La ragazza di Bube
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La ragazza di Bube

Carlo Cassola

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La ragazza di Bube

Carlo Cassola

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Mara è una giovane di Monteguidi, piccolo paese della Val d'Elsa, che all'indomani della Liberazione conosce il partigiano Bube, eroe della Resistenza, e se ne innamora. Questi, tornato alla vita civile imbottito di precetti di violenza e vendetta, ha commesso un delitto e, dopo un periodo alla macchia, viene catturato e condannato a quattordici anni di carcere. Mara, maturata proprio grazie alla forza del sentimento per Bube e divenuta ormai donna, decide di aspettare l'amato con animo fedele e ostinato.
Con questo romanzo - pubblicato nel 1960 e seguito nel 1963 da una celebre versione cinematografica interpretata da Claudia Cardinale - Cassola si aggiudica il premio Strega e raggiunge il successo anche internazionale. La ragazza di Bube segna una profonda cesura nella narrativa italiana del dopoguerra: benché ispirato a una vicenda realmente accaduta, il romanzo si arricchisce di elementi psicologici e lirici superando le istanze neorealiste, tanto per il linguaggio quanto per il rifiuto dei dogmatismi ideologici. «Il romanzo» sostiene infatti Cassola «viene prima di ogni interpretazione della realtà, è la ricerca continua della verità degli uomini.»

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Information

Publisher
Mondadori
Year
2013
ISBN
9788852035852

PARTE TERZA

I

Mara era tornata a casa volentieri. La madre, cosa insolita, era stata piena di premure con lei: «Sarai stanca, Marina» le aveva detto subito dopo averla abbracciata e baciata; «ora ti scaldo una tazza di brodo». Lei era andata in camera sua e poi, senza un motivo preciso, era salita in camera dei genitori; dopo essere stata in casa di Bube, e dopo aver passato due giorni in quel capanno, casa sua le appariva spaziosa e piena di comodità. Poi la madre l’aveva chiamata a bere il brodo; e poi era venuto di corsa Vinicio a dirle che la gatta aveva fatto quattro gattini.
Andarono insieme a vederli. La gatta era stata sistemata in una cesta, e Mara a fatica riuscì a distinguere le quattro bestiole che si arrampicavano sul dorso della madre, la quale se ne stava buona e quieta. «Sai? Uno è grigio e gli altri tre sono neri.» «Sì? Allora noi terremo quello grigio» disse Mara. Accarezzava i loro corpicini con tenerezza. Improvvisamente Vinicio era scoppiato a piangere: «Non voglio che li ammazzino! Non voglio che li ammazzino!» gridava. «Smetti, sciocco, chi vuoi che li ammazzi?» «Babbo li vuol buttare nel pozzo nero!» Mara allora lo aveva consolato dicendo che si sarebbero informati se qualche famiglia aveva bisogno di un gatto; uno, certamente, lo avrebbe voluto la zia… Poi gli aveva dato un bacio e lo aveva condotto fuori.
Il padre aveva lasciato detto che non sarebbe tornato; e anche questo, chissà perché, fece piacere a Mara. Mentre cenavano, la madre le domandò se in casa di Bube era stata accolta bene. «Oh, sì, certo» rispose Mara. «Ma non dovevi starci una settimana?» insisté la madre. «Oh, ma avevo detto così per dire» si affrettò a rispondere Mara. «Che vuoi che ci facessi a Volterra.» E, per sviare il discorso: «Ti piacciono le mie scarpe? Me le ha regalate Bube».
«Le avete comprate a Volterra?»
«No, a Colle.»
«Sono belle davvero. Ma devi tenerne di conto, altrimenti ti si sciupano subito. Le devi serbare per quando vai a Colle.» E, come se si accorgesse per la prima volta che la sua figliola era ormai una ragazza: «Ma se vuoi far figura, devi stare pettinata».
«È che i miei capelli non vogliono saperne di stare a posto. Sembrano stecchi» e rise, imbarazzata.
«Storie. È perché non li curi. Li devi lavare spesso e spazzolare forte… Anch’io li avevo come te, ma io ero ambiziosa, non sarei mai andata in giro coi capelli in quelle condizioni.»
«Ma tu li avevi morbidi, mamma, si vede anche da quella fotografia con babbo…»
«È che ne avevo cura» ripeté la madre.
Poi Mara rigovernò, e la madre via via le asciugava. Continuarono a parlare. Si vedeva che la madre era contenta che lei fosse tornata.
Così Mara si sentiva quasi felice, mentre a letto aspettava di addormentarsi. “Dove sarà Bube?” si chiese, ma si affrettò a scacciare quel pensiero. Era stanca, e allungava qua e là le gambe, gustando la morbidezza del materasso.
Dormiva sempre quando la madre le entrò in camera e spalancò la finestra: «Alzati, Mara, c’è da andare alla villa a ritirare il bucato». E Mara si alzò, con la malinconica consapevolezza che per lei ricominciava la solita vita.
La villa era a un chilometro dal paese, su un cocuzzolo di fianco alla strada provinciale: ci si accedeva per un viale di cipressi che saliva ripido a zigzag. Mentre tornava via con la cesta di panni in capo, la fermò il fattore, per chiederle se il padre era in paese; ma era una scusa per attaccar discorso e rivolgerle dei complimenti. In passato, non le sarebbero dispiaciuti; ora la irritarono, troncò il discorso a mezzo e continuò la strada.
La madre era già al lavatoio: insaponarono le lenzuola, e le pressarono dentro la conca. Poi la madre tornò a casa, non senza averle raccomandato di sorvegliare il bucato. «Ma sì, lo so da me» rispose Mara con rabbia. Al diavolo il bucato! Cosa gliene importava delle lenzuola della contessa?
Nel pomeriggio girellò per il paese; vide Liliana, la chiamò. Liliana stava sulle sue, e non mancò di scoccarle qualche frecciata maligna. Mara non reagì, era semplicemente sconfortata. Pensare che il giorno prima era insieme al suo amore; e ora era sola, o le toccava subire la compagnia di persone che le erano indifferenti, peggio, le erano odiose… “Sarà questione di pochi mesi” le aveva detto Bube. Pochi mesi? Ma se lei non ce la faceva ad arrivare in fondo alla giornata! Erano le quattro del pomeriggio, e Mara avrebbe sbattuto la testa nel muro, per la disperazione di non saper che fare.
Tornò in casa, si mise ad aggiustare la bretellina del reggipetto; ma lasciò a mezzo il lavoro. Non aveva scopo quello che stava facendo. Uscì di nuovo, rientrò in casa; il tempo non le passava mai.
Arrivò il padre in bicicletta. Si abbracciarono; poi il padre, con una scusa, si appartò con lei: voleva sapere di Bube. Mara gli raccontò brevemente quello che era accaduto: non disse, però, che erano rimasti soli durante la notte.
«Ma dove l’hanno portato?» chiese il padre.
«All’estero; Bube almeno mi ha detto così, che l’avrebbero fatto espatriare.»
«Ho capito» rispose il padre. Ci pensò un poco e poi disse: «Sicuramente lo mandano in Russia».
«In Russia?» fece Mara sgomenta.
«In Russia, sì; e là stai tranquilla che è al sicuro. Eh, al Partito lo sanno come fare.» Era soddisfatto che Bube fosse sfuggito alle grinfie dei carabinieri: «Gliel’abbiamo fatta sotto il naso» disse, come se fosse anche merito suo.
Dopo cena capitarono la madre di Liliana e una parente di Mauro. E lì, vennero fuori i soliti discorsi tra donne, sulla tale, che il marito la picchiava, sulla tal’altra, che doveva farsi un’operazione, e su quell’altra ancora, che da tre mesi non aveva più lasciato il letto. A un certo punto la zia si rivolse a lei: «Beata te, Mara, che sei giovane e non hai pensieri. Eh, io glielo dico sempre alla mia Liliana: goditela la gioventù, perché quando avrai marito ti cominceranno i pensieri e non avrai più un giorno di pace». A Mara questa saggezza spicciola delle persone anziane era sempre parsa insulsa e manierata: ora poi le faceva rabbia addirittura. Ma come? I pensieri cominciavano solo quando una prendeva marito? Ma lei i pensieri ce li aveva ora; e magari si fosse potuta sposare con Bube! Le sarebbero importate assai le preoccupazioni della vita, cos’erano mai di fronte a quell’unico bene, di stare insieme alla persona amata?
Si affrettò a finir di rigovernare e se ne andò a letto. Ma anche in camera le arrivava il fastidioso chiacchiericcio di quelle streghe. “Bube, Bube mio.” Oh, con che furore di desiderio ripensava ai suoi abbracci, ai suoi baci!
Si rovesciò bocconi, affondando la faccia nel guanciale. Non ricordava il momento in cui era stata completamente sua: tutto era accaduto così rapidamente, e Mara, lì per lì, nemmeno se n’era accorta. No, erano gli abbracci, le strette forsennate, che ricordava; e i baci. I baci, soprattutto, quei baci lunghi, appassionati, in cui le sembrava che egli le suggesse l’anima. Quei baci che la lasciavano senza forza e senza fiato, spossata e soddisfatta…
Le donne se n’erano andate; dalla fessura della porta non passava più la luce; tutto era silenzio, in casa e fuori. Ma lei rimase a lungo sveglia, supina e immobile, fissa nel pensiero doloroso del suo amore perduto.
Diventò insensibile: quando il padre, di lì a due giorni, si sbarazzò dei gattini buttandoli nel pozzo nero, non solo non provò dispiacere, ma quasi ne fu contenta. A Vinicio avevano detto che i gattini erano stati dati a una famiglia di Colle; ma lei, siccome il ragazzo la importunava con le domande, gli rivelò brutalmente la verità: «Stupido, credevi davvero che babbo li avesse portati a Colle? Li ha buttati nel pozzo nero, invece». Il ragazzo ebbe una crisi di disperazione; e lei lo lasciò disteso sull’impiantito di cucina, che urlava come un forsennato.
La domenica uscì con Annita. Come di consueto, andarono a spasso sull’unica strada del paese. Mara sfoggiava le sue scarpe coi tacchi alti, ma questo non le dava nessun piacere. Aveva occhi solo per le coppie: cosa c’era di più bello che andare a spasso tenendosi abbracciati?
Lo disse ad Annita, ma l’amica rispose che era un’usanza proprio stupida, quella di andare in su e in giù per la strada del paese; lei, se avesse avuto un fidanzato, si sarebbe rifugiata in qualche posto solitario. «Ma poi a me non mi piacerebbe stare fidanzata tanto tempo. Guarda quei due: ero piccina, e li vedevo andare insieme a braccetto. Saranno dieci anni che sono fidanzati. Che aspettano a sposarsi, dico io?» e si mise a ridere sguaiatamente. Poi enunciò le sue idee intorno al marito: «Io sono di bocca buona, cosa credi? Per me, il marito, basta che sia maschio, poi non starei a guardare tanto per il sottile. Come dice il proverbio? Magari zoppo, magari gobbo…». Mara la guardò con disprezzo.
In compenso, Annita aveva una bella voce. Non soltanto era intonata, ma ci metteva l’anima; sembrava un’altra, quando cantava.
Avevano oltrepassato le ultime case, e si erano fermate sull’argine di un campo. Annita si mise a cantare.
Sola me ne vo per la città;
passo tra la folla che non sa;
dove sei perduto amore…
Mara ascoltava, rapita e angosciata. Di colpo la canzone aveva risvegliato la sua pena d’amore. Come la triste melodia rispecchiava il suo stato d’animo! Come le parole raffiguravano la sua situazione! Passo tra la folla che non sa… Nessuno, nessuno sapeva la sua pena d’amore! Dove sei perduto amore… Le veniva da piangere… il suo amore era lontano, forse perduto; e lei era sola, abbandonata, e il dolore la sopraffaceva, diveniva intollerabile.
Volle che Annita gliela cantasse un’altra volta.
«Come mai ti piace tanto?» le chiese Annita...

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