuiva gravemente o mostrava sorpresa, preoccupazione, turbamento.
Uscì attraversando il grande portico e corse verso casa ma evitò di accompagnarsi a Decimo Bruto che lo precedeva di qualche decina di passi. Alla fine entrò nella Regia poco dopo di lui. E subito udì la sua voce e quella di Cesare.
«Cesare, il senato ti aspetta, che succede?»
Cesare stava sdraiato su un divano, scuro in volto. Antistio entrò in quel momento: «Credo di avere già risposto» disse. «Non vedi che sta male?»
Decimo Bruto, senza nemmeno voltarsi, si avvicinò a Cesare e lo guardò: «Non mi sembra tanto grave…».
«Decido io se è grave o non è grave» replicò Antistio. «Ha avuto anche un attacco di asma» mentì. «Deve riposare.»
Decimo Bruto dominò a stento la sua indignazione contro il piccolo Greco che osava contraddirlo. Lo ignorò e si rivolse a Cesare: «Hai convocato il senato, mancare verrebbe interpretato come un insulto e disprezzo per la sua dignità. In nome degli dèi, non farlo. Abbiamo già abbastanza difficoltà».
Calpurnia entrò in quel momento: «È malato. Riferisci al senato che Cesare non è in grado di presiedere la seduta. Sta male, lo vedrebbe anche un cieco».
«Non presentarsi sarebbe peggio di questo piccolo sforzo. Andrà in lettiga. E poi deve solo fare atto di pre...

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