Le parole di Sara (Nero Rizzoli)
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Le parole di Sara (Nero Rizzoli)

Maurizio de Giovanni

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Le parole di Sara (Nero Rizzoli)

Maurizio de Giovanni

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NERO RIZZOLI È LA BUSSOLA DEL NOIR FIRMATA RIZZOLI. Due donne si parlano con gli occhi. Conoscono il linguaggio del corpo e per loro la verità è scritta sulle facce degli altri. Entrambe hanno imparato a non sottovalutare le conseguenze dell'amore. Sara Morozzi l'ha capito molto presto, Teresa Pandolfi troppo tardi.
Diverse come il giorno e la notte, sono cresciute insieme: colleghe, amiche, avversarie leali presso una delle più segrete unità dei Servizi. Per amore, Sara ha rinunciato a tutto, abbandonando un marito e un figlio che ha rivisto soltanto sul tavolo di un obitorio. Per non privarsi di nulla, Teresa ha rinunciato all'amore. Trent'anni dopo, Sara prova a uscire dalla solitudine in cui è sprofondata dalla scomparsa del suo compagno, mentre Teresa ha conquistato i vertici dell'unità. Ma questa volta ha commesso un errore: si è fatta ammaliare dagli occhi di Sergio, un giovane e fascinoso ricercatore. Così, quando il ragazzo sparisce senza lasciare traccia, non le resta che chiedere aiuto all'amica di un tempo. E Sara, la donna invisibile, torna sul campo. Insieme a lei ci sono il goffo ispettore Davide Pardo e Viola, ultima compagna del figlio, che da poco l'ha resa nonna, regalandole una nuova speranza.
Maurizio de Giovanni esplora le profondità del silenzio e celebra il coraggio della rinascita, perché niente è davvero perduto finché si riescono a pronunciare parole d'amore. Le indagini di Sara sono:
Sara al tramonto
Le parole di Sara
Una lettera per Sara
Gli occhi di Sara

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Information

Publisher
RIZZOLI
Year
2019
ISBN
9788858696460

Sara che aspetta

Rannicchiata nella macchina, ascoltando le folate improvvise di vento gelido che si infrangono sulle poche auto in transito lungo la strada, Sara aspetta.
È quello che le riesce meglio. È stato il suo lavoro per tanti anni, aspettare con pazienza, non lasciarsi sommergere dall’onda lunga della fretta, non anticipare gli eventi per non smarrire l’obiettività dell’analisi. Freddezza, imperturbabilità, distacco. Serenità.
No, stavolta quella non c’è, pensa Sara. Niente serenità.
Le foglie cadute dagli alberi che turbinano. Le finestre che si vanno spegnendo, una a una. Passanti ormai non ce ne sono più, da almeno un’ora. E Sara aspetta.
Se non sarà stanotte, sarà la prossima. O quella dopo. Qual è il problema? C’è solo da attendere.
Ha imparato che proprio a forza di attendere le cose succedono, prima o poi. Basta essere pronti.
Sara ha imparato anche come ingannare l’attesa. Da fuori sembra quasi addormentata, le palpebre socchiuse, i lineamenti distesi; le mani appoggiate lungo le cosce, coi guanti per evitare che le dita si intirizziscano, senza metterle in tasca per non ritardare i movimenti e allungare i tempi di reazione. Ogni muscolo immobile, nessuna contrazione sul volto impassibile. La visione periferica è più che sufficiente per controllare lo spazio che le interessa. L’aiuta la corporatura minuta. La sagoma avvolta dal sedile e riparata dal poggiatesta è invisibile dal lato posteriore. Il SUV posteggiato davanti le risparmia le sciabolate dei fari delle rare macchine che procedono in senso opposto.
Chi attende sparisce. Chi attende deve sparire.
Sara sa che la posizione del corpo è la premessa, ma per riempire il tempo va ordinata la mente. Come un salotto per ricevere gli ospiti. È indispensabile che non ci sia nulla di estraneo, nessuna distrazione: non bisogna pensare ad altro, pericolosissimo lasciare che la testa vaghi altrove; la frazione di secondo necessaria per tornare al qui e ora dell’attesa può risultare fatale. E non si può nemmeno pretendere di restare concentrati in continuazione su quello che si aspetta, sarebbe come fissare per ore il particolare di un oggetto perdendo i contorni dell’insieme.
Sara lo sa che bisogna ricostruire senza sosta il quadro generale, ripercorrere la sequenza degli eventi. Tirare ancora le linee che uniscono i punti, come quei disegni da bambini, una giraffa o un elefante, che piano piano prendono forma collegando una serie di numeretti sparsi sulla pagina.
E allora, per l’ennesima volta, Sara ricomincia dall’inizio.
Il telefono aveva squillato alle quattro del mattino.
Le capitava spesso nei momenti topici del suo servizio, quando la situazione precipitava all’improvviso e non c’era orario o turno che tenesse: chi aveva seguito una determinata pista doveva mettersi subito al lavoro, e basta. Allora come adesso la sensazione era orribile, con la coscienza che annaspava cercando di riguadagnare la superficie dall’abisso del sonno profondo, a cui sempre più di rado cedeva, nel petto il rombo di un tamburo, un attimo prima dell’emergere dei peggiori pensieri, finché, dopo, tutto si rivelava irrilevante e innocente.
In certi casi, però, i peggiori pensieri trovavano conferma.
Sara si era vestita in fretta, continuando a ripetere:
«No, no, è impossibile, non è lui».
Non aveva trovato le chiavi dell’auto, aveva chiamato un taxi, la voce e il cuore spezzati in mille aguzzi frammenti, ognuno dei quali rifletteva una diversa immagine del passato. «No, è un errore. Non può essere.»
Era lui, invece. Proprio lui.
Restò ferma a guardarlo sul tavolo. Era coperto a metà dal lenzuolo, grigio, i lividi e le fratture evidenti. Rotto. Spezzato in più punti. Restò ferma, ascoltando la tempesta di silenzio che le montava dentro, cercando di tenere a bada i ricordi remoti, il dolore del ventre, poi il pianto e il latte e la carne, il sangue dal naso e le ginocchia sbucciate, la fata dei dentini e «Cambiati il costumino ché quello è bagnato», e gli occhi pieni di lacrime quando se n’era andata.
Giorgio. Giorgetto, Giogiò. Giorgino, il mio Giorgino.
La mente per non esplodere le ripropose l’odio del figlio, il fiume incontenibile di durezza dell’adolescente che le urlava:
«Chi sei tu? Chi cazzo sei? Io non ho una madre». E lo rivide scappare via senza girarsi, l’ultima volta, tanti anni prima.
Mio figlio, pensò Sara. Ora che è troppo tardi.
A telefonarle era stato un collega anziano, confinato nel presidio di polizia dell’ospedale a consumare gli ultimi mesi prima della pensione. Uno che si ricordava di lei, ed erano rimasti in pochi. «Ciao, Morozzi… scusa l’ora, ma credo che tu debba venire qui. Adesso, sì. Si tratta di Alberti Giorgio… È tuo figlio, giusto? Allora devi proprio venire. Morozzi… mi dispiace. Tanto.»
Erano anni che Sara non si sentiva chiamare per cognome, da quando aveva firmato per il congedo. Alla fine, grazie all’anzianità e a un gioco di contributi, aveva chiuso con l’unità prima di quanto avrebbe dovuto. Da tempo non si trovava più bene, e non per stanchezza o pigrizia: perché quel lavoro era cambiato e non le assomigliava più. Troppe macchine. Troppa magistratura. Troppa elettronica, troppo DNA. E anche gli altri erano cambiati, parlavano in modo diverso, e Sara aveva cominciato a considerarsi superflua.
Eppure era stata l’indiscussa, leggendaria maestra delle intercettazioni. Come interpretava lei quei bisbigli, quei sussurri che a stento si percepivano, nessuno mai. Una sensibilità speciale, una capacità naturale affinata con l’esercizio e l’applicazione. Tutto vanificato dai nuovi strumenti di pulizia e amplificazione del suono: all’improvviso si era sentita “normale”. Ed essere guardata con sufficienza da ragazzine presuntuose che avevano vinto un concorso facendosi il culo sui libri non era per lei.
Poi Massimiliano si era ammalato e Sara non aveva avuto dubbi: meglio, molto meglio restare a casa.
Cercando lacrime che non trovava, continuò a fissare il volto del figlio morto: uno sconosciuto.
Aveva visto tanti cadaveri. Era stata di pattuglia e di scorta, aveva assistito ad almeno quattro guerre tra clan. Ma quello era suo figlio.
Almeno, lo era stato.
Due vite, rifletté. Una per strada, inseguendo il sogno di diventare poliziotta, e nel contempo assecondando l’educazione che le avevano dato i suoi: essere moglie e madre. Così aveva sposato il fidanzato del liceo, il bravo ragazzo un po’ grigio col bel sorriso, il padre di Giorgio. Un buon padre, perché alla fine l’aveva tirato su lui quando se n’era andata.
Poi l’altra vita. Dopo che aveva deciso di essere se stessa, sbagliando tutto quello che si poteva sbagliare.
Si voltò e uscì dall’obitorio.
Il tecnico, medico o quello che era, la osservò un po’ perplesso, quindi distolse lo sguardo davanti a quella faccia di marmo. Era ancora giovane, forse si aspettava lacrime e urla.
Nel corridoio la donna sentì l’equilibrio mancarle, e per un attimo si appoggiò al muro. Adesso avrebbe avuto quel volto tumefatto, senza espressione, conficcato nella memoria al posto delle ginocchia sbucciate e del ghiacciolo che colava sulla maglietta rossa. Quel pensiero le spezzò il cuore. Considerò che tutto sommato il padre di Giorgio, morto dieci anni prima, aveva ricevuto un bel regalo dal cancro.
Il vecchio collega l’aspettava sulla porta dell’obitorio. Gli fu grata per il suo silenzio, per quegli occhi che teneva bassi, e per non aver provato a toccarle il braccio.
Gli chiese:
«Come e dove è successo, De Blasio?».
L’uomo si grattò la nuca e agitò la mano in modo vago indicando l’interno:
«Ci sta il tizio di là, non riesce a smettere di piangere. Sostiene che lui è spuntato all’improvviso, mentre stava scrivendo un messaggio al cellulare. Nell’altra mano stringeva il guinzaglio del cane. Ci stanno pure quelli della stradale. Gliel’ho spiegato che… che sei dei nostri».
Sara scosse appena il capo:
«Non più. Comunque portami da loro, dài».
De Blasio la studiò coi suoi occhi acquosi da vecchio cane da caccia:
«Moro’, se uno è un poliziotto, lo è per sempre. Mica è un lavoro che si va in pensione e si dimentica, questo».
Gli agenti della stradale erano due, uno giovane dall’aria ribalda e uno più o meno dell’età di De Blasio. L’insegnante e l’allievo, pensò Sara.
L’anziano le venne incontro, il cappello in mano:
«Ciao, Morozzi, mi chiamo Silvani. Mi… mi dispiace assai per la tua perdita».
Sara annuì, rigida. Continuava a cercare le lacrime dentro di sé, senza trovarle. Dolore sì, ma niente lacrime. «Vorrei sapere dove e come è successo.»
Silvani sospirò. Per qualche motivo sembrava più addolorato lui di Sara. «Proprio vicino casa sua, l’illuminazione là è scadente, c’è un lampione rotto e un altro è coperto dai rami di un albero. In pratica ci stanno venti metri di oscurità completa e…»
Sara chiese a bassa voce:
«In quale strada?».
Il ragazzo spalancò gli occhi:
«Ma non è tuo figlio, scusa? Nemmeno sai dove abita?».
Silvani si voltò verso il collega e rispose, velenoso:
«Zitto, Banti. Parli a sproposito. Morozzi…».
Sara agitò la mano:
«Tranquillo, Silvani. No, lui e io… non ci sentivamo da molto tempo. Tutto qui».
Il giovane si strinse nelle spalle, e iniziò a fissarsi le unghie.
Sara incalzò:
«Allora, com’è andata?».
«Era mezzanotte, più o meno. Tuo f… Giorgio era uscito per portare fuori il cane, almeno così ci ha riferito la… Sapevi che viveva con una ragazza, sì?»
Sara scosse il capo.
Banti fece uno sbuffo che poteva essere...

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