Cicerone aveva fatto colazione ed era giĂ vestito per la giornata che si preannunciava fresca con la sua tunica invernale di lana. Leggeva prendendo appunti su una tavoletta cerata. Unâaltra invenzione di Tiro, che stendeva due strati di cera, il primo in basso di colore scuro, il secondo in alto di colore bianco naturale. Lo stilo incideva lo strato superiore e la scrittura appariva scura sul bianco come se uno scrivesse sulla pergamena con lâinchiostro.
Il tocco discreto sulla porta doveva essere il suo e Cicerone lo fece entrare: «Vieni avanti».
Tiro entrĂČ tenendo fra le mani una lettera: «à di Tito Pomponio» disse. «Il suo servo lâha recapitata poco fa. Ă urgente».
Cicerone lâaprĂŹ.
Idi di marzo
Tito Pomponio Attico al suo Marco Tullio: salute!
Ieri non sono stato bene, un forte mal di testa mi ha tormentato tutta la giornata e mi ha impedito di attendere alle mie occupazioni. La mia solita pozione di malva e rosmarino non mi ha giovato e anche oggi le mie condizioni non sono migliori. Dunque non potrĂČ farti visita e me ne dolgo. Il temporale mi ha tenuto sveglio per buona parte della notte e sono certo che se uscissi il vento e lâumiditĂ farebbero peggiorare il mio mal di testa. Esorto anche te a non uscire di casa e a riguardarti perchĂ© anche oggi ci sarĂ tramontana. Stammi bene.
Cicerone richiuse la lettera. âMalva e rosmarinoâ era lâespressione in codice che indicava un messaggio criptato e il segnale di gravitĂ era indicato dal contenuto del tutto ordinario che contraddiceva lâurgenza dichiarata dal messaggero.
Il giorno prestabilito per lâimpresa era arrivato. Le Idi di marzo!
«Ti ho fatto preparare la lettiga, padrone» disse Tiro. «La seduta oggi Ú alla curia di Pompeo.»
Cicerone si alzĂČ e ripose la lettera nello scaffale che aveva alle spalle: «Non mi sento molto bene» rispose senza voltarsi. «Meglio che non esca di casa.»
Il temporale della notte aveva lasciato non poche tracce in cittĂ : rami secchi spezzati giacevano un poâ ovunque assieme a foglie morte rimaste attaccate alle piante per tutto lâinverno, tegole cadute dai tetti e andate in frantumi, imposte divelte trascinate dal vento lungo le strade e abbandonate contro i muri o sui marciapiedi. Negli angoli dei giardini e dei portici restavano grumi di grandine non ancora sciolta. Lâaria, adesso, era limpida e fredda.
Con il sorgere del sole il cielo si era rischiarato; solo qualche nube sfilacciata passava veleggiando nellâazzurro intenso. In lontananza, verso oriente, le cime dei monti erano bianche di neve.
Cesare aveva fatto colazione e si preparava a uscire. Ritto nel mezzo dellâatrio, rivestito di una candida tunica laticlavia lunga fino ai piedi, osservava i servi che lo aiutavano a completare il suo abbigliamento. Uno gli fermava la cintura in vita, un altro gli allacciava un paio di eleganti calzari, altri due gli drappeggiavano la toga orlata di porpora, sulle spalle e attorno al braccio sinistro.
Calpurnia in disparte lo osservava preoccupata. Appena i servi se ne furono andati riprese il discorso che aveva lasciato interrotto al loro arrivo: «Ho avuto degli incubi terribili, premonizioni inquietanti: prima la tua statua in pezzi, poi ho sognato che ti tenevo fra le braccia, ferito, morente⊠non andare ti prego. Non uscire di casa».
«Ascoltami, Calpurnia: sei una donna colta e intelligente. Non puoi credere ai sogni. Sono soltanto le conseguenze delle nostre angosce diurne, delle nostre paure o dei nostri desideri. Il sogno ci presenta ciĂČ che giĂ abbiamo vissuto, non quello che dovremo ancora vivere. Sai perchĂ© hai fatto quei sogni? PerchĂ© presti orecchio a certe dicerie e perchĂ© io stesso ho avuto la brutta idea di parlarti di Spurinna e del suo vaticinio. Ecco tutto.»
Calpurnia lo guardava con gli stessi occhi sbarrati umidi di lacrime. La sua mente era dominata dagli incubi e le parole di Cesare non valevano a dissiparli.
«Che cosa dovrei fare, secondo te? Mandare a dire al senato che non posso andare alla seduta che io stesso ho convocato perché mia moglie ha fatto dei brutti sogni?»
«Non stai bene» replicĂČ Calpurnia. «Hai la febbre e nemmeno tu hai dormito abbastanza. Si vede.»
«Non se ne parla. Che cosa penserebbero di me? Voglio che approvino ingenti stanziamenti per i miei veterani e non mi presento perché non sto tanto bene?»
Calpurnia si tormentava le mani, cercava di asciugarsi le lacrime che le scendevano sulle guance: «Che cosa posso fare perchĂ© tu non esca da questa casa? Ricordarti che mi sei debitore? Che non ho mai detto una parola nĂ© mutato la mia condotta quando tutti sapevano che mi tradivi? Devo ricordarti che ho sempre custodito la tua casa con devozione anche quando la regina dâEgitto ti ha partorito un figlio, anche ora che â ne sono certa â continua a mandarti ardenti messaggi dâamore?».
Cesare si volse verso di lei di scatto, la collera avvampava nel suo sguardo ma Calpurnia non smise di incalzarlo: «SĂŹ, puoi maledirmi, imprecare, disprezzarmi, ma fai una cosa per me, una sola! Non lasciare queste sacre mura in un giorno cosĂŹ infausto. Non ti ho mai chiesto nulla, non ti chiederĂČ mai piĂč nulla. Ti lascerĂČ partire a ciglio asciutto quando verrĂ il momento. Fallo per la tua sposa legittima, non ti chiedo altro».
Non riuscĂŹ a trattenere il pianto.
Cesare restĂČ a guardarla in silenzio, turbato. Alla fine cedette: «E sia. CercherĂČ di trovare un pretesto che non mi renda ridicolo. E ora, ti prego, lasciami solo».
Calpurnia uscĂŹ in lacrime e Cesare chiamĂČ il medico: «Antistio!».
«Eccomi, Cesare» rispose accorrendo.
«Manda un corriere al senato, fai annunciare che non posso andare alla seduta. Inventa tu una scusa plausibile.»
«Stai male, Cesare. Non basta?»
«No. Ma non ti mancheranno argomenti piĂč gravi.»
«Naturalmente. E non ho bisogno di inventarli.»
«Allora vai. Non posso fare attendere i senatori.»
Antistio si gettĂČ sulle spalle un mantello e si diresse verso il Campo Marzio. Attraversando il foro vide passare sul bordo settentrionale della piazza Cassio Longino, Tillio Cimbro, Publio Servilio Casca, e altri che non conosceva. Camminavano spediti, in gruppo. Cassio portava con sĂ© un giovinetto, probabilmente suo figlio, che quel giorno avrebbe rivestito la toga virile.
Tirava un vento freddo da tramontana ma il cielo era quasi sgombro e il sole splendeva sulla cittĂ . A mano a mano che si avvicinava alla curia di Pompeo, dove si sarebbe tenuta la seduta, Antistio vedeva le lettighe di diversi nobili senatori che aveva imparato a riconoscere. Altri, fra i piĂč tradizionalisti, andavano a piedi camminando di buon passo, altri ancora, affaticati dallâetĂ , si appoggiavano a un bastone o erano sostenuti dai figli.
Vide Licinio Celere, Aurelio Cotta, Publio Cornelio Dolabella, riconobbe un anziano senatore amico di Cicerone, Popilio Lenate, e poi Gaio Trebonio e altri ancora. AffrettĂČ il passo per arrivare prima della maggior parte di loro e quando fu giunto a destinazione si guardĂČ intorno rendendosi conto che in pratica i senatori erano quasi tutti presenti. Non riuscĂŹ a vedere Cicerone ma vide Decimo Bruto e, poco dopo, Marco Junio Bruto. Torvo.
Si avvicinĂČ al tavolo del senatore incaricato di redigere il verbale della seduta e gli comunicĂČ il messaggio: «Cesare non potrĂ venire oggi. Ă indisposto e febbricitante e ha passato una notte agitata. Ti prega di presentare le sue scuse allâAssemblea».
Stava ancora parlando quando si avvicinĂČ Decimo Bruto: «Che cosa succede, Antistio?».
«Cesare sta male, non potrà venire in senato questa mattina.»
«Che cosa? Non Ú possibile.»
«à come ti dico. Ha passato una brutta notte, ha la febbre. Ha chiesto di rimandare la seduta.»
Decimo Bruto si rivolse al cancelliere: «Non dare nessuna comunicazione finché non torno».
Antistio restĂČ turbato dalla freddezza di Decimo Bruto che non aveva nemmeno chiesto che tipo di indisposizione avesse il suo comandante e amico. TornĂČ indietro per vedere che cosa sarebbe successo.
Un brusio percorse i gruppi di senatori che forse giĂ si consigliavano sui temi da trattare in giornata. Adesso avevano qualcosâaltro di cui discutere. Vide molti volti preoccupati, alcuni lasciare un gruppo e raggiungerne un altro, altri bisbigliare qualcosa allâorecchio di qualcuno che annuiva gravemente o mostrava sorpresa, preoccupazione, turbamento.
UscĂŹ attraversando il grande portico e corse verso casa ma evitĂČ di accompagnarsi a Decimo Bruto che lo precedeva di qualche decina di passi. Alla fine entrĂČ nella Regia poco dopo di lui. E subito udĂŹ la sua voce e quella di Cesare.
«Cesare, il senato ti aspetta, che succede?»
Cesare stava sdraiato su un divano, scuro in volto. Antistio entrĂČ in quel momento: «Credo di avere giĂ risposto» disse. «Non vedi che sta male?»
Decimo Bruto, senza nemmeno voltarsi, si avvicinĂČ a Cesare e lo guardĂČ: «Non mi sembra tanto graveâŠÂ».
«Decido io se Ăš grave o non Ăš grave» replicĂČ Antistio. «Ha avuto anche un attacco di asma» mentĂŹ. «Deve riposare.»
Decimo Bruto dominĂČ a stento la sua indignazione contro il piccolo Greco che osava contraddirlo. Lo ignorĂČ e si rivolse a Cesare: «Hai convocato il senato, mancare verrebbe interpretato come un insulto e disprezzo per la sua dignitĂ . In nome degli dĂši, non farlo. Abbiamo giĂ abbastanza difficoltà ».
Calpurnia entrĂČ in quel momento: «à malato. Riferisci al senato che Cesare non Ăš in grado di presiedere la seduta. Sta male, lo vedrebbe anche un cieco».
«Non presentarsi sarebbe peggio di questo piccolo sforzo. Andrà in lettiga. E poi deve solo fare atto di pre...