Mara era tornata a casa volentieri. La madre, cosa insolita, era stata piena di premure con lei: «Sarai stanca, Marina» le aveva detto subito dopo averla abbracciata e baciata; «ora ti scaldo una tazza di brodo». Lei era andata in camera sua e poi, senza un motivo preciso, era salita in camera dei genitori; dopo essere stata in casa di Bube, e dopo aver passato due giorni in quel capanno, casa sua le appariva spaziosa e piena di comoditĂ . Poi la madre lâaveva chiamata a bere il brodo; e poi era venuto di corsa Vinicio a dirle che la gatta aveva fatto quattro gattini.
Andarono insieme a vederli. La gatta era stata sistemata in una cesta, e Mara a fatica riuscÏ a distinguere le quattro bestiole che si arrampicavano sul dorso della madre, la quale se ne stava buona e quieta. «Sai? Uno Ú grigio e gli altri tre sono neri.» «SÏ? Allora noi terremo quello grigio» disse Mara. Accarezzava i loro corpicini con tenerezza. Improvvisamente Vinicio era scoppiato a piangere: «Non voglio che li ammazzino! Non voglio che li ammazzino!» gridava. «Smetti, sciocco, chi vuoi che li ammazzi?» «Babbo li vuol buttare nel pozzo nero!» Mara allora lo aveva consolato dicendo che si sarebbero informati se qualche famiglia aveva bisogno di un gatto; uno, certamente, lo avrebbe voluto la zia⊠Poi gli aveva dato un bacio e lo aveva condotto fuori.
Il padre aveva lasciato detto che non sarebbe tornato; e anche questo, chissĂ perchĂ©, fece piacere a Mara. Mentre cenavano, la madre le domandĂČ se in casa di Bube era stata accolta bene. «Oh, sĂŹ, certo» rispose Mara. «Ma non dovevi starci una settimana?» insistĂ© la madre. «Oh, ma avevo detto cosĂŹ per dire» si affrettĂČ a rispondere Mara. «Che vuoi che ci facessi a Volterra.» E, per sviare il discorso: «Ti piacciono le mie scarpe? Me le ha regalate Bube».
«Le avete comprate a Volterra?»
«No, a Colle.»
«Sono belle davvero. Ma devi tenerne di conto, altrimenti ti si sciupano subito. Le devi serbare per quando vai a Colle.» E, come se si accorgesse per la prima volta che la sua figliola era ormai una ragazza: «Ma se vuoi far figura, devi stare pettinata».
«à che i miei capelli non vogliono saperne di stare a posto. Sembrano stecchi» e rise, imbarazzata.
«Storie. Ă perchĂ© non li curi. Li devi lavare spesso e spazzolare forte⊠Anchâio li avevo come te, ma io ero ambiziosa, non sarei mai andata in giro coi capelli in quelle condizioni.»
«Ma tu li avevi morbidi, mamma, si vede anche da quella fotografia con babboâŠÂ»
«à che ne avevo cura» ripeté la madre.
Poi Mara rigovernĂČ, e la madre via via le asciugava. Continuarono a parlare. Si vedeva che la madre era contenta che lei fosse tornata.
CosĂŹ Mara si sentiva quasi felice, mentre a letto aspettava di addormentarsi. âDove sarĂ Bube?â si chiese, ma si affrettĂČ a scacciare quel pensiero. Era stanca, e allungava qua e lĂ le gambe, gustando la morbidezza del materasso.
Dormiva sempre quando la madre le entrĂČ in camera e spalancĂČ la finestra: «Alzati, Mara, câĂš da andare alla villa a ritirare il bucato». E Mara si alzĂČ, con la malinconica consapevolezza che per lei ricominciava la solita vita.
La villa era a un chilometro dal paese, su un cocuzzolo di fianco alla strada provinciale: ci si accedeva per un viale di cipressi che saliva ripido a zigzag. Mentre tornava via con la cesta di panni in capo, la fermĂČ il fattore, per chiederle se il padre era in paese; ma era una scusa per attaccar discorso e rivolgerle dei complimenti. In passato, non le sarebbero dispiaciuti; ora la irritarono, troncĂČ il discorso a mezzo e continuĂČ la strada.
La madre era giĂ al lavatoio: insaponarono le lenzuola, e le pressarono dentro la conca. Poi la madre tornĂČ a casa, non senza averle raccomandato di sorvegliare il bucato. «Ma sĂŹ, lo so da me» rispose Mara con rabbia. Al diavolo il bucato! Cosa gliene importava delle lenzuola della contessa?
Nel pomeriggio girellĂČ per il paese; vide Liliana, la chiamĂČ. Liliana stava sulle sue, e non mancĂČ di scoccarle qualche frecciata maligna. Mara non reagĂŹ, era semplicemente sconfortata. Pensare che il giorno prima era insieme al suo amore; e ora era sola, o le toccava subire la compagnia di persone che le erano indifferenti, peggio, le erano odiose⊠âSarĂ questione di pochi mesiâ le aveva detto Bube. Pochi mesi? Ma se lei non ce la faceva ad arrivare in fondo alla giornata! Erano le quattro del pomeriggio, e Mara avrebbe sbattuto la testa nel muro, per la disperazione di non saper che fare.
TornĂČ in casa, si mise ad aggiustare la bretellina del reggipetto; ma lasciĂČ a mezzo il lavoro. Non aveva scopo quello che stava facendo. UscĂŹ di nuovo, rientrĂČ in casa; il tempo non le passava mai.
ArrivĂČ il padre in bicicletta. Si abbracciarono; poi il padre, con una scusa, si appartĂČ con lei: voleva sapere di Bube. Mara gli raccontĂČ brevemente quello che era accaduto: non disse, perĂČ, che erano rimasti soli durante la notte.
«Ma dove lâhanno portato?» chiese il padre.
«Allâestero; Bube almeno mi ha detto cosĂŹ, che lâavrebbero fatto espatriare.»
«Ho capito» rispose il padre. Ci pensĂČ un poco e poi disse: «Sicuramente lo mandano in Russia».
«In Russia?» fece Mara sgomenta.
«In Russia, sĂŹ; e lĂ stai tranquilla che Ăš al sicuro. Eh, al Partito lo sanno come fare.» Era soddisfatto che Bube fosse sfuggito alle grinfie dei carabinieri: «Glielâabbiamo fatta sotto il naso» disse, come se fosse anche merito suo.
Dopo cena capitarono la madre di Liliana e una parente di Mauro. E lĂŹ, vennero fuori i soliti discorsi tra donne, sulla tale, che il marito la picchiava, sulla talâaltra, che doveva farsi unâoperazione, e su quellâaltra ancora, che da tre mesi non aveva piĂč lasciato il letto. A un certo punto la zia si rivolse a lei: «Beata te, Mara, che sei giovane e non hai pensieri. Eh, io glielo dico sempre alla mia Liliana: goditela la gioventĂč, perchĂ© quando avrai marito ti cominceranno i pensieri e non avrai piĂč un giorno di pace». A Mara questa saggezza spicciola delle persone anziane era sempre parsa insulsa e manierata: ora poi le faceva rabbia addirittura. Ma come? I pensieri cominciavano solo quando una prendeva marito? Ma lei i pensieri ce li aveva ora; e magari si fosse potuta sposare con Bube! Le sarebbero importate assai le preoccupazioni della vita, cosâerano mai di fronte a quellâunico bene, di stare insieme alla persona amata?
Si affrettĂČ a finir di rigovernare e se ne andĂČ a letto. Ma anche in camera le arrivava il fastidioso chiacchiericcio di quelle streghe. âBube, Bube mio.â Oh, con che furore di desiderio ripensava ai suoi abbracci, ai suoi baci!
Si rovesciĂČ bocconi, affondando la faccia nel guanciale. Non ricordava il momento in cui era stata completamente sua: tutto era accaduto cosĂŹ rapidamente, e Mara, lĂŹ per lĂŹ, nemmeno se nâera accorta. No, erano gli abbracci, le strette forsennate, che ricordava; e i baci. I baci, soprattutto, quei baci lunghi, appassionati, in cui le sembrava che egli le suggesse lâanima. Quei baci che la lasciavano senza forza e senza fiato, spossata e soddisfattaâŠ
Le donne se nâerano andate; dalla fessura della porta non passava piĂč la luce; tutto era silenzio, in casa e fuori. Ma lei rimase a lungo sveglia, supina e immobile, fissa nel pensiero doloroso del suo amore perduto.
DiventĂČ insensibile: quando il padre, di lĂŹ a due giorni, si sbarazzĂČ dei gattini buttandoli nel pozzo nero, non solo non provĂČ dispiacere, ma quasi ne fu contenta. A Vinicio avevano detto che i gattini erano stati dati a una famiglia di Colle; ma lei, siccome il ragazzo la importunava con le domande, gli rivelĂČ brutalmente la veritĂ : «Stupido, credevi davvero che babbo li avesse portati a Colle? Li ha buttati nel pozzo nero, invece». Il ragazzo ebbe una crisi di disperazione; e lei lo lasciĂČ disteso sullâimpiantito di cucina, che urlava come un forsennato.
La domenica uscĂŹ con Annita. Come di consueto, andarono a spasso sullâunica strada del paese. Mara sfoggiava le sue scarpe coi tacchi alti, ma questo non le dava nessun piacere. Aveva occhi solo per le coppie: cosa câera di piĂč bello che andare a spasso tenendosi abbracciati?
Lo disse ad Annita, ma lâamica rispose che era unâusanza proprio stupida, quella di andare in su e in giĂč per la strada del paese; lei, se avesse avuto un fidanzato, si sarebbe rifugiata in qualche posto solitario. «Ma poi a me non mi piacerebbe stare fidanzata tanto tempo. Guarda quei due: ero piccina, e li vedevo andare insieme a braccetto. Saranno dieci anni che sono fidanzati. Che aspettano a sposarsi, dico io?» e si mise a ridere sguaiatamente. Poi enunciĂČ le sue idee intorno al marito: «Io sono di bocca buona, cosa credi? Per me, il marito, basta che sia maschio, poi non starei a guardare tanto per il sottile. Come dice il proverbio? Magari zoppo, magari gobboâŠÂ». Mara la guardĂČ con disprezzo.
In compenso, Annita aveva una bella voce. Non soltanto era intonata, ma ci metteva lâanima; sembrava unâaltra, quando cantava.
Avevano oltrepassato le ultime case, e si erano fermate sullâargine di un campo. Annita si mise a cantare.
Sola me ne vo per la cittĂ ;
passo tra la folla che non sa;
dove sei perduto amoreâŠ
Mara ascoltava, rapita e angosciata. Di colpo la canzone aveva risvegliato la sua pena dâamore. Come la triste melodia rispecchiava il suo stato dâanimo! Come le parole raffiguravano la sua situazione! Passo tra la folla che non sa⊠Nessuno, nessuno sapeva la sua pena dâamore! Dove sei perduto amore⊠Le veniva da piangere⊠il suo amore era lontano, forse perduto; e lei era sola, abbandonata, e il dolore la sopraffaceva, diveniva intollerabile.
Volle che Annita gliela cantasse unâaltra volta.
«Come mai ti piace tanto?» le chiese Annita...