L'opale perduto
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L'opale perduto

Lauren Kate

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L'opale perduto

Lauren Kate

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È una cupa notte di dicembre del 1725, Venezia è stretta nella morsa dell'inverno. Violetta, cinque anni, si è rifugiata nella soffitta dell'istituto per trovatelli noto come Ospedale degli Incurabili, dove vive. Oltre il vetro gelido di una finestra, con la sua bambola stretta al petto, sente il canto soave di una donna, giù in strada, e la vede abbandonare un bambino nella ruota. Dieci anni dopo, in quella stessa soffitta piena di vecchi indumenti e violini rotti dove lei continua a sognare una vita libera, Violetta incontra Mino. Violinista dell'ala maschile dell'orfanotrofio e primo essere umano capace di farle intravedere, attraverso il soffio suggestivo della musica, un orizzonte di speranza. Ma questa inaspettata magia ancora non basta: troppo urgente è il desiderio di Violetta di diventare una cantante, e potrebbe essere un desiderio maledetto… Dopo il successo mondiale della saga di Fallen, ecco il nuovo romanzo di Lauren Kate: la storia di un amore ostacolato, in una Venezia magnifica e crudele, città delle maschere, luogo perfetto dove nascondere, fin che si può, i trasalimenti del cuore.

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Information

Publisher
RIZZOLI
Year
2019
ISBN
9788858698006

1

«Violetta!»
La ragazza distolse lo sguardo dalla finestra della sua camera da letto, dal gabbiano appollaiato sul tetto di terracotta di fronte. Avrebbe voluto che spiegasse le ali e abbandonasse quel vicoletto in ombra. Se lei fosse stata un uccello, avrebbe volato sul mare. Non si sarebbe mai posata sulla stessa nave due volte.
La mattina di settembre era così limpida, e il lembo di cielo incorniciato dai tetti così azzurro che, quando si girò, le ci volle qualche istante per abituare gli occhi al cambiamento di luce e scorgere la figura ansimante sulla soglia.
«Che cosa c’è, Laura?» chiese, facendo posto sul letto per la sua amica. Avevano entrambe sedici anni. Erano vicine di stanza; soltanto una parete divideva le loro camerette singole al primo piano, dove alloggiavano da quando, a dieci anni, avevano lasciato l’asilo. «Entra, riprendi fiato, impara da quel gabbiano pigro.»
Purtroppo, non era nella natura di Laura riprendere fiato. Si angustiava sempre per tutto, dalla pioggia che rovinava un giorno di festa a quello che sarebbe capitato alle uova quando vedeva una mamma passero inghiottire per sbaglio un frammento di vetro. Si preoccupava dell’umidità dei palmi quando suonava un brano particolarmente difficile al violino, asciugandolo infastidita con una pezza di lino perché il legno non si deformasse. Si preoccupava di come riuscire a spiccare tra le altre violiniste della scuola di musica. Si preoccupava per l’eventuale ingresso nel coro, e si preoccupava perché Violetta non si preoccupava abbastanza di essere promossa insieme a lei. Non perdeva mai l’occasione di ricordarle che il coro poteva accogliere soltanto trentatré elementi alla volta, poco più della metà delle ragazze che studiavano nella scuola di musica. Ogni anno c’erano pochissime opportunità di accedere, in sostituzione alle più grandi che si maritavano o si ritiravano in convento.
Laura si preoccupava per gli esercizi vocali di Violetta e per gli spartiti di Violetta, troppo spesso sparpagliati sul pavimento. Nel corso degli anni era diventata bravissima a inventare scuse plausibili da presentare alla badessa per i ritardi a lezione di Violetta, ma non smetteva mai di temere che alla fine l’amica sarebbe stata punita con la verga. Il loro rapporto era un duetto: più l’una si preoccupava, più l’altra le dava motivi per farlo.
Non che Violetta fosse sconsiderata; era così che appariva agli occhi di Laura, che riversava su di lei le sue ansie nella stessa misura in cui Violetta cercava di sfuggirvi. Ecco perché passava tanto tempo alla finestra, immaginandosi oltre quella barriera di vetro.
Laura si rimise a posto una ciocca sfuggita dalla voluminosa crocchia di capelli castani. «Ovvio. Non lo sai.»
«Non so che cosa?» Violetta non aveva idea di quanto tempo fosse rimasta alla finestra. Le capitava sempre nei giorni in cui faceva quel sogno.
La ruota, la donna. La canzone. Erano passati dieci anni da quella notte, ma ricordava la corsa precipitosa al pianterreno come fosse accaduto il giorno prima. Era l’unica a sapere che il bambino era lì, incastrato. L’unica a poterlo aiutare. Non era mai stata tanto vicina a un maschio. Lui dormiva ancora, quando lo aveva estratto dalla ruota.
Anni dopo si era resa conto che la donna doveva averlo drogato. Che il figlio non aveva nemmeno sentito la madre cantare.
Ogni volta che sognava quella canzone, il giorno dopo la sua vita sembrava perdere colore e consistenza. Si sforzava di svolgere i propri doveri come al solito: alzarsi all’alba, pregare ad alta voce – prima l’Angelus, poi un’invocazione per l’eliminazione dell’eresia, una per la loro pia Repubblica, una per i benefattori e i custodi degli Incurabili, e così via – proprio come facevano tutte le altre voci mormoranti nelle stanzette alla sua destra e alla sua sinistra.
Prima di recarsi a messa, aveva fatto colazione con zuppa d’avena e panna, mentre la badessa camminava dondolando i fianchi larghi tra i tavoli di legno grezzo, declamando letture sacre con il suo sussurro tagliente che tarpava qualsiasi tentativo delle ragazze di ridacchiare o spettegolare. Poi la mattinata era passata con tre ore di lezioni di musica: la prima con tutta la scuola, la seconda con una cerchia più ristretta di cantanti e infine con la sua istruttrice privata, Giustina.
Giustina era molto bella, aveva ventiquattro anni, ed era primo soprano del coro. Era nota come Bella Voce in tutta la città e persino oltre i confini della Repubblica di Venezia. I turisti giungevano da ogni parte d’Europa pagando fior di quattrini per sentirla cantare. Violetta non era ancora sicura di che cosa ci vedesse in lei Giustina, ma la paziente generosità della sua sottomaestra la ispirava a dare il meglio.
In quel momento avrebbe dovuto leggere le ultime correzioni del suo spartito, esercitandosi nei trilli e nei passaggi. Più tardi Giustina l’avrebbe valutata, prima della compieta, l’ultima preghiera del giorno. Ma Violetta non aveva nemmeno dato uno sguardo alle pagine. Non appena era libera di chiudersi nella propria stanza, si metteva alla finestra, si godeva il calore dietro il vetro e lasciava vagare la mente.
La canzone del sogno la perseguitava, con quelle parole che non avrebbe mai potuto pronunciare ad alta voce.
Io sono tua, tu sei mio
Era diventata la sua canzone. Ma a chi o a che cosa era dedicata? A volte pensava ancora al bambino che aveva estratto dalla ruota quella notte. Prima di lasciarlo accanto alla brace morente del focolare della cucina, avvolto in una tovaglia, aveva scoperto il piccolo ritratto che stringeva nel pugno.
In realtà si trattava di un mezzo ritratto, un frammento di legno scheggiato per essere stato spezzato in diagonale. Era appeso a una catenina rotta, come se un tempo fosse stato un ciondolo. Raffigurava una donna nuda. Mezza donna. Viso, seno e ventre coperti da onde di capelli biondi come quelli del bambino. Occhi scuri persi in lontananza, la bocca aperta mentre cantava al cielo azzurro.
La madre del bambino doveva aver conservato l’altra metà. La maggior parte degli orfani degli Incurabili possedeva un oggetto del genere: frammenti di ritratti o brandelli di tessuto che sarebbero serviti da segno di riconoscimento se mai il destino avesse voluto riunire madre e figlio.
Violetta non ne aveva. Non credeva a quelle fantasie.
Non aveva mai più rivisto il bambino, giacché gli Incurabili maschi e femmine conducevano vite separate. E non aveva nemmeno voglia di rivederlo, sebbene in qualche modo lui fosse sempre presente. La melodia cantata per lui tormentava lei, esprimendo a parole quella parte di sé che più di ogni altra cosa voleva negare: il fatto che qualcuno le aveva inflitto la stessa sorte. Sperava che lui non serbasse ricordo dell’abbandono, che non pensasse mai a quella notte. Probabile che ormai avesse lasciato l’orfanotrofio per andare a fare l’apprendista in un’altra zona della città.
«Violetta!» Laura le afferrò il braccio. «Porpora è tornato.»
Violetta scattò in piedi. «Perché non me l’hai detto subito?»
Quell’anno l’ospedale degli Incurabili aveva ingaggiato il famoso compositore napoletano Nicola Porpora per dirigere il coro. Era l’autorità suprema in materia, colui che avrebbe deciso quali ragazze promuovere e quali no. Persino le allieve più piccole, bambine di appena sei anni, drizzavano le spalle e mormoravano tra di loro nel sentirlo nominare.
Alle prescelte da Porpora per il coro sarebbero toccati anni di intensa collaborazione con il brillante, sebbene un po’ severo, compositore e si sarebbero esibite davanti a folle adoranti. Le coriste avevano del tempo libero, potevano uscire un po’ di più, mangiavano cibo migliore e avevano il permesso di bere anche qualche bicchiere di vino. Alcune di loro ricevevano lettere da notabili veneziani o turisti europei che venivano in città solo per ascoltarle. Una porzione dei considerevoli guadagni dei concerti veniva messa da parte per la dote.
Le ragazze non scelte per il coro diventavano figlie di comun, normali residenti dell’orfanotrofio. Facevano da infermiere ai sifilitici del pianterreno o si occupavano d’incombenze umili come il bucato e il ricamo, cucendo e tingendo la lana dei mantelli con quella inimitabile sfumatura azzurra. Alcune diventavano zie, donne deputate alla cura dei trovatelli. Le figlie di comun lavoravano nell’orfanotrofio fino all’età di quarant’anni, dopo di che venivano mandate in convento. L’unica possibilità di fuga era essere assunte come domestiche. Ma la cosa peggiore di tutte era che per loro la musica cessava di esistere. Niente più occasioni di studiarla o di esibirti, quando eri una figlia di comun.
Violetta inorridiva al solo pensiero. Tutto quello che conosceva della vita era la musica: che cosa avrebbe fatto se l’avessero privata della sua unica consolazione? Lei e Laura si erano giurate che non avrebbero mai accettato quel destino. In cuor suo Violetta sospettava che entrambe fossero certe che Laura ce l’avrebbe fatta, mentre lei, con la sua tendenza a fantasticare e a distrarsi, avrebbe potuto fallire.
Il maestro era stato all’estero per tutto il mese di agosto e la prima metà di settembre. Le lezioni si erano diradate in sua assenza, ma adesso la routine sarebbe stata ripristinata. Porpora si sarebbe trattenuto per l’autunno, nelle settimane del Carnevale durante le quali il coro si preparava alla stagione concertistica più importante, l’Avvento. Per Violetta e Laura, e per ciascuna delle sessantadue ragazze più giovani della scuola di musica, l’arrivo di Porpora significava la prova del fuoco.
«Sarebbe dovuto arrivare la settimana prossima» disse Violetta.
«Ha anticipato» rispose Laura. «E vuole ascoltarci tutte. Nella galleria.»
«Nella galleria?» Era il luogo dove si esibivano le coriste. Violetta era stata diverse volte nell’anticamera a prendere gli spartiti per Giustina, ma non aveva mai messo piede nel loggione che affacciava sulla chiesa attraverso una grata dorata. Le allieve del conservatorio si esercitavano in una sala soffocante senza finestre sopra la farmacia, ammorbata dagli effluvi di decotto di guaiaco per i sifilitici del pianterreno.
«Sei già in ritardo» disse Laura, «ma non esci da questa stanza con quei capelli.»
«Cos’hanno che non va?» Violetta si accarezzò la lunga treccia scura che le arrivava alla cintola. Non c’erano specchi nella camera. Non ricordava l’ultima volta che si era spazzolata i capelli indomabili.
«Faccio io» disse Laura, spostandosi alle sue spalle, in piedi sul letto cigolante, con la punta delle pantofoline che solleticavano le cosce di Violetta. «Intanto comincia a riscaldare la voce. Le scale. E, Madonna mia, le calze!»
Violetta s’infilò le ruvide calze di lana, legandole con i nastri appena sopra il ginocchio, e sbuffò quando Laura le sciolse la treccia vecchia di giorni e cominciò a districarle i nodi.
Mentre le dita dell’amica le sistemavano la chioma, Violetta drizzò la schiena e respirò attraverso un muro fibroso di nervi. Aprì la bocca, si appiattì la lingua con le dita ed eseguì tre ottave di scale, come le aveva insegnato Giustina.
«Quando canti» le aveva detto la sottomaestra, «devi pensare a quello che vuoi comunicare al mondo.»
Quando Violetta cantava, non aveva abbastanza sicurezza in sé da voler essere ascoltata, figuriamoci se poteva trasmettere un messaggio. Trovava difficile credere che il mondo desiderasse sentire la sua voce.
Aveva girato la domanda a Giustina. «E tu che cosa vuoi comunicare al mondo?»
La giovane istitutrice si era portata le mani al petto e aveva sospirato: «L’amore è qui».
Gli occhi di Violetta si erano riempiti di lacrime perché aveva intuito che non doveva esistere niente di più elevato a cui una musicista poteva aspirare. E aveva abbandonato ogni speranza. Non sarebbe mai stata capace di cantare qualcosa di così audace ed essenziale. Desiderava vedere e ascoltare il mondo ed esserne ispirata. Non riusciva a immaginare di ricambiare il favore.
Giustina le aveva stretto una spalla mormorando: «Non preoccuparti, lo troverai».
Davvero? Violetta era un soprano, purtroppo alquanto debole, e, malgrado gli anni di esercizi e di preghiere, doveva ancora sforzare la voce per raggiungere le note più alte delle arie complicate che preferiva. A volte sentiva che era la paura a trattenerla. Se fosse riuscita a entrare nel coro e a liberarsi dall’ansia, la sua voce avrebbe dato prova delle sue piene capacità. Si domandava come doveva essere perfezionare un’aria, cantare come intendeva Porpora o addirittura meglio. Quando pensava di chiederlo a Giustina, però, si rendeva conto che non era qualcosa di spiegabile a parole, proprio come la radice profonda del suo struggimento.
Per lei i momenti migliori erano quando udiva la propria voce mescolarsi alle altre. Quando si sentiva parte della musica invece che i...

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