Sara al tramonto (Nero Rizzoli)
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Sara al tramonto (Nero Rizzoli)

Maurizio de Giovanni

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  1. 350 pages
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Sara al tramonto (Nero Rizzoli)

Maurizio de Giovanni

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NERO RIZZOLI È LA BUSSOLA DEL NOIR FIRMATA RIZZOLI. Sara non vuole esistere. Il suo dono è l'invisibilità, il talento di rubare i segreti delle persone. Capelli grigi, di una bellezza trattenuta solo dall'anonimato in cui si è chiusa, per amore ha lasciato tutto seguendo l'unico uomo capace di farla sentire viva. Ma non si è mai pentita di nulla e rivendica ogni scelta.Poliziotta in pensione, ha lavorato in un'unità legata ai Servizi, impegnata in intercettazioni non autorizzate. Il tempo le è scivolato tra le dita mentre ascoltava le storie degli altri. E adesso che Viola, la compagna del figlio morto, la sta per rendere nonna, il destino le presenta un nuovo caso.
Anche se è fuori dal giro, una vecchia collega che ben conosce la sua abilità nel leggere le labbra - fin quasi i pensieri - della gente, la spinge a indagare su un omicidio già risolto. Così Sara, che non si fida mai delle verità più ovvie, torna in azione, in compagnia di Davide Pardo, uno sbirro stropicciato che si ritrova accanto per caso, e con il contributo inatteso di Viola, e del suo occhio da fotografa a cui non sfugge nulla. Maurizio de Giovanni ha dato vita a un personaggio che rimarrà tra i più memorabili del noir italiano. Sara, la donna invisibile che, dal suo archivio nascosto in una Napoli periferica e lunare, ci trascina nel luogo in cui tutti vorremmo essere: in fondo al nostro cuore, anche quando è nero.Le indagini di Sara sono:
Sara al tramonto
Le parole di Sara
Una lettera per Sara
Gli occhi di Sara

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Information

Publisher
RIZZOLI
Year
2018
ISBN
9788858692950

XLVI

Camminarono in silenzio per un lungo tratto.
A un certo punto Davide tentò di parlare, ma Sara, brusca, lo zittì; lui si guardò attorno smarrito, ragionando sul perché avessero parcheggiato così distante dallo studio medico.
Quando furono vicino all’automobile, la donna disse:
«Il dottor Peluso è una specie di consulente dell’unità nella quale operavo. Ne ha viste di tutti i colori, mi serviva per comprendere cosa fosse successo al vecchio Molfino. Ora abbiamo le idee più chiare».
Pardo rispose a muso duro:
«Ah sì? Allora forse avrai la bontà di spiegarlo anche a me, quali sono queste idee. Perché evidentemente mi è sfuggito qualcosa».
Viola si grattò la testa:
«In effetti anch’io, Sara, non credo di avere un quadro completo della situazione. Che facciamo, adesso?».
Sara la scrutò in volto, rilevando i chiari segni della stanchezza. Era una giornata calda e la ragazza si stava sottoponendo a sforzi gravosi che nelle sue condizioni avrebbe dovuto evitare. «Tu adesso te ne vai buona buona a casa a riposare. Anzi, ci fai il favore di controllare, attraverso le tue diavolerie, quello che succede nell’appartamento della Rimotti, che è sempre più la figura centrale della vicenda. Noi invece, se Davide ci riesce, cerchiamo di parlare con la segretaria dei Molfino.»
Capendo l’antifona, Pardo si allontanò di qualche passo per telefonare alla Astolfi. Dopo meno di un minuto tornò dalle donne, un po’ perplesso:
«In tutta sincerità credevo che avrebbe opposto resistenza o preso tempo; invece ha accettato subito. Possiamo incontrarla tra un’ora, ma non in ufficio: al caffè alle spalle del palazzo».
Sara annuì:
«Non mi sorprende. Credo che si aspettasse la telefonata. Diamoci una mossa, su. Prima però accompagniamo Viola».
Il bar dove la Astolfi aveva dato loro appuntamento era un riservato, civettuolo locale ai margini dell’elegante zona in cui era ubicato. Davanti al bancone di legno lucido, dal quale un’ampia selezione di paste invitava la clientela alla trasgressione alimentare, c’erano tre tavolini.
Sara e Davide occuparono quello più in disparte, perplessi perché in un ambiente così angusto sarebbe stato difficile avere una conversazione confidenziale.
Forse, pensò l’ispettore, con la scelta di questo caffè la segretaria vorrà solo dirci che non è autorizzata a parlare.
Dopo qualche minuto Concetta Astolfi fece il suo ingresso. Finse di non conoscerli e si infilò in una porta in fondo al locale. Passando davanti ai due mosse con un impercettibile cenno la messa in piega, indicando loro la via.
Sara e Davide si guardarono, poi la seguirono ignorati dal personale.
Si ritrovarono in una saletta occupata da un tavolino e da quattro sedie. Le pareti erano rivestite con pannelli insonorizzanti.
La Astolfi, senza salutarli, cominciò a parlare:
«Questo bar era di proprietà di Andrea Molfino, e questa stanza serviva per gli incontri con personaggi che non poteva ricevere in ufficio. È abbastanza vicino per consentire un rientro veloce al palazzo, ma anche abbastanza discreto da non essere sorvegliato».
Informazione interessante, rifletté Sara. Devo ricordarmi di dirlo alla bionda, ammesso che non ne sia già a conoscenza.
La donna continuò:
«Prima di tutto sappiate che ho accettato di incontrarvi non perché sono infedele né tantomeno una spia. Anzi, è proprio il contrario: sono venuta per fedeltà alla memoria di un uomo meraviglioso, che è stato circuito al termine della sua vita, quando è diventato debole». Tirò il fiato. Si era preparata il discorsetto e ora che l’aveva concluso si sentiva più smarrita di prima.
Sara si concentrò su di lei. Era una donna ordinaria, forse lo era sempre stata. Alcune caratteristiche, le labbra strette, le borse sotto gli occhi piccoli, la pelle bianchiccia denunciavano una bruttezza che la gioventù non poteva aver contenuto più di tanto. Per l’idea che si era fatta del vecchio Molfino, escludeva che tra i due, in passato, ci fosse stata una relazione: più probabile che un amore a senso unico si fosse trasformato in una specie di canina devozione. Non a caso aveva usato le parole “fedeltà” e “infedele”.
Davide disse:
«Abbiamo voluto incontrarla in via riservata, signora, perché non ci sono chiari alcuni aspetti relativi proprio al periodo cui si riferisce, e cioè agli ultimi mesi di vita del cavalier Molfino».
La segretaria rispose glaciale:
«Io non ci ho creduto nemmeno per un momento a quella balla dei servizi sociali. Figurarsi. Negli anni vi siete travestiti da operai della luce e dei telefoni, camerieri e autisti, e vi abbiamo sempre individuati. L’errore è ogni volta lo stesso: a un certo punto mettete i piedi dove il ruolo che interpretate non vi consentirebbe di metterli. È inevitabile. Solo che stavolta la finanza non c’entra, ed è questo il motivo per cui siamo qui».
Sara, come da tacito accordo, lasciava che fosse Davide a portare avanti la conversazione; e nel frattempo si dedicava a studiare le espressioni e le posizioni di mani e spalle della Astolfi. I dettagli le restituivano l’impressione che la donna vivesse un forte conflitto interiore risolto con difficoltà, un abituale condizionamento alla reticenza, superato con fatica, che si scontrava con una risoluta determinazione ad andare fino in fondo. Non avrebbe mai rivelato tutto, concluse; ma credeva ciecamente in quello che stava per dire.
Pardo protestò:
«Non ci interessa il vostro giro di affari. E per quanto io sia convinto che le grandi fortune create dal nulla nascondano sempre qualcosa di losco, non è questa la sede per discuterne».
Bravo Davide, pensò Sara. Meglio essere chiari, se si vuole che gli altri lo siano.
L’ispettore proseguì:
«Il cavaliere era malato, signora. Molto malato. Se lei sostiene, e non abbiamo ragione di non crederle, che l’ultimo checkup non aveva evidenziato nulla di sospetto, significa che la situazione è precipitata in pochissimo tempo. Ci chiediamo come sia possibile che nessuno se ne sia accorto, soprattutto chi doveva sincerarsi delle condizioni del cavaliere, come il dottor Rao o l’infermiera che…».
Concetta Astolfi lo interruppe, tagliente:
«La Rimotti, intende? L’infermiera Rosanna “Zoccola” Rimotti era una volgare squillo che fingeva di occuparsi della salute del cavaliere e invece badava a ben altro».
Davide replicò:
«Al di là delle sue opinioni personali, al momento nessuno è accusato di niente. Ma siamo persuasi che se non fosse stato ucciso, Molfino sarebbe comunque morto dopo poco. Questa certezza cambia molti aspetti della questione, come può immaginare. E vorremmo sapere in che modo e perché sia potuto accadere».
La donna intrecciò le dita attorno al ginocchio ossuto. Teneva le gambe accavallate e lo sguardo perso nel vuoto, alla sinistra dell’interlocutore. Sara notò un muscolo che guizzava sotto la mascella. Il conflitto non era ancora del tutto risolto. Ritenne di intervenire, con tono pacato:
«Non deve rivelare segreti o mettere a rischio il suo lavoro, Concetta. Noi stiamo provando a fare un po’ di giustizia, e a proteggere chi è innocente. Tutto qui».
L’uso del nome proprio, il tono confidenziale, la dichiarazione d’intenti e l’esclusione della finanza dagli obiettivi delle domande fecero breccia nell’ultima barriera della Astolfi. La donna annuì, si sedette più comoda e si rivolse a Sara. «Andrea Molfino era un uomo particolare. Geniale, umorale, complicato. Ma sempre sincero. Forse perché non sentiva il bisogno di mentire, o forse perché non ne era capace. Bastava a se stesso ed è sempre stato così, fino a quella sciocchezza del mal di schiena.»
Pardo alzò un sopracciglio, sorpreso:
«Il mal di schiena?».
«Sì, è stato quello l’origine di tutto. Credo che cominciasse ad accusare gli anni, stare l’intero giorno alla scrivania, al telefono… la tensione, chissà. Un dolore banale, come possiamo avere in tanti, ma poi arrivò quella dannata puttana, la fisioterapista. Avete presente com’è fatta?»
Davide e Sara annuirono.
«E vi sembra credibile come fisioterapista? Una con quel corpo? Insomma, ci ha messo poco a installarsi a casa e a diventare la padrona. Lui era… gli piacevano le donne, insomma. Ne ho viste passare parecchie, in questi trent’anni. Non avete idea di quanti mazzi di fiori del giorno dopo ho fatto recapitare.»
Ridacchiò al pensiero, e la cosa chissà perché produsse in Davide un brivido che gli fece rizzare i capelli sulla nuca. «Cioè, era diventata l’amante del cavaliere?»
Concetta si strinse nelle spalle:
«Chi lo sa. Ignoro il potere di questo tipo di donne, io sono diversa. Per me era troppo vecchio per una così, ma di sicuro a lui piaceva moltissimo averla attorno. Però a me non ha mai chiesto di mandarle un mazzo di rose».
Davide cercò di ritornare al dunque:
«Va bene, si teneva la bella fisioterapista per il mal di schiena, ma poi? Come può essere che nessuno si sia accorto della malattia?».
La Astolfi sbuffò:
«Se ti affidi alle cure di un’infermiera come quella, può succedere benissimo, ispettore. E d’altra parte quel fesso di Rao lo avete incontrato, no? Un cocainomane che dipende in tutto e per tutto dai soldi dei Molfino e di quelli come loro. Dice quello che gli dicono di dire, compila i certificati e prescrive le cure che gli chiedono. Non scherziamo».
Davide e Sara si guardarono, e lui continuò:
«Quindi la Rimotti era l’unica che si occupava della salute del cavaliere e si era piazzata in casa Molfino in pianta stabile. E il resto della famiglia non aveva niente da obiettare?».
La Astolfi assunse un’aria seria, poi si alzò in piedi. Fece qualche passo nervoso, e tornò a fissare Pardo:
«Il resto della famiglia… Ma Dalinda l’avete vista? È una donna sbagliata, dopo essere stata una bambina sbagliata e una ragazza sbagliata. Magari la galera le permetterà di sopravvivere, perché se fosse rimasta libera sarebbe senz’altro morta per overdose o ammazzata da chissà chi in qualche vicolo. Questione di tempo».
«E Gianpiero?»
Concetta tornò a sedersi:
«Ah sì. Il tenero, dolce Gianpiero, il mio nuovo datore di lavoro. Ha sempre obbedito agli ordini, lui; come voleva il papà. “Ligio e grigio” diceva Andrea. È cresciuto studiando, coi vestiti in ordine, e si è perf...

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