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Giuseppe Catozzella

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Italiana

Giuseppe Catozzella

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Italiana. Una donna italiana. Maria Oliverio, altrimenti conosciuta come Ciccilla, nasce a Casole, nella Sila calabrese, da famiglia poverissima. Dalle strade del paese si sale sulla montagna che è selvaggia, a volte oscura, a volte generosa come una madre. Quelle strade, quei sentieri li imbocca ragazzina quando la sorella maggiore Teresa, tornata a vivere in famiglia, le toglie il letto e il tetto. E quelli sono i sentieri che Maria prende per combattere al fianco di Pietro, brigante e ribelle, diventando presto la prima e unica donna a guidare una banda contro la ferocia dell'esercito regio. Se da una parte Teresa trama contro di lei una incomprensibile tela di odio, dall'altra Pietro la guida dentro l'amore senza risparmiarle la violenza che talora ai maschi piace incidere sul corpo delle donne.

Ciccilla passa la giovinezza nei boschi, apprende la grammatica della libertà, legge la natura, impara a conoscere la montagna, a distinguere il giusto dall'ingiusto, e non teme di battersi, sia quando sono in gioco i sentimenti, sia quando è in gioco l'orizzonte ben più ampio di una nuova umanità. Il volo del nibbio, la muta complicità di una lupa, la maestà ferita di un larice, tutto le insegna che si può ricominciare ogni volta daccapo, per conquistarsi un futuro come donna, come rivoluzionaria, come italiana di una nazione che ancora non esiste ma che forse sta nascendo con lei.

Giuseppe Catozzella ricostruisce le vicende di Maria Oliverio in un romanzo vivo, mescola documenti e leggenda, rovescia la sua immaginazione nella nostra, disegna dramma famigliare e dramma storico ed evoca l'epica grandezza di una guerra quasi ignorata, una guerra civile combattuta in un mulinare di passione, sangue e speranza, come nella tradizione dei poemi cavallereschi, del melodramma e del cinema americano.

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Information

Publisher
Mondadori
Year
2021
ISBN
9788835707486
Prima parte

IN PAESE

1

Da bambina mi ero messa in testa di andare in cerca della sorella maggiore che a casa con noi non c’era mai stata. Eravamo sei fratelli, ma l’unica traccia di nostra sorella Teresa erano i cinque trattini bassi di fianco a una T tracciata col lapis sul muro del camino, dove papà, ogni anno, al compleanno di ognuno, misurava quanto eravamo cresciuti.
Di lei a casa era vietato parlare, mamma e papà la nominavano raramente, la domenica o alle feste comandate, quando sulla tavola c’era un po’ di vino o quando qualcuno in paese distillava l’acquavite e gliene portava un quarto.
Raffaele, mio fratello grande, non ci credeva che esistesse; Salvo, il mediano, sì. Papà ne accennava brillo e sognante, la sera, alla luce fioca del lume a petrolio, e poi negava, e mamma diceva: «Zitto, citu, statti zitto». Le si bagnavano gli occhi, cosa che non succedeva mai, iniziava a guardare il soffitto e poi senza accorgersene cercava i contorni delle montagne fuori dalla finestra, e sorrideva, da sola. «Citu, non dire niente, ca poi li picciuliddri parlano, e nel paese sembriamo sbafanti. Che ci diamo le arie» zittiva papà.
Che quella sorella esisteva davvero lo sapevo soltanto io, era stata mamma a dirmelo, una domenica sera di pioggia battente, prendendomi da parte e baciandomi in testa, e facendomi giurare di non dirlo a nessuno, nemmeno ai fratelli. «Mari’, presto te ne andrai» aveva detto con occhi lucidi. «Pure tu avrai tutto quello che ha lei.»
Quella frase mi aveva sconvolta. Da allora avevo vissuto come in due mondi separati. Da un lato c’era una vita nuova, misteriosa e spaventosa, che mi immaginavo piena di ricchezze, insieme alla sorella sconosciuta; dall’altro la mia famiglia, il paese e la casa in cui ero vissuta fino a quel momento. Ma io facevo finta che niente fosse vero, che le parole di mamma fossero un’invenzione, che tutto sarebbe rimasto per sempre com’era.
Vincenzina, che aveva tre anni meno di me, dopo ogni festa veniva a coricarsi nel mio letto, di fianco al suo, nella stessa stanza dove mangiavamo e cucinavamo. L’odore della minestra era dentro i vestiti, nei cuscini, tra i capelli. L’acqua che evaporava dalla pentola sulla stufa aveva macchiato il soffitto, cadevano gocce, Raffaele e Salvo giocavano a chi le prendeva al volo. Dall’altra parte, vicini al camino, accostati al muro c’erano i materassi dei fratelli; Angelino, che aveva solo un anno, invece dormiva nella camera da letto insieme a mamma e papà.
Vivevamo nella casa di Vico I dei Bruzi a Casole, sulla collina della Presila, ai piedi dei monti, una casa costruita attorno a un camino, con grandi pietre angolari a proteggerci. Era la casa del padre di nostro nonno, la porta aveva la forma di un arco, e a me sembrava la casa più bella del mondo. All’inizio la stanza era una sola, quella che si apriva dietro era ancora la stalla per gli animali, poi nonno Biaggio, da cui papà aveva preso il nome, aveva eliminato le poche vacche e le capre dopo che si erano ammalate tutte, e lui e i figli maschi avevano trasformato la stalla in una camera da letto. Da allora la famiglia si era data alla terra, e aveva cominciato a lavorare per i Morelli.
È stato così che siamo diventati braccianti, dipendenti dai capricci dei “cappelli”; non avere spazio era l’ultimo dei problemi. Era quando alla fine del mese non c’era da mangiare che la fame faceva sentire le sue ragioni, soprattutto quelle di Raffaele, il grande. Ma non ci pensavamo, nessuno di noi ci pensava, per evitare di diventare matti. Non pensavamo che faticavamo giorno e notte, non pensavamo che i “cappelli” recintavano tutto col filo spinato – terre, boschi e pascoli pubblici – e mettevano a guardia cani ferocissimi, vietando a noi braccianti di fare un po’ di legna, spigolare dopo il raccolto, acciuffare una manciata di funghi rositi e di castagne, cacciare una quagliarella in un bosco, o pescare uno spinarello al fiume. Noi non ci pensavamo. Digerivamo la nostra stessa fame e la mattina ci svegliavamo ricordandoci che la dignità – «La dignità!» ripeteva papà –, quella non dovevamo farcela strappare mai da nessuno.
Vincenza saltava sul mio materasso di lana caprina, si coricava su un fianco e si metteva testa a testa con me, le piaceva fare il gioco delle ciglia che si toccavano.
«Mari’, ma secondo te a tenimo sta sorella grande?»
«Sì» rispondevo.
«Pure io u penzu. E tiene tanta ricchizza?»
«È straricca.»
«E pecchì se n’è andata?»
«Ca è troppo ricca e sta casa la faci schifu.»
«E pecchì la faci schifu?»
Ogni volta inventavo qualcosa di diverso. «Ca quella tiene u bagnu e noi qua tenimo ancora u cantaturu.» Indicavo la secchia di metallo accanto alla porta della camera da letto. A Vincenza la notte non serviva, aveva quattro anni ma ogni tanto se la faceva ancora addosso, e se non metteva il pannetto di teli di lino con le spille da balia bagnava il letto. «A iddra le piace appoggiarsi le cosce quannu faci a pisciazza, così non si faci vidiri da lu maritu suo!» le sussurravo nell’orecchio. Avevamo sentito mamma dire che un giovane ricchissimo l’aveva chiesta in sposa, e da quel giorno avevamo preso a fantasticarci su. Vincenzina allora rideva forte, si tappava la bocca con le mani e smettevamo di parlarne, io mi addormentavo col suo fiato dentro il mio.
Una mattina di marzo è arrivato un telegramma.
Poche parole che anche mamma, da sola, è riuscita a leggere. Il pomeriggio, dopo la scuola, mi ha presa da parte, e mentre le indicava col dito tremante me le sussurrava all’orecchio:
«Preparate bambina. Telegraferemo per concordare vostro invio a Napoli per corriera. Noi partiamo ora, pronti per adozione. Conte Tommaso e moglie.»
Mamma mi ha guardata con una luce incantata negli occhi. «Avrai dei genitori nuovi. Ricchi» ha detto. «E starai co’ tua sorella.»
Vincenzina si era accorta che stava succedendo qualcosa di strano e, nascosta in un angolo buio, ci fissava. Nel suo sguardo c’era il terrore di rimanere sola. D’improvviso ha starnutito, per il freddo delle pareti. Allora mi sono strappata da mamma e sono corsa ad abbracciarla. Vibrava. Non l’avrei lasciata, mai, per niente al mondo. «Starò sempre con te» le ho promesso, stringendola. «Io e te, sempre.»
Lei da sotto mi guardava con occhi enormi e gonfi. «Va bene» diceva, mentre faceva sì con la testa e tirava su col naso.
Ma nei giorni successivi le parole di quel telegramma continuavano a rimbombarmi nelle orecchie. Adozione. Nuovi genitori. Sarei stata ricca. Avrei conosciuto la sorella misteriosa. Avrei visto Napoli, la capitale. Erano tutte cose che volevo, ma allo stesso tempo mi atterrivano.
Ma era l’inizio del 1848, quell’anno, incredibilmente, di neve non ne era caduto nemmeno un fiocco, e così, come per lo stesso prodigio, sembrava che ogni cosa dovesse cambiare: che da Milano a Napoli, a Palermo stessero arrivando rivolte che ci avrebbero liberati tutti, cominciando proprio da me.
Anche papà, che ogni sera tornava con la schiena spezzata e davanti alla minestra di cavolo e cicorie scrollava la testa – «La fatiga è a rarici i morta», la fatica è la radice della morte, diceva –, anche lui aveva cambiato umore, e per la prima volta era ottimista. Guardava l’edicola con l’incenso e santa Marina di Bitinia, e sembrava credere a una vita senza il trotto del mulo, il soffiare delle bestie, gli scarti, gli stronfi e il battere ritmico delle catene contro le bardelle; o almeno a una vita in cui tutto questo potesse essere, finalmente, suo.
Io ho guardato fuori dalla finestra.
In lontananza c’era la montagna, più in là c’era il bosco di Colla della Vacca. Sarei scappata lì, solo lì c’era la salvezza. Se non mi fossi fatta trovare per un po’, non avrebbero potuto darmi ad altri genitori.
Così, trasportata dall’azzìu, sono uscita di casa e mi sono avventurata per il tratturo che si arrampicava su per la montagna. Mi attiravano i ruderi che rimanevano in piedi nei boschi, mi sembrava che, con i muri di pietra ancora dritti e le finestre e il tetto sfondati, mostrassero meglio l’idea di protezione da cui erano nati. Dopo qualche ora di cammino ho raggiunto una casa diroccata. Avevo visto quel rudere tre volte in tutto, ci passavamo quando mamma, nelle camminate infinite per le mulattiere e i sentieri che diventavano sempre più ripidi, mi portava a trovare nonna Tinuzza nel villaggio di taglialegna e cacciatori in cui era nata, sopra Lorica, sul Monte Botte Donato. Lì la miseria era ancora più nera che in paese.
«Ma non ci sono i padruni!» gracchiava nonna, piccola e raggrinzita come una larva di falena. Aveva ragione: in montagna i padroni non ci arrivavano, e nonostante la povertà si viveva col cuore più leggero.
Iniziava a imbrunire. Poco dopo ha preso a gocciolare, poi a piovere forte, i lampi squarciavano il cielo, le tenebre avanzavano.
Allora sono stata afferrata da un terrore sconosciuto. Mi ero cacciata in qualcosa di più grande di me, il bosco adesso era un mostro gigantesco che mi avvolgeva da ogni lato col suo manto nero, avevo sbagliato a partire e non sapevo che fare. Quanto tempo avrei resistito da sola, senza mamma e papà? Dove credevo di andare? La paura mi bloccava le gambe.
«Aiuto!» ho gridato alla radura. Solo qualche nibbio ha scrollato le ali e si è spostato su un ramo un poco più in là. «Papà... Aiuto!»
Ma papà non poteva sentirmi.
Fuori della vecchia casa c’era un forno di pietra intatto. Mi sono fatta coraggio, mi sono arrampicata, mi sono infilata, e poco dopo ho preso sonno.
La mattina, all’alba, il bosco brillava di una luce argentata e viva, come un grande serpente di metallo. Avevo fame, e avevo sete. Mi sono guardata attorno, sono andata in cerca di qualcosa da mangiare, ma non c’era niente. Non sapevo come fare, il cielo era nero e minacciava pioggia. Se fossi rimasta nel bosco sarei morta. Potevo solo incamminarmi sulla via da cui ero venuta, e ammettere di avere sbagliato.
Quando sono arrivata a casa, prima dell’ora di pranzo, papà ha cominciato a gridare.
«Che fine avevi fatto, eh? Ho perso una mattina di lavoro, ti abbiamo cercata per tutta la valle. Se il padrone mi caccia la colpa è tua.»
«Ero nel bosco.»
«Nel bosco?» Mi ha guardata come si guarda un matto. «Questa è nata libera» ha detto a nessuno in particolare. «Tiene la testa storta.» Poi si è rivolto a mamma. «È da te che ha preso, chissa figghia strana.»
Quando diceva queste cose guardava sempre l’edicola votiva, che dentro aveva la statuetta della patrona di Casole, santa Marina Vergine di Bitinia, una monaca che si era tagliata i capelli e aveva vissuto tutta la vita in un convento maschile, fingendosi uomo, finché non era morta, accusata di un crimine che non aveva commesso. Per i casolesi, santa Marina era l’immagine del sacrificio che le donne dovevano compiere di fronte ai loro uomini. Per lui santa Marina doveva essere mamma. Dovevo essere io. Ma io non avevo intenzione di sacrificarmi per niente e per nessuno, e la verità era che finché stavo in quella casa non ero libera neppure di decidere del mio destino, perché ero povera. Proprio come loro.
«Non ho preso da mamma» ho risposto. «Ho preso da nonna Tinuzza.»
Papà mi ha picchiata. La libertà a casa nostra non esisteva, era una cosa da signori, o da pazzi. Io però ho indurito il sedere, ho starnutito apposta per fargli capire che l’umidità mi faceva più male delle sue botte e ho fatto come se niente fosse. Allora mamma mi ha chiamata con un mezzo sorriso, poi ha guardato il vestito sporco di terra.
«Vieni qua che lo laviamo» ha detto.
Ma mamma e papà, per queste cose, erano l’opposto.
Papà era nato per prendersi cura della terra, aveva mani grosse e callose e polpacci magri da pianura, il viso bruciato da trent’anni di sole feroce e grinzoso come l’argilla del bosco. «Spàgnati du riccu impovirutu e du povero arriccutu», non ti fidare né del ricco impoverito né del povero arricchito, diceva sempre: per lui tutto doveva continuare com’era, anche se com’era faciva schifu. Era un grande lavoratore, aveva sopportato trent’anni di mesate non pagate, di botte e di minacce, trent’anni di chiamate “a mese” e, alla fine di ogni mese, le stesse preghiere, le stesse febbri, gli stessi litigi con mamma, le stesse tragedie; ma superava tutto, e tornava a lavorare più di prima, due, tre giorni di fila senza mai fermarsi. Il suo padrone, il “cappello” Donato Morelli, lo chiamava il Mulo.
Mamma era il contrario, era fatta per il bosco e per la Sila, dove aveva vissuto fino al matrimonio. «Cu pecura si faci, u lupu s’a mangia», chi si fa pecora il lupo se lo mangia, diceva, anche se è proprio guardando i suoi occhi rassegnati di fronte alle crinoline e alle gonne di mussola d’India della contessa Gullo, la sua padrona, che ho imparato a scappare. Per lei, l’ordine e il mondo erano solo cose che il bosco lasciava fuori: tutto aveva un cuore misterioso che al sole appassiva come l’uva spina, a Dio credeva come vendetta per i buoni, dopo la morte, ed era silenziosa. Quando facevamo il gioco degli alberi preferiti sceglieva sempre l’abete bianco, un albero che in tutta la vita non vedeva mai la luce, con la corteccia morbida e umida che non era buona per scaldare, in inverno.
Papà invece preferiva i larici duri con cui si fabbricano le case, le cose che il tempo fa fatica a distruggere, come la masseria dei Morelli. Per lui le parole dovevano essere tante, era l’unica cosa che gli restava di una vita di ricchezza che invidiava ai signori. «L’acciaio» diceva papà, gustando in bocca il suono. Lo guardavo di nascosto, e cercavo di capire il segreto di quella parola che gli faceva socchiudere gli occh...

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