Da bambina mi ero messa in testa di andare in cerca della sorella maggiore che a casa con noi non câera mai stata. Eravamo sei fratelli, ma lâunica traccia di nostra sorella Teresa erano i cinque trattini bassi di fianco a una T tracciata col lapis sul muro del camino, dove papĂ , ogni anno, al compleanno di ognuno, misurava quanto eravamo cresciuti.
Di lei a casa era vietato parlare, mamma e papĂ la nominavano raramente, la domenica o alle feste comandate, quando sulla tavola câera un poâ di vino o quando qualcuno in paese distillava lâacquavite e gliene portava un quarto.
Raffaele, mio fratello grande, non ci credeva che esistesse; Salvo, il mediano, sÏ. Papà ne accennava brillo e sognante, la sera, alla luce fioca del lume a petrolio, e poi negava, e mamma diceva: «Zitto, citu, statti zitto». Le si bagnavano gli occhi, cosa che non succedeva mai, iniziava a guardare il soffitto e poi senza accorgersene cercava i contorni delle montagne fuori dalla finestra, e sorrideva, da sola. «Citu, non dire niente, ca poi li picciuliddri parlano, e nel paese sembriamo sbafanti. Che ci diamo le arie» zittiva papà .
Che quella sorella esisteva davvero lo sapevo soltanto io, era stata mamma a dirmelo, una domenica sera di pioggia battente, prendendomi da parte e baciandomi in testa, e facendomi giurare di non dirlo a nessuno, nemmeno ai fratelli. «Mariâ, presto te ne andrai» aveva detto con occhi lucidi. «Pure tu avrai tutto quello che ha lei.»
Quella frase mi aveva sconvolta. Da allora avevo vissuto come in due mondi separati. Da un lato câera una vita nuova, misteriosa e spaventosa, che mi immaginavo piena di ricchezze, insieme alla sorella sconosciuta; dallâaltro la mia famiglia, il paese e la casa in cui ero vissuta fino a quel momento. Ma io facevo finta che niente fosse vero, che le parole di mamma fossero unâinvenzione, che tutto sarebbe rimasto per sempre comâera.
Vincenzina, che aveva tre anni meno di me, dopo ogni festa veniva a coricarsi nel mio letto, di fianco al suo, nella stessa stanza dove mangiavamo e cucinavamo. Lâodore della minestra era dentro i vestiti, nei cuscini, tra i capelli. Lâacqua che evaporava dalla pentola sulla stufa aveva macchiato il soffitto, cadevano gocce, Raffaele e Salvo giocavano a chi le prendeva al volo. Dallâaltra parte, vicini al camino, accostati al muro câerano i materassi dei fratelli; Angelino, che aveva solo un anno, invece dormiva nella camera da letto insieme a mamma e papĂ .
Vivevamo nella casa di Vico I dei Bruzi a Casole, sulla collina della Presila, ai piedi dei monti, una casa costruita attorno a un camino, con grandi pietre angolari a proteggerci. Era la casa del padre di nostro nonno, la porta aveva la forma di un arco, e a me sembrava la casa piĂč bella del mondo. Allâinizio la stanza era una sola, quella che si apriva dietro era ancora la stalla per gli animali, poi nonno Biaggio, da cui papĂ aveva preso il nome, aveva eliminato le poche vacche e le capre dopo che si erano ammalate tutte, e lui e i figli maschi avevano trasformato la stalla in una camera da letto. Da allora la famiglia si era data alla terra, e aveva cominciato a lavorare per i Morelli.
Ă stato cosĂŹ che siamo diventati braccianti, dipendenti dai capricci dei âcappelliâ; non avere spazio era lâultimo dei problemi. Era quando alla fine del mese non câera da mangiare che la fame faceva sentire le sue ragioni, soprattutto quelle di Raffaele, il grande. Ma non ci pensavamo, nessuno di noi ci pensava, per evitare di diventare matti. Non pensavamo che faticavamo giorno e notte, non pensavamo che i âcappelliâ recintavano tutto col filo spinato â terre, boschi e pascoli pubblici â e mettevano a guardia cani ferocissimi, vietando a noi braccianti di fare un poâ di legna, spigolare dopo il raccolto, acciuffare una manciata di funghi rositi e di castagne, cacciare una quagliarella in un bosco, o pescare uno spinarello al fiume. Noi non ci pensavamo. Digerivamo la nostra stessa fame e la mattina ci svegliavamo ricordandoci che la dignitĂ â «La dignitĂ !» ripeteva papĂ â, quella non dovevamo farcela strappare mai da nessuno.
Vincenza saltava sul mio materasso di lana caprina, si coricava su un fianco e si metteva testa a testa con me, le piaceva fare il gioco delle ciglia che si toccavano.
«Mariâ, ma secondo te a tenimo sta sorella grande?»
«SÏ» rispondevo.
«Pure io u penzu. E tiene tanta ricchizza?»
«à straricca.»
«E pecchĂŹ se nâĂš andata?»
«Ca Ú troppo ricca e sta casa la faci schifu.»
«E pecchÏ la faci schifu?»
Ogni volta inventavo qualcosa di diverso. «Ca quella tiene u bagnu e noi qua tenimo ancora u cantaturu.» Indicavo la secchia di metallo accanto alla porta della camera da letto. A Vincenza la notte non serviva, aveva quattro anni ma ogni tanto se la faceva ancora addosso, e se non metteva il pannetto di teli di lino con le spille da balia bagnava il letto. «A iddra le piace appoggiarsi le cosce quannu faci a pisciazza, cosĂŹ non si faci vidiri da lu maritu suo!» le sussurravo nellâorecchio. Avevamo sentito mamma dire che un giovane ricchissimo lâaveva chiesta in sposa, e da quel giorno avevamo preso a fantasticarci su. Vincenzina allora rideva forte, si tappava la bocca con le mani e smettevamo di parlarne, io mi addormentavo col suo fiato dentro il mio.
Una mattina di marzo Ăš arrivato un telegramma.
Poche parole che anche mamma, da sola, Ăš riuscita a leggere. Il pomeriggio, dopo la scuola, mi ha presa da parte, e mentre le indicava col dito tremante me le sussurrava allâorecchio:
«Preparate bambina. Telegraferemo per concordare vostro invio a Napoli per corriera. Noi partiamo ora, pronti per adozione. Conte Tommaso e moglie.»
Mamma mi ha guardata con una luce incantata negli occhi. «Avrai dei genitori nuovi. Ricchi» ha detto. «E starai coâ tua sorella.»
Vincenzina si era accorta che stava succedendo qualcosa di strano e, nascosta in un angolo buio, ci fissava. Nel suo sguardo câera il terrore di rimanere sola. Dâimprovviso ha starnutito, per il freddo delle pareti. Allora mi sono strappata da mamma e sono corsa ad abbracciarla. Vibrava. Non lâavrei lasciata, mai, per niente al mondo. «StarĂČ sempre con te» le ho promesso, stringendola. «Io e te, sempre.»
Lei da sotto mi guardava con occhi enormi e gonfi. «Va bene» diceva, mentre faceva sÏ con la testa e tirava su col naso.
Ma nei giorni successivi le parole di quel telegramma continuavano a rimbombarmi nelle orecchie. Adozione. Nuovi genitori. Sarei stata ricca. Avrei conosciuto la sorella misteriosa. Avrei visto Napoli, la capitale. Erano tutte cose che volevo, ma allo stesso tempo mi atterrivano.
Ma era lâinizio del 1848, quellâanno, incredibilmente, di neve non ne era caduto nemmeno un fiocco, e cosĂŹ, come per lo stesso prodigio, sembrava che ogni cosa dovesse cambiare: che da Milano a Napoli, a Palermo stessero arrivando rivolte che ci avrebbero liberati tutti, cominciando proprio da me.
Anche papĂ , che ogni sera tornava con la schiena spezzata e davanti alla minestra di cavolo e cicorie scrollava la testa â «La fatiga Ăš a rarici i morta», la fatica Ăš la radice della morte, diceva â, anche lui aveva cambiato umore, e per la prima volta era ottimista. Guardava lâedicola con lâincenso e santa Marina di Bitinia, e sembrava credere a una vita senza il trotto del mulo, il soffiare delle bestie, gli scarti, gli stronfi e il battere ritmico delle catene contro le bardelle; o almeno a una vita in cui tutto questo potesse essere, finalmente, suo.
Io ho guardato fuori dalla finestra.
In lontananza câera la montagna, piĂč in lĂ câera il bosco di Colla della Vacca. Sarei scappata lĂŹ, solo lĂŹ câera la salvezza. Se non mi fossi fatta trovare per un poâ, non avrebbero potuto darmi ad altri genitori.
CosĂŹ, trasportata dallâazzĂŹu, sono uscita di casa e mi sono avventurata per il tratturo che si arrampicava su per la montagna. Mi attiravano i ruderi che rimanevano in piedi nei boschi, mi sembrava che, con i muri di pietra ancora dritti e le finestre e il tetto sfondati, mostrassero meglio lâidea di protezione da cui erano nati. Dopo qualche ora di cammino ho raggiunto una casa diroccata. Avevo visto quel rudere tre volte in tutto, ci passavamo quando mamma, nelle camminate infinite per le mulattiere e i sentieri che diventavano sempre piĂč ripidi, mi portava a trovare nonna Tinuzza nel villaggio di taglialegna e cacciatori in cui era nata, sopra Lorica, sul Monte Botte Donato. LĂŹ la miseria era ancora piĂč nera che in paese.
«Ma non ci sono i padruni!» gracchiava nonna, piccola e raggrinzita come una larva di falena. Aveva ragione: in montagna i padroni non ci arrivavano, e nonostante la povertĂ si viveva col cuore piĂč leggero.
Iniziava a imbrunire. Poco dopo ha preso a gocciolare, poi a piovere forte, i lampi squarciavano il cielo, le tenebre avanzavano.
Allora sono stata afferrata da un terrore sconosciuto. Mi ero cacciata in qualcosa di piĂč grande di me, il bosco adesso era un mostro gigantesco che mi avvolgeva da ogni lato col suo manto nero, avevo sbagliato a partire e non sapevo che fare. Quanto tempo avrei resistito da sola, senza mamma e papĂ ? Dove credevo di andare? La paura mi bloccava le gambe.
«Aiuto!» ho gridato alla radura. Solo qualche nibbio ha scrollato le ali e si Ăš spostato su un ramo un poco piĂč in lĂ . «PapĂ ... Aiuto!»
Ma papĂ non poteva sentirmi.
Fuori della vecchia casa câera un forno di pietra intatto. Mi sono fatta coraggio, mi sono arrampicata, mi sono infilata, e poco dopo ho preso sonno.
La mattina, allâalba, il bosco brillava di una luce argentata e viva, come un grande serpente di metallo. Avevo fame, e avevo sete. Mi sono guardata attorno, sono andata in cerca di qualcosa da mangiare, ma non câera niente. Non sapevo come fare, il cielo era nero e minacciava pioggia. Se fossi rimasta nel bosco sarei morta. Potevo solo incamminarmi sulla via da cui ero venuta, e ammettere di avere sbagliato.
Quando sono arrivata a casa, prima dellâora di pranzo, papĂ ha cominciato a gridare.
«Che fine avevi fatto, eh? Ho perso una mattina di lavoro, ti abbiamo cercata per tutta la valle. Se il padrone mi caccia la colpa Ú tua.»
«Ero nel bosco.»
«Nel bosco?» Mi ha guardata come si guarda un matto. «Questa Ú nata libera» ha detto a nessuno in particolare. «Tiene la testa storta.» Poi si Ú rivolto a mamma. «à da te che ha preso, chissa figghia strana.»
Quando diceva queste cose guardava sempre lâedicola votiva, che dentro aveva la statuetta della patrona di Casole, santa Marina Vergine di Bitinia, una monaca che si era tagliata i capelli e aveva vissuto tutta la vita in un convento maschile, fingendosi uomo, finchĂ© non era morta, accusata di un crimine che non aveva commesso. Per i casolesi, santa Marina era lâimmagine del sacrificio che le donne dovevano compiere di fronte ai loro uomini. Per lui santa Marina doveva essere mamma. Dovevo essere io. Ma io non avevo intenzione di sacrificarmi per niente e per nessuno, e la veritĂ era che finchĂ© stavo in quella casa non ero libera neppure di decidere del mio destino, perchĂ© ero povera. Proprio come loro.
«Non ho preso da mamma» ho risposto. «Ho preso da nonna Tinuzza.»
PapĂ mi ha picchiata. La libertĂ a casa nostra non esisteva, era una cosa da signori, o da pazzi. Io perĂČ ho indurito il sedere, ho starnutito apposta per fargli capire che lâumiditĂ mi faceva piĂč male delle sue botte e ho fatto come se niente fosse. Allora mamma mi ha chiamata con un mezzo sorriso, poi ha guardato il vestito sporco di terra.
«Vieni qua che lo laviamo» ha detto.
Ma mamma e papĂ , per queste cose, erano lâopposto.
PapĂ era nato per prendersi cura della terra, aveva mani grosse e callose e polpacci magri da pianura, il viso bruciato da trentâanni di sole feroce e grinzoso come lâargilla del bosco. «SpĂ gnati du riccu impovirutu e du povero arriccutu», non ti fidare nĂ© del ricco impoverito nĂ© del povero arricchito, diceva sempre: per lui tutto doveva continuare comâera, anche se comâera faciva schifu. Era un grande lavoratore, aveva sopportato trentâanni di mesate non pagate, di botte e di minacce, trentâanni di chiamate âa meseâ e, alla fine di ogni mese, le stesse preghiere, le stesse febbri, gli stessi litigi con mamma, le stesse tragedie; ma superava tutto, e tornava a lavorare piĂč di prima, due, tre giorni di fila senza mai fermarsi. Il suo padrone, il âcappelloâ Donato Morelli, lo chiamava il Mulo.
Mamma era il contrario, era fatta per il bosco e per la Sila, dove aveva vissuto fino al matrimonio. «Cu pecura si faci, u lupu sâa mangia», chi si fa pecora il lupo se lo mangia, diceva, anche se Ăš proprio guardando i suoi occhi rassegnati di fronte alle crinoline e alle gonne di mussola dâIndia della contessa Gullo, la sua padrona, che ho imparato a scappare. Per lei, lâordine e il mondo erano solo cose che il bosco lasciava fuori: tutto aveva un cuore misterioso che al sole appassiva come lâuva spina, a Dio credeva come vendetta per i buoni, dopo la morte, ed era silenziosa. Quando facevamo il gioco degli alberi preferiti sceglieva sempre lâabete bianco, un albero che in tutta la vita non vedeva mai la luce, con la corteccia morbida e umida che non era buona per scaldare, in inverno.
PapĂ invece preferiva i larici duri con cui si fabbricano le case, le cose che il tempo fa fatica a distruggere, come la masseria dei Morelli. Per lui le parole dovevano essere tante, era lâunica cosa che gli restava di una vita di ricchezza che invidiava ai signori. «Lâacciaio» diceva papĂ , gustando in bocca il suono. Lo guardavo di nascosto, e cercavo di capire il segreto di quella parola che gli faceva socchiudere gli occh...