Caravaggio
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Caravaggio

Vita sacra e profana

Andrew Graham-Dixon, Massimo Parizzi

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Vita sacra e profana

Andrew Graham-Dixon, Massimo Parizzi

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"L'arte di Caravaggio è fatta di buio e luce. Le sue immagini presentano, come sotto un riflettore, momenti di esperienza umana spesso estremi e tormentati. Un uomo è decapitato nella sua camera da letto, il sangue che gli sgorga da un profondo squarcio nel collo. Un uomo è assassinato sull'altare maggiore di una chiesa. Una donna è colpita al ventre da una freccia a bruciapelo. Le immagini di Caravaggio congelano il tempo, ma sembrano anche librarsi sull'orlo del dissolvimento. I volti sono vivamente illuminati. I dettagli emergono dal buio con tale arcana chiarezza da poter essere allucinazioni. Ma, sempre, le ombre sconfinano, pozze nere che minacciano di cancellare tutto. Guardare i suoi quadri è come guardare il mondo alla luce di un fulmine.» La straordinaria capacità di Michelangelo Merisi da Caravaggio di esprimere il dramma dell'uomo attraverso la pittura riflette, come in pochi altri casi nella storia dell'arte, la sua esistenza reale, una vita fatta «di lampi nella più buia delle notti». Nato nel 1571 nella cittadina lombarda di Caravaggio, visse in seguito tra Milano, Roma e Napoli, lavorando per cardinali e potenti signori dell'epoca, che si contendevano i migliori artisti per le proprie casate. Appena uscito dalle grandi chiese e dai lussuosi palazzi, si ubriacava nelle bettole, andava a prostitute, incappava in risse di strada, durante una delle quali si macchiò di omicidio. Per sfuggire all'arresto scappò a Napoli e quindi a Malta. Lì, dopo essere entrato nell'ordine dei cavalieri di San Giovanni per evitare la condanna a morte che pendeva su di lui, fu incarcerato per aver aggredito un cavaliere di rango superiore, ma riuscì a evadere. Morì pochi anni dopo mentre tornava a Roma a chiedere al papa la grazia per i suoi crimini. Aveva trentotto anni. Da quattrocento anni la sua vita tumultuosa e la sua morte misteriosa sono oggetto di ipotesi e congetture. Per ricostruire la storia di questo artista unico, Andrew Graham-Dixon ha lavorato oltre un decennio, con le metodologie di un vero detective e avvalendosi di documenti scoperti di recente. Il risultato prima biografia completa e rigorosa, che allarga lo sguardo agli amici - e ai nemici - che hanno influenzato la sua arte, tratteggia un affresco vivido dell'Italia della Controriforma e offre una nuova e convincente interpretazione dell'enigma della sua morte. Una grandiosa ricostruzione storica e, grazie anche al ricco apparato iconografico, un viaggio al cuore dell'arte di Caravaggio: per scoprire, attraverso i suoi dipinti, le emozioni che lo muovevano e per cercare di far luce, ripercorrendo la sua vita, su quel lato oscuro che ci colpisce così profondamente quando guardiamo i suoi capolavori.

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Information

Publisher
Mondadori
Year
2012
ISBN
9788852022401

Parte quarta

ROMA, 1599-1606

La cappella di San Matteo
Per il clero di San Luigi la cappella Contarelli non aveva significato altro che guai. Quinta sulla sinistra nella chiesa nazionale dei francesi, era da anni poco più che un cantiere. Non solo rovinava l’aspetto di tutta la chiesa, lamentavano i sacerdoti, ma stava danneggiando anche la reputazione della comunità francese di Roma.
La saga aveva avuto inizio nel 1565, quando un cardinale francese di nome Mathieu Cointrel (o Matteo Contarelli, come il nome era stato italianizzato) aveva pagato una somma considerevole per acquistare la cappella, dove intendeva essere sepolto. Contarelli era già stato generoso verso la chiesa durante la sua costruzione, pagando il conto della bella facciata marmorea, opera di Giacomo della Porta. Ma, nonostante tutti i suoi sforzi, quando morì, nel 1585, la cappella era ancora pressoché spoglia di decorazioni.
Egli stesso aveva incaricato Girolamo Muziano, pittore competente ma non eccezionale, di dipingere degli affreschi sulle due pareti laterali e decorarne la volta. Muziano aveva tergiversato per anni, finendo per tirarsi indietro senza avere dipinto quasi niente. Nel 1587 l’esecutore testamentario di Contarelli, Virgilio Crescenzi, aveva commissionato un gruppo marmoreo per l’altare a uno scultore fiammingo, Jacques Cobaert. Inoltre aveva convinto Giuseppe Cesari ad affrescare le pareti e il soffitto. Cesari aveva portato a termine gli affreschi della volta nel 1593, quando Caravaggio faceva parte della sua bottega, ma, sommerso da altre commissioni, fra cui diverse per il pontefice, non aveva mai trovato il tempo per il resto. Intanto lo scultore, Cobaert, stava lavorando sodo, o almeno così diceva, perché non aveva ancora fatto vedere niente. Elettrizzato dall’importanza della commissione, ma paralizzato dai dubbi sulle proprie capacità, lavorò accanitamente per anni a quello che sperava sarebbe stato il suo magnum opus. Nel 1596 il contratto gli fu rinnovato ma, all’avvicinarsi della fine del secolo, non c’era ancora alcun segno che la sua opera sarebbe mai stata consegnata. Chi gli era vicino notava che Cobaert si stava facendo sempre più paranoico e reticente.
Nel 1597 i sacerdoti, messi da così tanto tempo a dura prova, avevano perso la pazienza. Con l’anno giubilare del 1600 che si avvicinava a grandi passi, avevano inviato una petizione al papa:
Beatissimo padre, La natione francese della Chiesa di San Luigi di Roma […] espongono humilmente come la capella di San Matteo in essa chiesa fondata, e dotata di scudi cento d’oro l’anno per doi capellani dalla bo. me. il Cardinale San Stefano, è stata più di XXV anni, et è ancora al presente serrata, et se la Sta V. non interpone la sua autorità, va a pericolo che non la si finisca mai poiché il Signor Abbate Giacomo Crescentio essecutore del testamento del sudetto Card., surrogato dal padre di lui Vergilio Crescentio […] non l’ha mai finita scusandosi or’ su ‘l scultore, or su ‘l pittore ora sopra una cosa ora sopra un’altra, et così l’anima del defunto viene ad esser fraudata del suffragio ch’ivi si dee fare, et la Chiesa di S. Luigi similmente fraudata del emolumento, ad essa capella assignato. Il che torna in gran pregiuditio del culto divino, et vergogna della natione, stimando gl’esteri che da loro provenga tal difetto, poiché la vedono continuamente serrata di tavole mentre che diverse Chiese si sono fabricate in Roma interamente da fondamenti in manco tempo che quella capella è stata serrata […] li heredi, et figlioli del Crescentio, cumulando [introiti] anno dopo anno, et dì per dì hanno comprato molti, et diversi uffitii in cancellaria, Casali, et altre cose, senza effettuare cosa alcuna relevante della volontà del testatore, et senza far dire pure un anniversario per l’anima del defunto.1
In conseguenza di questa filippica, Clemente VIII ordinò ai Crescenzi di rinunciare all’eredità Contarelli e affidò la responsabilità della cappella alla Fabbrica di San Pietro. Di nuovo ci si rivolse a Giuseppe Cesari, chiedendogli di finire ciò che aveva iniziato, ma egli lamentò di essere sovraccarico di lavoro. Del Monte, il cui palazzo era esattamente di fronte alla chiesa, e che era in amicizia con i Crescenzi, seguì con attenzione l’evolversi della vicenda. Si diede personalmente da fare dietro le quinte, tirò i fili giusti e, in qualche modo, riuscì a fare assegnare la commissione a Caravaggio, un artista che non aveva ancora dato alcuna prova di sé nell’arena pubblica della pittura religiosa su grande scala. «Per opera del Suo cardinale hebbe in s. Luigi de’ Francesi la cappella de’ Contarelli» scrisse Baglione con una punta di acredine. Il 23 luglio 1599 l’artista firmò con i due rettori della chiesa un contratto in cui s’impegnava a completare i pannelli laterali per la cappella entro la fine dell’anno per un compenso di quattrocento scudi.
Era un’ardua sfida per un artista giovane e relativamente inesperto. Fino a quel momento Caravaggio non aveva mai dipinto un quadro con più di quattro figure. Nessuna delle sue tele precedenti era più larga di 120-150 centimetri e, di colpo, si trovava a dover produrre due dipinti monumentali, ciascuno largo oltre tre metri e alto quasi altrettanto. Egli aveva, è vero, dipinto una serie di opere devozionali, ma era noto soprattutto come pittore di scene di genere, con un talento per la natura morta. Ora era invitato a creare complessi dipinti narrativi religiosi. Era un’occasione per competere con i più grandi artisti del passato. Ma se fosse andata male, anche il fallimento sarebbe stato della stessa portata.
I soggetti dei due quadri laterali per la cappella erano stati prescritti dal cardinale Contarelli stesso. Egli aveva voluto che la sua cappella funeraria fosse dedicata a san Matteo, il santo di cui portava il nome, e quindi i dipinti ai due lati dell’altare dovevano raccontare storie della vita dell’apostolo. Quello di sinistra avrebbe dovuto mostrare Matteo, l’esattore delle imposte, chiamato da Cristo; quello di destra il glorioso martirio del santo per mano di un assassino pagano. Cointrel aveva concepito anche idee molto precise su come queste scene andassero raffigurate, idee che trovarono espressione in un allegato, eccezionalmente dettagliato, a uno dei contratti per la decorazione della cappella:
Per la cappella di San Matteo. Al lato destro dell’altare cioè alla banda del Vangelio si facci un quadro alto palmi dicesette et largo palmi quatordici di vano nel quale sia medisimam[en]te dipinto San Matteo dentro un magazeno, over, salone ad uso di gabella con diverse robbe che convengono a tal officio con un banco come usano i gabellieri con libri, et danari in atto d’haver riscosso qualche somma o, come meglio parera. Da qual banco San Matteo, vestito secondo che parera convenirsi a quell’arte, si levi con desiderio per venire a N. S.re che passando lungo la strada con i suoi discepoli lo chiama all’apostolato; et nell’atto di San Matteo si ha da dimostrare l’artificio del pittore come anco nel resto. Al lato sinistro cioe dell’epistola sia un altro quadro alto et lungo come di sopra, nel q[u]ale sia depinto un luogo lungo et largo quasi in forma di tempio et nella parte di sopra un altare in isola elevato con tre quattro cinque più o meno gradi: ove San Matteo celebrando la Messa vestito in quel modo che poi si darà da intendere sia ammazzato da una mano di soldati et si crede sara piu secondo l’arte farlo nell’atto dell’ammazzare pero che habbi ricevuta q[u]alche ferita et gia sia cascato o in atto di cadere ma non ancor morto et nel detto tempo sia moltitudine d’huomini et donne giovani vecchi putti et d’ogni altra sorte in oratione per la maggior parte et seconda le qualità loro et nobilta vestiti et sopra banche et tappeti et altri apparati, et per il più spaventati dal caso mostrando in altri sdegno in altri compassione.2
Il livello di dettaglio di queste istruzioni mostra con quanta cautela i pittori dovessero operare a Roma alla fine del XVI secolo. Caravaggio si prenderà delle licenze artistiche, ma restando fedele allo spirito delle raccomandazioni del committente. Nessuna fonte documentaria specifica la tecnica in cui i dipinti dovevano essere realizzati, anche se la preminenza dell’affresco nella tradizione dell’arte cristiana a Roma era tale che, probabilmente, si presumeva che così il pittore avrebbe lavorato. L’affresco, tuttavia, obbliga a dipingere in situ, applicando il pigmento direttamente su uno strato di intonaco fresco in via di rapida essiccazione. Questo avrebbe imposto a Caravaggio di abbandonare la pratica a lui abituale di dipingere in studio da modelli vivi messi in posa in condizioni di luce attentamente controllate. Riluttante a rinunciare a un modo di procedere che gli aveva già conquistato ammiratori, egli comprò due grandi tele e si mise al lavoro nel suo solito modo.
Fedele al metodo di trasporre il passato biblico nel presente, ambientò la Vocazione di san Matteo in una squallida stanza della Roma moderna. Cristo e san Pietro hanno appena fatto il loro ingresso nel buio e spoglio ufficio di Matteo, il gabelliere. Vi trovano cinque uomini, tutti raccolti attorno a un tavolo vicino a una parete nuda alleggerita da un’unica finestra. L’imposta della finestra è aperta, ma dai suoi quattro pannelli opachi, non di vetro, bensì di una tela cerata tenuta da corde incrociate, penetra ben poca luce. Sul tavolo ci sono delle monete e un borsellino, un libro dei conti aperto e un calamaio da cui sporge il gambo di una penna d’oca. È in corso una transazione.
In fondo al tavolo, un giovane seduto su una savonarola è assorto in calcoli. È il contribuente, ha pagato il dovuto e ricevuto un piccolo resto. Le spalle curve, sta contando la misera manciata di monete che ha di fronte prima di mettersele in tasca. Subito dietro di lui, un vecchio con gli occhiali e un pastrano orlato di pelliccia percorre con lo sguardo il tavolo, come per controllare che sia stato dato e ricevuto il giusto. Accanto a essi siede Matteo insieme al suo paggio, un ragazzo dal volto paffuto che si appoggia con familiarità amichevole alla spalla del padrone. Per questa figura posò l’amico siciliano di Caravaggio, il pittore Mario Minniti. Di fronte è seduto un altro giovane in una bella livrea da paggio, le cui maniche a righe bianche e nere lampeggiano e luccicano nella penombra della stanza. È presumibilmente la guardia del corpo del contribuente. La tradizione vuole che anche per questa figura abbia fatto da modello un pittore, Lionello Spada. Ma l’identificazione può essere apocrifa, un volo di fantasia forse ispirato dalla spada che gli pende dal fianco.
Il racconto biblico della chiamata di Matteo all’apostolato è di una laconicità estrema: «Andando via di là, Gesù vide un uomo seduto al banco delle imposte, chiamato Matteo, e gli disse: “Seguimi”. Ed egli si alzò e lo seguì» (Matteo 9,9). Caravaggio rappresentò il momento al cuore di questa succinta narrazione, quello in cui Cristo ha appena pronunciato la sua semplice, singola parola di comando. Matteo, stupefatto e nello stesso tempo soggiogato, si punta un dito al petto fissando negli occhi il Salvatore. C’è incredulità nella sua espressione e, sulle sue labbra, una domanda congelata: «Chi, io?». Egli continua, distrattamente, a contare il resto del contribuente fino all’ultima moneta, ma ormai sa in che direzione il suo destino lo porta. Punta le gambe preparandosi ad alzarsi ed entrare nella sua nuova esistenza. Il comando è irresistibile, il suo esito inevitabile. Cristo fissa l’esattore delle imposte con uno sguardo intenso, ipnotico. Mentre sta ancora tendendo il braccio verso Matteo, ha già iniziato a lasciare la stanza. I suoi piedi nudi, seminascosti nell’ombra profonda, si sono voltati, allontanandosi dalla compagnia degli uomini per tornare a volgersi verso il mondo esterno. Ancora un attimo e se ne sarà andato, portando con sé il nuovo apostolo. È stato fatto tutto ciò che doveva essere fatto.
Matteo e i suoi compagni, seduti attorno a un tavolo cosparso di monete, potrebbero quasi essere dei giocatori all’osteria dei Bari dipinti per il cardinale Del Monte cinque anni prima. L’uomo che, sconsolato, ha pagato le sue tasse e sta rastrellando il resto, un esiguo mucchietto di monete, fa pensare a un giocatore che abbia appena vinto una somma risibilmente modesta. Anzi, esattamente così lo vide, anni dopo che il quadro era stato dipinto, l’autore del XVII secolo Joachim von Sandrart. «È rappresentato Cristo che entra in una stanza oscura con due dei suoi e trova il pubblicano Matteo con una manica di bricconi che bevono e giocano a carte e ai dadi: Matteo, colto da timore, nasconde le carte in una mano e porta l’altra al petto, mostrando nel volto la paura e la vergogna che lo ha accolto perché indegnamente è stato chiamato da Cristo all’ufficio di apostolo; un altro con una mano fa scivolare dal tavolo del denaro nell’altra e si allontana tutto vergognoso: tutto ciò è perfettamente conforme alla natura e alla vita.»3
Sandrart, è chiaro, non dovette contemplare il dipinto con la massima attenzione, ma la sua erronea interpretazione evoca un’atmosfera che Caravaggio aveva inteso creare. L’ufficio dell’esattore delle imposte, nel suo squallore da scantinato, con i suoi personaggi mercenari, fa davvero pensare a un sordido covo d’iniquità. In questa oscurità, Cristo porta luce, proprio come porta luce e missione divina nella triste esistenza da raccattasoldi di Matteo. La principale sorgente di luce del quadro è in alto a destra, a suggerire la luce del giorno che inonda la stanza dall’alto, forse attraverso una porta aperta e giù per una rampa di scalini. Essa lampeggia sul volto di Matteo, lungo una diagonale parallela alla linea tracciata dall’aureola dorata di Cristo e dalla sua mano illuminata, protesa a indicare. È la luce della normale, terrena realtà, ma è anche la luce di Dio.
La Vocazione di san Matteo è costruita su contrasti, e non solo contrasti di luce e ombra. Mentre Matteo e i suoi compagni sono vestiti da moderni damerini, Cristo e la figura di san Pietro, solenne nella sua espressione di rimprovero, sono a piedi nudi e indossano abiti semplici e senza tempo. Essi appartengono a un altro tempo e a un altro luogo, a un altro universo morale e spirituale. Potrebbero essere un’apparizione o un sogno, proiettati dal remoto passato sacro in un presente romano profano.
Con la Vocazione di san Matteo Caravaggio rivendicava un posto nella grande tradizione italiana della pittura religiosa monumentale; e con tanta sicurezza da inserire un riferimento palese a tale tradizione nel tessuto stesso dell’opera. La mano che Cristo tende verso Matteo è un’esplicita parafrasi di una delle immagini più celebri di Michelangelo nella volta della cappella Sistina, un particolare attinto dalla Creazione di Adamo, in cui il dito vivificante di Dio si tende verso la languida mano del primo uomo. Ma al proprio Cristo, per il suo gesto solenne, Caravaggio non scelse di dare la mano di Dio, bensì quella di Adamo. Questo apparente omaggio a Michelangelo è in realtà, da parte dell’artista, un’affermazione di indipendenza di pensiero, e il particolare aggiunge all’immagine uno strato di significato ben appropriato e sottile. Il Cristo di Caravaggio diventa un secondo Adamo, fatto a immagine di Dio, ma purgato dal peccato, che chiama Matteo alla redenzione: «E come tutti muoiono in Adamo, così tutti riceveranno la vita in Cristo» (1 Cor 15,22).
La mano di Cristo non è l’unica allusione del genere nel quadro. Il raccogliersi delle figure attorno al tavolo è studiato per assomigliare a una versione profana dell’Ultima cena. Il giovane che conta il suo resto, incurante dell’appello di Cristo, stringe nella mano sinistra in ombra un sacchetto di monete. È come Giuda con i suoi trenta denari. Matteo è chiamato a lasciare la compagnia dei Giuda di questo mondo per quella di Cristo Salvatore.
La Vocazione di san Matteo è un dipinto poetico e metaforico, anche se la religiosità di cui parla è dura, diretta, minacciosa. Inoltre, c’è in esso un senso di rinuncia personale: in quest’opera Caravaggio rivisitò il mondo dei suoi primi dipinti di genere, ma solo per consegnarlo alle tenebre. La Vocazione di san Matteo era la prima dimostrazione pubblica del prodigioso naturalismo del pittore, eppure, più che una rappresentazione di vita reale, è un sogno di totale fuga dalla realtà, un appello, repentino e inesplicabile, a lasciare una vita di vizio, e una chiamata alla presenza di Dio. Caravaggio sognava di essere chiamato egli stesso così, di essere salvato dalla sua natura imperfetta, indocile?
Con il secondo dei suoi quadri per la cappella Contarelli, il Martirio di san Matteo, il pittore lottò a lungo e duramente, una lotta che divenne di dominio pubblico fra i pettegoli artisti di Roma. Bellori, che ne scrisse settant’anni dopo, ne sapeva abbastanza da poter affermare che Caravaggio lo rifece «due volte»,4 affermazione che trovò conferma quando nel 1966, durante il restauro, l’opera venne esaminata. I ra...

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