Rannicchiata nella macchina, ascoltando le folate improvvise di vento gelido che si infrangono sulle poche auto in transito lungo la strada, Sara aspetta.
Ă quello che le riesce meglio. Ă stato il suo lavoro per tanti anni, aspettare con pazienza, non lasciarsi sommergere dallâonda lunga della fretta, non anticipare gli eventi per non smarrire lâobiettivitĂ dellâanalisi. Freddezza, imperturbabilitĂ , distacco. SerenitĂ .
No, stavolta quella non câĂš, pensa Sara. Niente serenitĂ .
Le foglie cadute dagli alberi che turbinano. Le finestre che si vanno spegnendo, una a una. Passanti ormai non ce ne sono piĂč, da almeno unâora. E Sara aspetta.
Se non sarĂ stanotte, sarĂ la prossima. O quella dopo. Qual Ăš il problema? CâĂš solo da attendere.
Ha imparato che proprio a forza di attendere le cose succedono, prima o poi. Basta essere pronti.
Sara ha imparato anche come ingannare lâattesa. Da fuori sembra quasi addormentata, le palpebre socchiuse, i lineamenti distesi; le mani appoggiate lungo le cosce, coi guanti per evitare che le dita si intirizziscano, senza metterle in tasca per non ritardare i movimenti e allungare i tempi di reazione. Ogni muscolo immobile, nessuna contrazione sul volto impassibile. La visione periferica Ăš piĂč che sufficiente per controllare lo spazio che le interessa. Lâaiuta la corporatura minuta. La sagoma avvolta dal sedile e riparata dal poggiatesta Ăš invisibile dal lato posteriore. Il SUV posteggiato davanti le risparmia le sciabolate dei fari delle rare macchine che procedono in senso opposto.
Chi attende sparisce. Chi attende deve sparire.
Sara sa che la posizione del corpo Ăš la premessa, ma per riempire il tempo va ordinata la mente. Come un salotto per ricevere gli ospiti. Ă indispensabile che non ci sia nulla di estraneo, nessuna distrazione: non bisogna pensare ad altro, pericolosissimo lasciare che la testa vaghi altrove; la frazione di secondo necessaria per tornare al qui e ora dellâattesa puĂČ risultare fatale. E non si puĂČ nemmeno pretendere di restare concentrati in continuazione su quello che si aspetta, sarebbe come fissare per ore il particolare di un oggetto perdendo i contorni dellâinsieme.
Sara lo sa che bisogna ricostruire senza sosta il quadro generale, ripercorrere la sequenza degli eventi. Tirare ancora le linee che uniscono i punti, come quei disegni da bambini, una giraffa o un elefante, che piano piano prendono forma collegando una serie di numeretti sparsi sulla pagina.
E allora, per lâennesima volta, Sara ricomincia dallâinizio.
Il telefono aveva squillato alle quattro del mattino.
Le capitava spesso nei momenti topici del suo servizio, quando la situazione precipitava allâimprovviso e non câera orario o turno che tenesse: chi aveva seguito una determinata pista doveva mettersi subito al lavoro, e basta. Allora come adesso la sensazione era orribile, con la coscienza che annaspava cercando di riguadagnare la superficie dallâabisso del sonno profondo, a cui sempre piĂč di rado cedeva, nel petto il rombo di un tamburo, un attimo prima dellâemergere dei peggiori pensieri, finchĂ©, dopo, tutto si rivelava irrilevante e innocente.
In certi casi, perĂČ, i peggiori pensieri trovavano conferma.
Sara si era vestita in fretta, continuando a ripetere:
«No, no, Ú impossibile, non Ú lui».
Non aveva trovato le chiavi dellâauto, aveva chiamato un taxi, la voce e il cuore spezzati in mille aguzzi frammenti, ognuno dei quali rifletteva una diversa immagine del passato. «No, Ăš un errore. Non puĂČ essere.»
Era lui, invece. Proprio lui.
RestĂČ ferma a guardarlo sul tavolo. Era coperto a metĂ dal lenzuolo, grigio, i lividi e le fratture evidenti. Rotto. Spezzato in piĂč punti. RestĂČ ferma, ascoltando la tempesta di silenzio che le montava dentro, cercando di tenere a bada i ricordi remoti, il dolore del ventre, poi il pianto e il latte e la carne, il sangue dal naso e le ginocchia sbucciate, la fata dei dentini e «Cambiati il costumino chĂ© quello Ăš bagnato», e gli occhi pieni di lacrime quando se nâera andata.
Giorgio. Giorgetto, GiogiĂČ. Giorgino, il mio Giorgino.
La mente per non esplodere le ripropose lâodio del figlio, il fiume incontenibile di durezza dellâadolescente che le urlava:
«Chi sei tu? Chi cazzo sei? Io non ho una madre». E lo rivide scappare via senza girarsi, lâultima volta, tanti anni prima.
Mio figlio, pensĂČ Sara. Ora che Ăš troppo tardi.
A telefonarle era stato un collega anziano, confinato nel presidio di polizia dellâospedale a consumare gli ultimi mesi prima della pensione. Uno che si ricordava di lei, ed erano rimasti in pochi. «Ciao, Morozzi⊠scusa lâora, ma credo che tu debba venire qui. Adesso, sĂŹ. Si tratta di Alberti Giorgio⊠à tuo figlio, giusto? Allora devi proprio venire. Morozzi⊠mi dispiace. Tanto.»
Erano anni che Sara non si sentiva chiamare per cognome, da quando aveva firmato per il congedo. Alla fine, grazie allâanzianitĂ e a un gioco di contributi, aveva chiuso con lâunitĂ prima di quanto avrebbe dovuto. Da tempo non si trovava piĂč bene, e non per stanchezza o pigrizia: perchĂ© quel lavoro era cambiato e non le assomigliava piĂč. Troppe macchine. Troppa magistratura. Troppa elettronica, troppo DNA. E anche gli altri erano cambiati, parlavano in modo diverso, e Sara aveva cominciato a considerarsi superflua.
Eppure era stata lâindiscussa, leggendaria maestra delle intercettazioni. Come interpretava lei quei bisbigli, quei sussurri che a stento si percepivano, nessuno mai. Una sensibilitĂ speciale, una capacitĂ naturale affinata con lâesercizio e lâapplicazione. Tutto vanificato dai nuovi strumenti di pulizia e amplificazione del suono: allâimprovviso si era sentita ânormaleâ. Ed essere guardata con sufficienza da ragazzine presuntuose che avevano vinto un concorso facendosi il culo sui libri non era per lei.
Poi Massimiliano si era ammalato e Sara non aveva avuto dubbi: meglio, molto meglio restare a casa.
Cercando lacrime che non trovava, continuĂČ a fissare il volto del figlio morto: uno sconosciuto.
Aveva visto tanti cadaveri. Era stata di pattuglia e di scorta, aveva assistito ad almeno quattro guerre tra clan. Ma quello era suo figlio.
Almeno, lo era stato.
Due vite, riflettĂ©. Una per strada, inseguendo il sogno di diventare poliziotta, e nel contempo assecondando lâeducazione che le avevano dato i suoi: essere moglie e madre. CosĂŹ aveva sposato il fidanzato del liceo, il bravo ragazzo un poâ grigio col bel sorriso, il padre di Giorgio. Un buon padre, perchĂ© alla fine lâaveva tirato su lui quando se nâera andata.
Poi lâaltra vita. Dopo che aveva deciso di essere se stessa, sbagliando tutto quello che si poteva sbagliare.
Si voltĂČ e uscĂŹ dallâobitorio.
Il tecnico, medico o quello che era, la osservĂČ un poâ perplesso, quindi distolse lo sguardo davanti a quella faccia di marmo. Era ancora giovane, forse si aspettava lacrime e urla.
Nel corridoio la donna sentĂŹ lâequilibrio mancarle, e per un attimo si appoggiĂČ al muro. Adesso avrebbe avuto quel volto tumefatto, senza espressione, conficcato nella memoria al posto delle ginocchia sbucciate e del ghiacciolo che colava sulla maglietta rossa. Quel pensiero le spezzĂČ il cuore. ConsiderĂČ che tutto sommato il padre di Giorgio, morto dieci anni prima, aveva ricevuto un bel regalo dal cancro.
Il vecchio collega lâaspettava sulla porta dellâobitorio. Gli fu grata per il suo silenzio, per quegli occhi che teneva bassi, e per non aver provato a toccarle il braccio.
Gli chiese:
«Come e dove Ú successo, De Blasio?».
Lâuomo si grattĂČ la nuca e agitĂČ la mano in modo vago indicando lâinterno:
«Ci sta il tizio di lĂ , non riesce a smettere di piangere. Sostiene che lui Ăš spuntato allâimprovviso, mentre stava scrivendo un messaggio al cellulare. Nellâaltra mano stringeva il guinzaglio del cane. Ci stanno pure quelli della stradale. Glielâho spiegato che⊠che sei dei nostri».
Sara scosse appena il capo:
«Non piĂč. Comunque portami da loro, dĂ i».
De Blasio la studiĂČ coi suoi occhi acquosi da vecchio cane da caccia:
«Moroâ, se uno Ăš un poliziotto, lo Ăš per sempre. Mica Ăš un lavoro che si va in pensione e si dimentica, questo».
Gli agenti della stradale erano due, uno giovane dallâaria ribalda e uno piĂč o meno dellâetĂ di De Blasio. Lâinsegnante e lâallievo, pensĂČ Sara.
Lâanziano le venne incontro, il cappello in mano:
«Ciao, Morozzi, mi chiamo Silvani. Mi⊠mi dispiace assai per la tua perdita».
Sara annuÏ, rigida. Continuava a cercare le lacrime dentro di sé, senza trovarle. Dolore sÏ, ma niente lacrime. «Vorrei sapere dove e come Ú successo.»
Silvani sospirĂČ. Per qualche motivo sembrava piĂč addolorato lui di Sara. «Proprio vicino casa sua, lâilluminazione lĂ Ăš scadente, câĂš un lampione rotto e un altro Ăš coperto dai rami di un albero. In pratica ci stanno venti metri di oscuritĂ completa eâŠÂ»
Sara chiese a bassa voce:
«In quale strada?».
Il ragazzo spalancĂČ gli occhi:
«Ma non Ú tuo figlio, scusa? Nemmeno sai dove abita?».
Silvani si voltĂČ verso il collega e rispose, velenoso:
«Zitto, Banti. Parli a sproposito. MorozziâŠÂ».
Sara agitĂČ la mano:
«Tranquillo, Silvani. No, lui e io⊠non ci sentivamo da molto tempo. Tutto qui».
Il giovane si strinse nelle spalle, e iniziĂČ a fissarsi le unghie.
Sara incalzĂČ:
«Allora, comâĂš andata?».
«Era mezzanotte, piĂč o meno. Tuo f⊠Giorgio era uscito per portare fuori il cane, almeno cosĂŹ ci ha riferito la⊠Sapevi che viveva con una ragazza, sĂŹ?»
Sara scosse il capo.
Banti fece uno sbuffo che poteva essere...