Narciso e Boccadoro
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Narciso e Boccadoro

Hermann Hesse, Cristina Baseggio

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Narciso e Boccadoro

Hermann Hesse, Cristina Baseggio

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In una Germania rinascimentale, due amici, entrambi novizi in un monastero, Boccadoro, il sensuale vagabondo, e Narciso, l'asceta che diventerà abate, "vivono la saggezza", completandosi a vicenda.

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Information

Publisher
Mondadori
Year
2010
ISBN
9788852016653
Subtopic
Classici

VIII

Boccadoro aveva già camminato a lungo, di rado pernottando due volte nello stesso luogo, dappertutto desiderato e favorito dalle donne, abbronzato dal sole, dimagrito dal vagabondaggio e dalla scarsità del cibo. Molte donne l’avevano lasciato all’alba e alcune se n’erano andate piangendo; più d’una volta aveva pensato: “Perché nessuna rimane con me? Perché, se mi amano e per una notte d’amore violano la fede coniugale... perché ritornano subito tutte ai loro mariti, dai quali spesso temono d’esser picchiate?”. Nessuna l’aveva pregato sul serio di rimanere, nessuna l’aveva mai pregato di prenderla con sé ed era stata pronta per amore a dividere con lui le gioie e le angustie della vita errabonda. Veramente non aveva rivolto a nessuna quell’invito, a nessuna aveva suggerito quell’idea; se interrogava il suo cuore, vedeva che la libertà gli era cara e non ricordava una donna amata, di cui avesse sentito ancora la nostalgia fra le braccia di quella che le era succeduta. E tuttavia gli riusciva strano e un poco triste che l’amore si mostrasse sempre così fugace, quello delle donne, come il suo, e con la stessa rapidità con cui divampava fosse anche sazio. Era giusto questo? Era così sempre e dappertutto? O dipendeva da lui, forse era nella sua natura che le donne lo desiderassero e lo trovassero bello, ma non aspirassero ad altra comunanza con lui che non fosse quella breve e senza parole di una notte nel fieno o sul musco? Era perché viveva da vagabondo e i sedentari provavano orrore per la vita dei senza-patria? O dipendeva proprio solo da lui, dalla sua persona, che le donne lo desiderassero come una bella bambola, ma poi ritornassero ai loro uomini, anche se là le attendevano le percosse?
Non si stancava d’imparare dalle donne. In realtà l’attiravano di più le fanciulle, le giovanissime, che non avevano ancora marito e non sapevano nulla; di esse poteva innamorarsi con ardore; ma erano quasi sempre irraggiungibili, così amate, timide e ben protette! Ma imparava volentieri anche dalle donne. Ognuna gli lasciava qualcosa, un gesto, un modo di baciare, un gioco speciale, una particolare maniera di darsi o di difendersi. Boccadoro accondiscendeva a tutto, era insaziabile e docile come un bimbo, aperto ad ogni seduzione: e per questo appunto seducente egli stesso. La sua bellezza da sola non sarebbe bastata a condurgli così facilmente le donne; era quel suo candore infantile, quella sua innocenza curiosa della brama, quell’essere aperto e meravigliosamente pronto a ciò che una donna poteva desiderare da lui. Senza saperlo, era presso ogni donna amata proprio così come essa lo desiderava e lo sognava, con l’una delicato e paziente nell’attesa, con l’altra impetuoso e intraprendente, ora ingenuo come un ragazzo iniziato per la prima volta, ora raffinato ed esperto. Era pronto al gioco e alla lotta, al sospiro e al riso, al pudore e alla spudoratezza; non faceva nulla a una donna ch’ella non bramasse, nulla ch’ella non provocasse da lui. Questo era ciò che ogni donna dai sensi accorti intuiva subito in Boccadoro, questo lo rendeva il suo beniamino.
Egli intanto imparava. In breve non imparò solo molte qualità e molte arti d’amore, accogliendo in sé le esperienze di molte amanti. Imparò anche a vedere le donne nella loro varietà, a sentirle, a tastarle, a odorarle: acquistò un orecchio finissimo per ogni sorta di voce e più d’una volta dal suo semplice suono sapeva indovinare con sicurezza il genere della donna e la sua capacità d’amare. Con sempre nuovo rapimento contemplava gli infiniti modi diversi come una testa poteva reggersi sul collo, una capigliatura staccarsi dalla fronte, una rotula muoversi entro il ginocchio. Al buio, ad occhi chiusi, col tatto delicato delle dita imparava a distinguere una chioma femminile o una qualità di pelle e di pelurie dall’altra. Cominciò per tempo ad accorgersi che forse il senso del suo vagabondaggio stava proprio in questo, che forse era sospinto da una donna all’altra appunto perché potesse imparare a esercitare con sempre maggior finezza, varietà e profondità, questa capacità di conoscere e di distinguere. Forse era questo il suo destino: imparare a conoscere le donne e l’amore in mille modi e in mille forme diverse fino alla perfezione, così come taluni musicisti sanno suonare non un solo strumento, ma tre, quattro, molti. A quale scopo ciò dovesse servire, dove conducesse, certo non sapeva; sentiva solo di essere in cammino. Se per il latino e per la logica aveva certe attitudini – non però doti rare, singolari e sorprendenti – per l’amore, per il gioco con le donne era eccezionalmente dotato; qui imparava senza fatica, qui non dimenticava nulla, qui le esperienze si accumulavano e si ordinavano da sé.
Un giorno, quando già da un anno o due vagava per il mondo, Boccadoro giunse al castello di un agiato cavaliere, che aveva due figlie giovani e belle. Era il principio d’autunno, presto le notti sarebbero diventate fredde; nell’autunno e nell’inverno passati aveva fatto la sua esperienza, e non senza preoccupazione pensava ai mesi venturi: nell’inverno la vita del vagabondo era dura. Chiese cibo e asilo per la notte. Fu accolto cortesemente, e quando il cavaliere udì che lo straniero aveva studiato e sapeva il greco, lo fece passare dalla tavola dei servi alla sua e lo trattò quasi come suo pari. Le due figlie tenevano gli occhi bassi; la maggiore aveva diciotto anni, la minore sedici appena: Lidia e Giulia.
Il giorno dopo Boccadoro voleva proseguire: non c’era per lui nessuna speranza di poter conquistare una di quelle belle e bionde damigelle, e altre donne, per cui rimanere, non se ne vedevano. Ma dopo la prima colazione il cavaliere lo prese da parte e lo condusse in una stanza, ch’egli si era arredata per scopi speciali. Il vecchio parlò con modestia al giovane della sua passione per la dottrina e per i libri, gli mostrò un piccolo cofano pieno di scritti, da lui raccolti, uno scrittoio che s’era fatto costruire e una provvista di bella carta e pergamena. Questo bravo cavaliere era stato a scuola in gioventù: poi, come Boccadoro venne a sapere a poco a poco, si era dato tutto alla vita guerresca e mondana, finché, gravemente malato, un avvertimento divino l’aveva indotto a unirsi a una schiera di pellegrini e a espiare così la sua gioventù peccaminosa. Era andato a Roma e perfino a Costantinopoli, al ritorno aveva trovato il padre morto e la casa vuota, vi aveva fissato la sua dimora, s’era sposato, aveva perduto la moglie e allevato le figliole, e, poiché ormai cominciava la vecchiaia, s’era accinto a scrivere una minuta relazione del suo pellegrinaggio. Aveva già messo insieme parecchi capitoli, ma – confessò al giovane – il suo latino era molto deficiente e lo inceppava ad ogni passo. Offerse dunque a Boccadoro un abito nuovo e libero asilo, se voleva correggergli e mettergli in bella copia ciò che aveva scritto fino allora, e poi aiutarlo a continuare.
Era autunno: Boccadoro sapeva quel che ciò significava per un vagabondo. Anche l’abito nuovo era assai desiderabile. Ma soprattutto piacque al giovane la prospettiva di rimanere ancora a lungo nella stessa casa con le due belle sorelle. Accettò senza esitare. Dopo pochi giorni la dispensiera del castello doveva aprire l’armadio delle stoffe; trovarono un bel panno marrone, con cui fecero confezionare un abito e un berretto per Boccadoro. Veramente il cavaliere aveva pensato al nero, a una specie di veste da magister, ma il suo ospite non ne volle sapere e riuscì a dissuaderlo. Venne fuori così un grazioso costume, un po’ da paggio e un po’ da cacciatore, che gli stava benissimo.
Anche col latino non andò male. Rilessero insieme ciò ch’era stato scritto fino allora, e Boccadoro non solo corresse i molti vocaboli inesatti ed errati, ma qua e là trasformò anche le brevi frasi impacciate in eleganti periodi latini, con solide costruzioni e una perfetta consecutio temporum. Procurò così un gran godimento al cavaliere, che non gli era avaro di lodi. Ogni giorno passavano almeno due ore a quel lavoro.
Nel castello – una specie di grande masseria fortificata – Boccadoro trovò più d’un passatempo: prese parte alla caccia e dal cacciatore Enrico imparò a tirar con la balestra, fece amicizia coi cani e poté cavalcare a suo piacimento. Di rado lo si vedeva solo; o parlava con un cane o con un cavallo, oppure col cacciatore Enrico o con la dispensiera Lea, una grossa vecchia che aveva una voce maschile e una gran voglia di ridere e di scherzare, o infine col guardiano dei cani o con un pastore. Con la moglie del mugnaio, che abitava vicinissima, non sarebbe stato difficile fare all’amore, ma egli manteneva un contegno riservato e faceva l’ingenuo.
Delle due figlie del cavaliere era entusiasta. La minore era la più bella, ma così sdegnosa che non diceva quasi una parola con Boccadoro. Trattava ambedue col massimo riguardo e ossequio, ma l’una e l’altra sentivano la sua vicinanza come una corte assidua. La più giovane si chiudeva tutta, fiera per timidezza. La maggiore, Lidia, aveva trovato con lui un tono speciale, fra rispettoso e canzonatorio, e lo trattava come una bestia rara d’erudito, rivolgendogli molte domande curiose, informandosi della vita del convento, ma sempre con un fare da gran dama superiore e un po’ beffarda. Egli accondiscendeva a tutto; trattava Lidia come una dama, Giulia come una monachella, e quando, dopo cena, riusciva con la sua conversazione a trattenere le fanciulle a tavola un po’ più a lungo del solito, o quando Lidia in cortile o in giardino gli rivolgeva talvolta la parola e si permetteva qualche piccolo scherzo, era contento e sentiva d’aver fatto un progresso.
In quell’autunno le foglie indugiarono a lungo sugli alti frassini del cortile, in giardino rimasero fioriti a lungo gli astri e le rose. Un giorno arrivò una visita; giunsero a cavallo un signore di un possedimento vicino, con sua moglie e un palafreniere; la giornata mite li aveva indotti a una gita più lunga del consueto e così erano arrivati fin là e chiedevano alloggio per la notte. Furono accolti molto cortesemente e subito il letto di Boccadoro fu trasportato dalla camera dei forestieri nello studio, la camera fu messa in ordine per i visitatori, vennero ammazzati alcuni polli e cercati pesci al mulino. Boccadoro partecipò con gioia al festoso trambusto e subito s’accorse d’attirare l’attenzione della signora straniera. La voce e qualcosa nello sguardo di lei gli avevano appena rivelato la sua compiacenza e la sua brama, quando notò anche, con crescente attenzione, attuarsi un mutamento in Lidia: diventò chiusa e taciturna e cominciò a osservare lui e la dama. Quando durante la cena festosa il piede della signora prese a giocare sotto la tavola col piede di Boccadoro, egli rimase incantato non tanto di quel gioco quanto dell’ansia cupa e silenziosa, con cui Lidia lo seguiva con occhi curiosi e fiammeggianti. Infine egli lasciò cadere con intenzione un coltello per terra, si chinò sotto la tavola e sfiorò con una carezza il piede e la gamba della dama: vide Lidia impallidire e mordersi le labbra; continuò a raccontare aneddoti di convento e sentì che la straniera più che le storie ascoltava intensamente la sua voce insinuante. Anche gli altri stavano attenti, il suo padrone con benevolenza, l’ospite con volto impassibile, ma toccato anch’egli dal fuoco che ardeva nel giovane. Lidia non l’aveva mai udito parlare così: era come sbocciato, c’era un fremito di voluttà nell’aria, i suoi occhi brillavano, nella sua voce cantava la felicità, implorava l’amore. Le tre donne lo sentivano, ciascuna in modo diverso: la piccola Giulia con violenta riluttanza e resistenza; la moglie del cavaliere con soddisfazione raggiante; Lidia con un doloroso tumulto del cuore, che ondeggiava fra l’intimo desiderio, una blanda resistenza e la più viva gelosia, e che le allungava il volto e le faceva ardere gli occhi. Boccadoro sentiva tutte queste ondate che rifluivano a lui come risposte segrete alle sue seduzioni; i pensieri d’amore, di dedizione, di resistenza, di lotta reciproca gli volavano intorno come uccelli.
Dopo cena Giulia si ritirò; era già notte avanzata; con la sua candela nel candeliere di terracotta lasciò il terrazzo, fredda come una piccola monaca. Gli altri rimasero ancora un’ora, e mentre i due signori parlavano del raccolto, dell’imperatore e del vescovo, Lidia ascoltava, tutta accesa, un negligente chiacchierio, a proposito di nulla, fra Boccadoro e la dama, e vedeva intessersi fra i suoi fili lenti una fitta e dolce rete di domande e di risposte, di sguardi, di accenti, di piccoli gesti, ciascuno dei quali era carico di significato e rovente di ardore. La fanciulla aspirava l’atmosfera con avidità e insieme con orrore, e, quando scorgeva o intuiva che il ginocchio di Boccadoro sfiorava sotto la tavola quello della straniera, sentiva il contatto sul suo proprio corpo e sussultava. Poi non dormì, e per metà della notte stette in ascolto col batticuore, convinta che i due si sarebbero trovati insieme. Completò nella sua immaginazione quello che a loro era vietato, li vide abbracciati, udì i loro baci, e tremò persino d’agitazione, temendo e desiderando al tempo stesso che il cavaliere ingannato sorprendesse gli amanti e trafiggesse col suo pugnale il cuore di quell’abominevole Boccadoro.
La mattina seguente il cielo era coperto, soffiava un vento umido, e l’ospite, respingendo ogni invito di rimanere più a lungo, insistette per partire subito. Lidia era presente quando gli ospiti salirono a cavallo, strinse loro la mano, disse parole d’addio; ma non sapeva quel che faceva, tutti i suoi sensi erano concentrati nello sguardo con cui osservò la dama posare il piede, mentre montava in sella, fra le mani di Boccadoro, e la destra di lui, larga e ferma, afferrare la scarpa e stringere per un momento con forza il piede della donna.
Partiti gli ospiti, Boccadoro dovette ritirarsi nello studio a lavorare. Dopo una mezz’ora udì risuonare in basso la voce imperiosa di Lidia e condurre innanzi un cavallo; il cavaliere s’affacciò alla finestra e guardò giù sorridendo e scuotendo la testa; poi entrambi seguirono con lo sguardo Lidia, mentre usciva a cavallo dal cortile. Quel giorno il loro latino non avanzò di molto; Boccadoro era distratto; il suo signore, benevolo, lo congedò prima del solito.
Sceso nel cortile, uscì inosservato sul suo cavallo, incontro al vento d’autunno fresco e umido, nella campagna scolorita; serrando sempre più il trotto, sentì il cavallo scaldarsi sotto di sé e il suo stesso sangue infuocarsi. Per campi di stoppie e di maggese, per la landa e per tratti di palude coperti di canne e setoloni, cavalcò respirando a pieni polmoni nella giornata grigia, traversando vallette di ontani e pinete imporrite, poi di nuovo sulla landa bruna e deserta.
Sulla cresta alta di un colle, nitida contro il cielo nuvoloso color di cenere, scoperse la figura di Lidia, eretta sopra il cavallo che trottava lento. Si lanciò verso di lei; appena lei si vide inseguita, spronò il suo cavallo e si diede alla fuga. Ora scompariva, ora riappariva con i capelli al vento. Le dava la caccia come a una preda, e gli rideva il cuore, mentre con piccoli gridi affettuosi eccitava il cavallo, con occhi sereni coglieva a volo le caratteristiche del paesaggio, i campi acquattati, i boschetti di ontani, i gruppi d’aceri, le rive fangose degli stagni; ma poi riconduceva lo sguardo alla sua meta, alla bella fuggitiva. Presto l’avrebbe raggiunta.
Quando Lidia lo sentì vicino, rinunciò alla fuga e mise il cavallo al passo. Non si voltò verso l’inseguitore. Fiera, apparentemente indifferente, continuò a cavalcare come se nulla fosse stato, come se fosse sola. Egli spinse il cavallo accanto al suo e i due animali proseguirono tranquilli l’uno di fianco all’altro, ma cavalli e cavalieri erano riscaldati dalla corsa.
«Lidia!» chiamò sottovoce.
Ella non diede risposta.
«Lidia!»
Ella rimase muta.
«Com’era bello, Lidia, vederti cavalcare da lontano! I tuoi capelli volavano dietro di te come una saetta d’oro. Com’era bello! Ah, che meraviglia che tu sia fuggita da me! Così ho veduto per la prima volta che mi vuoi un po’ di bene. Non lo sapevo, ancora ieri sera ero in dubbio. Solo quando hai cercato di sfuggirmi, l’ho capito a un tratto. Bella, cara, devi essere stanca, smontiamo!»
Balzò rapido dal cavallo e nello stesso istante afferrò le redini di lei, perché non gli scappasse un’altra volta. Lo g...

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