Pensieri lenti e veloci
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Pensieri lenti e veloci

Daniel Kahneman, Laura Serra

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Pensieri lenti e veloci

Daniel Kahneman, Laura Serra

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Siamo stati abituati a ritenere che all'uomo, in quanto essere dotato di razionalità, siasufficiente tenere a freno l'istinto e l'emotivitàper essere in grado di valutare in modoobiettivo le situazioni che deve affrontaree di scegliere, tra varie alternative, quellaper sé più vantaggiosa. Gli studi sul processodecisionale condotti ormai da molti annidal premio Nobel Daniel Kahneman hannomostrato quanto illusoria sia questa convinzionee come, in realtà, siamo sempre espostia condizionamenti - magari da parte delnostro stesso modo di pensare - che possonoinsidiare la capacità di giudicare e di agirelucidamente.
Illustrando gli ultimi risultati della sua ricerca, Kahneman ci guida in un'affascinanteesplorazione della mente umana e ci spiegacome essa sia caratterizzata da due processidi pensiero ben distinti: uno veloce e intuitivo(sistema 1), e uno più lento ma anche piùlogico e riflessivo (sistema 2). Se il primo presiedeall'attività cognitiva automatica e involontaria, il secondo entra in azione quandodobbiamo svolgere compiti che richiedonoconcentrazione e autocontrollo. Efficiente eproduttiva, questa organizzazione del pensieroci consente di sviluppare raffinate competenzee abilità e di eseguire con relativa facilitàoperazioni complesse. Ma può ancheessere fonte di errori sistematici (bias), quandol'intuizione si lascia suggestionare daglistereotipi e la riflessione è troppo pigra percorreggerla.
L'effetto profondo dei bias cognitivi si manifestain tutti gli ambiti della nostra vita, dai progetti per le vacanze al gioco in borsa, e le questioni poste da Kahneman si rivelanospesso spiazzanti: è vero che il successodei trader è del tutto casuale e che l'abilità finanziariaè solo un'illusione? Perché la pauradi perdere è più forte del piacere di vincere?Come mai gli ultimi anni un po' meno felicidi una vita felice abbassano di molto la felicitàtotale?Nel rispondere a queste e ad altre domandeanaloghe, affrontate in un vivace e serratodialogo con il lettore, Kahneman componeuna mappa completa della struttura e dellemodalità di funzionamento del pensiero, fornendocinel contempo preziosi suggerimentiper contrastare i meccanismi mentali «veloci», che ci portano a sbagliare, e sollecitarequelli più «lenti», che ci aiutano a ragionare.

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Information

Publisher
Mondadori
Year
2012
ISBN
9788852025211
Parte quarta

SCELTE

XXV

Gli errori di Bernoulli

Un giorno dei primi anni Settanta, Amos mi diede la copia mimeografata di un articolo dell’economista svizzero Bruno Frey, nel quale si parlava degli assunti psicologici della teoria economica. Ricordo vividamente il colore della copertina, rosso scuro. Bruno Frey quasi non si ricorda nemmeno di aver scritto quel pezzo, ma io sono ancora in grado di recitare a memoria la prima frase: «L’agente della teoria economica è razionale ed egoista, e i suoi gusti non cambiano».
Ero sbalordito. I miei colleghi economisti lavoravano nell’edificio accanto, ma non avevo compreso fino allora la profonda differenza tra i nostri mondi intellettuali. Per uno psicologo, è lapalissiano che le persone non sono né perfettamente razionali né del tutto egoiste, e che i loro gusti sono tutto fuorché stabili. Le nostre due discipline parevano studiare due specie diverse, tanto che in seguito l’economista comportamentale Richard Thaler le soprannominò «gli Econ» e «gli Umani».
Diversamente dagli Econ, gli Umani che gli psicologi conoscono hanno un sistema 1. Essi hanno una visione del mondo limitata dalle informazioni disponibili in quel momento (WYSIATI), e quindi non possono essere così logici e coerenti come gli Econ. A volte sono generosi e spesso sono disposti a dare un proprio contributo al gruppo al quale sono legati. Inoltre, non hanno quasi mai idea di che cosa ameranno l’anno prossimo o addirittura domani. Si presentava l’occasione di un interessante dialogo interdisciplinare. Non previdi, allora, che la mia carriera sarebbe stata segnata da quel dialogo.
Poco dopo avermi mostrato l’articolo di Frey, Amos propose che ci concentrassimo, nel nostro progetto successivo, sullo studio del processo decisionale. Non sapevo praticamente nulla dell’argomento, ma lui era un esperto e una star in quel campo, e disse che mi avrebbe istruito. Mentre studiava ancora per la laurea di secondo grado, disse, aveva scritto con un altro autore un manuale, Introduzione alla psicologia matematica,1 e mi invitò a leggerne alcuni capitoli che riteneva costituissero una buona preparazione all’argomento.
Presto appresi che il tema del nostro studio sarebbero stati gli atteggiamenti della gente verso le opzioni di rischio e che avremmo cercato di rispondere a un quesito specifico: quali regole governano le scelte delle persone quando devono decidere tra vari tipi di azzardi semplici e tra azzardi e cose sicure?
Gli azzardi o opzioni di rischio semplici (come «il 40 per cento di probabilità di vincere 300 dollari») sono per gli studiosi del processo decisionale quello che il moscerino della frutta è per i genetisti. Le scelte tra essi costituiscono un semplice modello che ha alcune importanti caratteristiche in comune con i processi decisionali più complessi, di cui i ricercatori cercano di capire la dinamica. Gli azzardi rappresentano il fatto che le conseguenze delle scelte non sono mai certe. Anche i risultati apparentemente sicuri sono incerti: quando si firma un rogito per acquistare un appartamento, non si sa a quale prezzo si potrà eventualmente venderlo in seguito, né se il figlio del nostro vicino comincerà presto a studiare la tuba. Tutte le scelte significative che facciamo nella vita recano con sé un elemento di incertezza, ed è per questo che gli studiosi del processo decisionale sperano che alcune delle lezioni apprese nella situazione modello siano applicabili a problemi quotidiani più interessanti. Ma naturalmente il principale motivo per cui quei teorici del processo decisionale studiano gli azzardi semplici è che lo fanno gli altri teorici del processo decisionale.
Esisteva, nel settore, una teoria, la «teoria dell’utilità attesa», che era alla base del modello dell’agente razionale e che è ancora oggi la più importante teoria delle scienze sociali. La teoria dell’utilità attesa non si proponeva quale modello psicologico, bensì come una logica della scelta basata su elementari regole (assiomi) di razionalità. Consideriamo questo esempio:
Se preferiamo una mela a una banana, allora preferiremo anche un 10 per cento di probabilità di vincere una mela a un 10 per cento di probabilità di vincere una banana.
La mela e la banana rappresentano qualsiasi oggetto di scelta (comprese le opzioni di rischio), e il 10 per cento di probabilità rappresenta qualsiasi probabilità. Il matematico John von Neumann, uno dei giganti intellettuali del XX secolo, e l’economista Oskar Morgenstern avevano ricavato la loro teoria della scelta razionale tra opzioni di rischio da una manciata di assiomi. Gli economisti adottarono la teoria dell’utilità attesa facendole assolvere un duplice ruolo: quello di logica che prescrive come si debbano prendere le decisioni, e quello di descrizione di come gli Econ compiano le loro scelte. Amos e io, però, eravamo psicologi e ci proponemmo di capire come gli Umani operassero in concreto le loro scelte rischiose, senza fare alcuna assunzione in merito alla loro razionalità.
Mantenemmo la nostra abitudine di passare molte ore al giorno facendo conversazione, a volte in ufficio, altre al ristorante, spesso durante lunghe passeggiate per le quiete strade della bella Gerusalemme. Come avevamo fatto all’epoca in cui studiavamo il giudizio, ci impegnammo in un’attenta analisi delle nostre preferenze intuitive. Ci dedicammo a inventare semplici problemi decisionali e a chiederci in che modo avremmo scelto. Per esempio:
Che cosa preferite?
A. Lanciare una moneta: se viene testa vincete 100 dollari, se viene croce non vincete niente.
B. Ricevere sicuramente 46 dollari.
Non stavamo cercando di capire la scelta più razionale e vantaggiosa: volevamo solo scoprire qual era la scelta intuitiva, quella che appariva istantaneamente allettante. Scegliemmo quasi sempre la stessa opzione. In questo esempio, entrambi avremmo scelto la cosa sicura e anche tu probabilmente faresti lo stesso. Quando convenivamo senza ombra di dubbio su una scelta, ritenevamo (e il giudizio si rivelò quasi sempre corretto) che la maggior parte della gente avrebbe condiviso la nostra preferenza e procedevamo a controllare se disponessimo di prove concrete. Naturalmente sapevamo che avremmo dovuto verificare, in seguito, le nostre intuizioni, ma svolgendo il ruolo sia degli sperimentatori sia delle «cavie» riuscimmo a procedere in fretta.
Cinque anni dopo avere cominciato i nostri studi sulle opzioni di rischio, finalmente portammo a termine un articolo che intitolammo Prospect Theory: An Analysis of Decision under Risk. La nostra teoria era rigorosamente modellata sulla falsariga della teoria dell’utilità attesa, ma il nostro modello era puramente descrittivo e il suo scopo era di documentare e spiegare le sistematiche violazioni degli assiomi della razionalità nella scelta tra opzioni di rischio. Sottoponemmo il nostro saggio a «Econometrica», una rivista che pubblica importanti articoli teorici di economia e teoria delle decisioni. La scelta della testata risultò importante: se avessimo pubblicato lo stesso articolo su una rivista di psicologia, avrebbe avuto con tutta probabilità ben poca influenza in campo economico. Tuttavia la nostra decisione non fu ispirata dal desiderio di influenzare gli economisti: semplicemente, «Econometrica» era la rivista che aveva pubblicato in passato i saggi più autorevoli sul processo decisionale, e noi aspiravamo a essere inclusi in quel novero. In quella e in molte altre scelte, fummo fortunati. La prospect theory si rivelò il lavoro più importante che avessimo mai fatto, e il nostro articolo diventò uno dei più citati nell’ambito delle scienze sociali. Due anni dopo, pubblicammo su «Science» un resoconto degli effetti framing, in cui si esaminavano gli ampi cambiamenti di preferenze causati a volte da variazioni anche minime nella formulazione di un problema di scelta.
Nei primi cinque anni che passammo a studiare il processo decisionale delle persone, appurammo una dozzina di cose riguardo alle scelte tra opzioni di rischio. Parecchi di quei dati sono in netta contraddizione con la teoria dell’utilità attesa. Alcuni erano già stati osservati in precedenza, mentre altri erano nuovi. Poi elaborammo una teoria che modificava la teoria dell’utilità attesa quel tanto da spiegare la nostra serie di osservazioni. Si trattava della prospect theory.
Affrontammo il problema nello spirito della «psicofisica», un settore della psicologia fondato e così denominato dallo psicologo e mistico tedesco Gustav Fechner (1801-1887). Fechner era ossessionato dalla relazione tra mente e materia. Da un lato, egli diceva, vi è una quantità fisica variabile, come l’intensità di una luce, la frequenza di un suono, la quantità di una somma di denaro; dall’altro vi è un’esperienza soggettiva di luminosità, tonalità e valore. Misteriosamente, le variazioni della quantità fisica provocano variazioni dell’intensità o qualità dell’esperienza soggettiva. Fechner si proponeva di scoprire le leggi psicofisiche che collegano la quantità soggettiva nella mente dell’osservatore con la quantità oggettiva nel mondo materiale. Ipotizzò che per molte dimensioni la funzione fosse logaritmica, ovvero che in pratica l’aumento di un dato fattore (poniamo di 1,5 o 10 volte) dell’intensità dello stimolo desse sempre lo stesso incremento sulla scala psicologica. Se aumentare la potenza del suono da 10 a 100 unità di energia fisica aumenta l’intensità psicologica di 4 unità, un ulteriore incremento dell’intensità dello stimolo da 100 a 1000 aumenterà l’intensità psicologica di altre 4 unità.

L’errore di Bernoulli

Come Fechner sapeva bene, non era stato lui il primo a cercare una funzione che collegasse l’intensità psicologica con la grandezza fisica dello stimolo. Nel 1738, lo scienziato svizzero Daniel Bernoulli aveva anticipato il suo ragionamento applicandolo alla relazione tra il valore psicologico o la desiderabilità del denaro (oggi chiamata «utilità») e la quantità concreta di denaro. Egli sosteneva che un dono di 10 ducati avesse per una persona già in possesso di 100 ducati la stessa utilità di un dono di 20 ducati per una persona la cui ricchezza corrente consistesse in 200 ducati. Bernoulli aveva ragione, naturalmente: noi di norma parliamo delle variazioni di reddito in termini di percentuali, come quando diciamo «ha avuto un aumento del 30 per cento». L’idea è che un aumento del 30 per cento induca una reazione psicologica abbastanza simile nei ricchi e nei poveri, cosa che un aumento di 100 dollari non farebbe.2 Come nella legge di Fechner, la reazione psicologica alla variazione di ricchezza è inversamente proporzionale alla quantità iniziale di ricchezza, e porta alla conclusione che l’utilità è una funzione logaritmica della ricchezza. Se tale funzione è esatta, la stessa distanza psicologica separa 100.000 dollari da un milione di dollari, e 10 milioni di dollari da 100 milioni di dollari.3
Bernoulli attinse alla sua intuizione psicologica sull’utilità della ricchezza per proporre un metodo radicalmente nuovo di valutare gli azzardi, un argomento importante per i matematici della sua epoca. Prima di lui, i matematici avevano assunto che le opzioni di rischio fossero valutate in base al valore atteso, una media ponderata dei possibili risultati dove ciascun risultato è ponderato in base alla sua probabilità. Per esempio, il valore atteso di:
L’80 per cento di probabilità di vincere 100 dollari e il 20 per cento di vincerne 10
è 82 dollari (0,8 × 100 + 0,2 × 10)
Ora prova a chiederti che cosa preferiresti ricevere in dono, questa opzione di rischio o 80 dollari sicuri? Quasi tutti preferiscono la cosa sicura. Se le persone valutassero le prospettive incerte in base al loro valore atteso, sceglierebbero di scommettere, perché 82 dollari sono più di 80. Bernoulli sottolineò che la gente in realtà non valuta le opzioni di rischio in questo modo.
Egli osservò che le persone in genere detestano il rischio (la probabilità di ricevere il risultato più basso possibile), e se viene loro offerta la scelta tra una scommessa e una somma uguale al suo valore atteso, scelgono la cosa sicura. Anzi, un decisore avverso al rischio sceglierà una cosa sicura che è inferiore al valore atteso, pagando di fatto un premio per evitare l’incertezza. Un secolo prima di Fechner, Bernoulli inventò la psicofisica per spiegare questa avversione al rischio. La sua idea era semplice: le scelte della gente non si basano su valori in dollari, ma sui valori psicologici dei risultati, le loro utilità. Il valore psicologico di un azzardo non è quindi la media ponderata dei suoi possibili risultati in dollari, ma è la media delle utilità di questi risultati, ciascuna ponderata in base alla sua probabilità.
La tabella 25.1 mostra una versione della funzione di utilità calcolata da Bernoulli, e presenta l’utilità di diversi livelli di ricchezza, da uno a dieci milioni.
Tabella 25.1.
Ricchezza (milioni) 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10
Unità di utilità 10 30 48 60 70 78 84 90 96 100
Come si vede, aggiungere un milione a una ricchezza di un milione dà un incremento di venti punti di utilità, mentre aggiungere un milione a una ricchezza di nove milioni aggiunge solo quattro punti. Bernoulli ipotizzò che il valore marginale decrescente della ricchezza (nel gergo moderno) spiegasse l’avversione al rischio, la comune preferenza che la gente di solito mostra per le cose sicure rispetto alle opzioni di rischio favorevoli di valore atteso uguale o leggermente superiore. Consideriamo questa opzione:
Uguale probabilità di avere 1 o 7 milioni Utilità: (10 + 84) : 2 = 47
oppure
Avere sicuramente 4 milioni Utilità: 60
Il valore atteso dell’azzardo e la «cosa sicura» sono uguali sotto il profilo del denaro (4 milioni), ma le utilità psicologiche delle due opzioni sono diverse, a causa dell’utilità decrescente della ricchezza: l’incremento di utilità da 1 a 4 milioni è 50 u...

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