Succede sempre qualcosa di meraviglioso
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Succede sempre qualcosa di meraviglioso

Gianluca Gotto

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Succede sempre qualcosa di meraviglioso

Gianluca Gotto

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Succede sempre qualcosa di meraviglioso è il racconto di un viaggio che ha come protagonista Davide, un ragazzo che vede tutte le sue certezze crollare una dopo l'altra, fino a perdere il desiderio di vivere. E Guilly, un personaggio fuori dal tempo che Davide, per caso o per destino, incontra in Vietnam e da cui apprende un modo alternativo e pieno di luce di prendere la vita.

Una storia di rinascita in cui perdersi per ritrovarsi, che Gianluca Gotto racconta portando il tema della ricerca della felicità - già affrontato nell'autobiografia Le coordinate della felicità - su un piano universale: la destinazione finale di questo viaggio non è conquistare un certo tipo di vita, ma uno stato d'animo. Una sensazione di calore che è sempre dentro di noi, indipendentemente da quello che il destino ci ha riservato. Potremmo chiamarla in tanti modi: serenità, pace interiore, leggerezza, calma. Oppure, come direbbe Guilly, "la sensazione di essere a casa, sempre".

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Information

Publisher
Mondadori
Year
2021
ISBN
9788835707547

1

Il nonno chiamava sempre lo stesso giorno, sempre alla stessa ora. Alle ventuno in punto di ogni domenica sera, sul telefono di casa, e io e mamma sapevamo che non poteva essere nessun altro.
«Eccolo» esclamava lei. «Puntuale come un orologio svizzero.» A volte alzava anche gli occhi al cielo nel dirlo, ma la sua era solo una recita. Dietro quel suo modo di fare riuscivo a intravedere un certo sollievo: quello di chi sa che qualcuno la cerca, sempre e comunque, ma anche quello di una donna adulta, vicina ai cinquanta, che può ancora contare sul padre.
Il telefono non arrivava al terzo squillo. «Ciao, papà» diceva lei afferrando la cornetta. Non c’era bisogno di dire: “Pronto?”, né di chiedere chi fosse. Era solo il nonno, che si rifiutava di imparare a usare il cellulare, a chiamare ancora sul numero di casa.
Mentre loro parlavano del più e del meno, io me ne stavo a tavola, davanti ai cartoni freddi e secchi della pizza, altro rituale della domenica sera. A volte provavo ad ascoltare cosa si dicevano, più spesso ingannavo il tempo al cellulare in attesa della “staffetta”: dopo cinque, massimo dieci minuti, mia madre mi avrebbe chiamato e a quel punto mi sarei spostato dalla cucina, con le sue pareti bianche che riflettevano la forte luce del lampadario e il gracchiare inascoltato della televisione in sottofondo, al soggiorno buio e silenzioso.
Io e il nonno ci vedevamo poco perché lui viveva in campagna, fuori città, e ci volevano quaranta minuti in auto per raggiungere la sua casa. Questa, in realtà, era solo la giustificazione che io e la mamma usavamo quando ci sentivamo in colpa perché era passato troppo tempo dall’ultima volta che eravamo andati a trovarlo. Il vero motivo era che, di tempo, non ne avevamo mai abbastanza. Mia madre era molto impegnata con il suo lavoro, io con l’università prima e con lo stage poi. In un modo o nell’altro, tornavamo a casa ogni giorno a pomeriggio inoltrato ed eravamo troppo stanchi per salire in auto.
Questo il nonno non ce lo aveva mai fatto pesare. Anzi, quasi si scusava per aver scelto di restare a vivere fuori città, ma diceva sempre che per lui quella casa era “più di quattro fredde pareti”. Quando poi andavamo a trovarlo, sembrava sinceramente dispiaciuto per il tempo che ci aveva fatto perdere. E ogni volta, per ringraziarci, cucinava qualcosa per noi. Avevamo provato a convincerlo tante volte a prendere una pizza d’asporto, così che non dovesse mettersi ai fornelli, ma lui era irremovibile: ci diceva, con un sorriso, che era solo un piacere. Ed era impossibile non credergli. Ogni volta lo osservavo ammirato: preparare un pranzo o una cena per la figlia e il nipote era inusuale per un uomo della sua età e della sua generazione, eppure lo faceva con grande naturalezza e con una evidente gioia.
«Avere le persone che ami al tuo stesso tavolo significa avere tutto» aveva commentato una volta mentre tagliava una cipolla.
Ci vedevamo poco, ma il legame tra me e il nonno era forte. E quella telefonata della domenica sera era sacra. Lo era anche perché, quando sei figlio di genitori divorziati, e le due persone che fin da bambino rappresentavano per te l’idea di amore si odiano al punto di desiderare soltanto di stare il più lontano possibile, è molto difficile avere dei punti di riferimento stabili. O anche solo credere che possano esistere.
I miei genitori si erano separati quando avevo quindici anni, dopo due anni di litigate e silenzi assordanti. Da allora, la mia esistenza era cambiata per sempre. Ed era cambiata anche la mia visione delle piccole cose della vita. Quelle che, quando le hai, le dai per scontate e, quando non le hai più, ti fanno soffrire. E allora, forse, tanto piccole non erano.
Quando i tuoi genitori si lasciano, tu non hai più una casa, ne hai due. Due armadi dove tenere i tuoi vestiti, due letti in cui dormire, due cucine dove fare colazione, pranzo e cena, due bagni in cui guardarti allo specchio ogni mattina. All’inizio, come per tutto ciò che è nuovo, ti sembra un’avventura. Poi diventa un fastidio. Alla fine, è solo stressante. Ti chiedi se fosse proprio necessario arrivare fino a quel punto.
I tuoi genitori vanno avanti con la loro vita e tu hai l’impressione che ti abbiano lasciato un po’ indietro, anche se si impegnano a farti credere il contrario. Oppure si sforzano di portarti con sé, ma allora ti senti un peso. Nella loro quotidianità arrivano altre persone, e quindi anche nella tua. Persone che conosci e con cui ti sforzi di andare d’accordo. Poi, magari, spariscono così come sono arrivate, e tu non ne sei né felice né infelice. La tua unica certezza è che ci sono sempre delle novità all’orizzonte: spostamenti, nuove abitudini, prospettive un tempo impensabili.
In questa situazione che cambia continuamente è facile sentirsi persi. Io ero fortunato, perlomeno avevo il nonno. Con la sua telefonata della domenica sera e quel suo modo indefinibile di essere presente anche senza dirlo, era come una boa sempre ben visibile in un mare di incertezza.
Gli volevo bene, certamente, ma provavo anche una profonda stima nei suoi confronti. Non solo perché, nonostante l’età e qualche acciacco, era ancora un uomo forte, che amava passeggiare in montagna e andare in bicicletta. Non solo perché era una persona interessata e interessante, curiosa e attiva. Non solo perché parlava poco ma sorrideva tanto, e spesso usava il sorriso per rispondere, come se non ci fosse nulla da aggiungere. A volte mi sembrava di sentirlo, quel suo sorriso, anche se eravamo al telefono e non potevo vederlo.
Il motivo per cui lo rispettavo e lo ammiravo così tanto era un altro e riguardava una storia di cui nessuno, in famiglia, parlava volentieri.
Il nonno era vedovo da una decina di anni, una situazione già tragica di per sé, ma resa anche beffarda dal tempismo con cui la morte si era presentata nella sua vita: due settimane prima di andare in pensione, mia nonna era mancata nel sonno a causa di un problema congenito al cuore di cui nessuno era a conoscenza.
Perdere un proprio caro è già doloroso, ma perderlo a un passo dalla libertà della pensione è straziante. Mio nonno si sarebbe ritrovato ad avere tutto il tempo di questo mondo, ma senza nessuno con cui condividerlo. Tutti quanti, in famiglia, temevamo che non si sarebbe più ripreso, specialmente dopo averlo visto, al funerale, in lacrime e quasi incapace di reggersi in piedi. Un uomo distrutto. Mio padre lo aveva sorretto per tutta la funzione. Quando poi si era accasciato sulla bara chiusa, credo che ognuno dei presenti aveva pensato la stessa cosa: “Come potrà mai andare avanti?”. Una domanda che ne innescava una seconda, terribile: “Quanto tempo passerà prima del suo, di funerale?”.
E invece successe qualcosa di inaspettato. Innanzitutto il nonno decise di continuare a lavorare per altri sei mesi. Quelle sue trasferte, lunghe e lontane, ci apparvero come un tentativo di non pensare, di rifiutare il lutto. Continuava a sembrarci un uomo distrutto e impossibile da aiutare, perché completamente chiuso in se stesso e nel suo dolore. Tutti eravamo preoccupati per lui, ma poi, al rientro dall’ennesimo viaggio di lavoro all’estero, era diventato un uomo nuovo. Non c’era più traccia di tristezza sul suo volto, non era più disperato. Ogni suo atteggiamento, ogni suo gesto erano ora pieni di amore. Nessuno di noi, in famiglia, era in grado di spiegare cosa gli fosse successo, ma il cambiamento era evidente.
Il nonno annunciò che aveva deciso di andare in pensione. Da quel momento divenne un punto di riferimento per tutti quanti, perché si prendeva cura di ognuno di noi. Sembrava quasi che la sua nuova missione di vita fosse quella di tenere unita la famiglia, un’impresa difficile dopo il divorzio dei miei genitori.
In qualche modo era riuscito a lasciarsi la sofferenza alle spalle e ripartire, con un incredibile ottimismo, trasformandosi sempre più nel collante della nostra famiglia. Nonostante quel crudele scherzo del destino, non aveva sfogato la sua frustrazione sugli altri, divenendo una persona carica di odio e rancore. Al contrario, non aveva mai una parola di rabbia o una cattiveria per nessuno.
Divenne più presente che mai. Telefonava, si preoccupava, ci aiutava nelle piccole cose, e soprattutto ci ascoltava. Tuttavia, era come se celasse una ferita ancora aperta dentro di sé, e ogni domenica sera rifiutava con gentilezza qualsiasi mio tentativo di spostare l’attenzione verso il suo lato della cornetta. Voleva che fossi io a parlare, lui ascoltava e basta. Non c’era alcuna possibilità che condividesse con me quello che aveva dentro. E più insistevo, più lui si chiudeva, così mi ero messo il cuore in pace e avevo smesso di provarci.
Da una parte era davvero un’autodifesa, dall’altra lui sapeva ascoltare gli altri nel modo che appartiene solo a coloro che amano ascoltare gli altri. E questa è una dote rara.
Intorno a me avevo sempre individuato due tipi di persone: quelle che non appena ti apri un po’ ti sovrastano con le loro sentenze spacciate per innocue opinioni; e quelle che restano in silenzio ma non ti ascoltano. Veri e propri muri contro cui le tue parole rimbalzano senza alcuna possibilità di passare dall’altra parte.
Poi c’era il nonno, che stava in silenzio per concentrarsi totalmente su ciò che dicevo io. Non gli sfuggiva un dettaglio e, se non capiva un concetto, una parola o il senso di una mia riflessione, mi chiedeva di ripeterglieli. Gli volevo bene anche per questo.
Possedeva un’empatia rara, quella che ti porta a preoccuparti per gli altri invece di pensare costantemente a quanto la vita sia stata ingiusta con te. Avresti tutto il diritto di lamentarti, deprimerti e cadere nel più totale vittimismo, e invece non lo fai. Solo le persone davvero sensibili ci riescono, perché questo significa andare oltre la propria sofferenza per non diventare ciechi dinnanzi a quella altrui.
Il nonno era una di queste persone. Forse è proprio questo il motivo per cui fu il primo ad accorgersi della mia depressione.

2

Ci sono momenti in cui tutto va esattamente come lo immaginavi. La vita segue il solco tracciato dalle tue speranze e aspettative come un fiume in piena, apparentemente inarrestabile. A volte ti fermi, te ne rendi conto e sei felice per questo. Dentro di te, nel profondo, una vocina dice qualcosa che non sogneresti mai di esprimere ad alta voce: “Te lo meriti. Te lo meriti, cazzo, perché hai sempre fatto del tuo meglio. Non sei un fenomeno, non sei un predestinato, non hai ambizioni fuori dal comune, però hai sempre fatto del tuo meglio. Ti sei impegnato affinché tutto andasse in un certo modo e, ora che sta succedendo, ti sembra giusto. Semplicemente giusto”.
Mi sentivo così il giorno del mio venticinquesimo compleanno. La mia ragazza mi aveva organizzato una festa a sorpresa, c’erano tutti i miei amici, si beveva, si mangiava, si rideva. Si era felici e io, in un momento in cui mi trovai solo, senza nessuno da salutare o ringraziare, sorrisi pensando che tutto stava andando alla perfezione. Tutto.
Ero in salute, amavo tenermi in forma. Giocavo a basket in una piccola squadra amatoriale, mi allenavo una volta ogni due giorni. E tra amici e parenti ero da tempo rinomato per la mia fame, quella fame tipica delle persone piene di vita, che si mangerebbero il mondo intero.
Lavoravo come stagista (retribuito) in un prestigioso studio di architettura della mia città, dove tutto faceva pensare che avrei avuto una lunga carriera di successo, perché mi impegnavo ogni giorno come se non esistesse nient’altro e i miei sforzi erano riconosciuti. Un giorno, tre mesi circa dopo il mio arrivo, il proprietario dello studio mi aveva convocato nel suo ufficio per dirmi che al termine dei sei mesi dello stage mi avrebbero assunto con un contratto a tempo indeterminato. Mi aveva stretto la mano, come a suggellare una promessa che a suo dire si sarebbe realizzata “al 99 per cento”. Per me, lavorare stabilmente lì avrebbe significato arrivare, farcela, ammirare il panorama dalla cima della montagna. Dopo cinque anni di liceo artistico, altrettanti di università, sei mesi di stage e migliaia di ore a disegnare e progettare per conto mio, non c’era altro a cui potevo ambire.
Alle spalle avevo una famiglia la cui unità era stata crepata dal divorzio dei miei genitori, ma su cui potevo comunque contare. Mia madre avrebbe fatto di tutto per me, era forse fin troppo apprensiva, ma rappresentava certamente un pilastro. Su mio padre potevo contare un po’ meno, dal momento che si era fatto una nuova famiglia dopo la separazione e ora aveva due figli piccoli. Per quanto si sforzasse, ora le sue attenzioni erano inevitabilmente rivolte altrove. Ma ero più fortunato di altri, io almeno un padre lo avevo. E poi c’era il nonno, una presenza leggera ma costante, con quella sua telefonata della domenica sera e la preziosa sicurezza che riusciva a trasmettermi: «Per qualsiasi problema, ci sono qua io, Davide» mi diceva spesso.
C’erano gli amici, ovviamente. La mia vera forza, però, era Valentina. Ci eravamo conosciuti sui banchi di scuola alle medie, poi le nostre strade si erano separate e alla fine, durante il liceo, ci eravamo ritrovati. E l’amicizia fanciullesca era diventata amore, una storia che era cresciuta col tempo. Sette anni, per la precisione. La amavo perché con lei mi sentivo al sicuro. Bastava che guardassimo un film insieme e per me la giornata era un’ottima giornata, bastava sentirla prima di andare a dormire per dormire bene. Mi bastava pensare al futuro insieme per sorridere. Era troppo presto per dire che fosse la donna della mia vita, ma certamente potevo dire di non volere nessun’altra.
Quando avevo iniziato lo stage, avevamo parlato di andare a convivere. Lei abitava con i suoi genitori, io con mia madre, e alla nostra età sentivamo forte il bisogno di indipendenza, ma anche, dopo tanto tempo, quello di portare la nostra relazione a un altro livello. Visto che lei aveva già un lavoro a tempo indeterminato nel settore commerciale di una grande multinazionale, tra il suo stipendio e quello che avrei percepito io avremmo potuto permetterci l’affitto di un posto piccolo, ma nostro. Non vedevo l’ora che arrivasse quel momento, era forse questa l’unica cosa a mancare nella mia vita.
Eppure quando mi invitarono a spegnere le candeline ed esprimere un desiderio, la sera del mio compleanno, a questo non ci pensai nemmeno. In fondo la convivenza non dovevo chiederla a qualcuno, dipendeva da noi. Di ciò che era al di fuori del mio controllo, però, non c’era davvero nulla che potessi desiderare. Alla fine, quando soffiai sulle candeline, chiesi semplicemente che tutto restasse così, poco prima che anche l’ultima fiammella diventasse una riga di fumo nell’aria.
Commisi un grave errore. Forse l’universo si offese per la scarsa considerazione che diedi a quella possibilità. O forse volle semplicemente farmi capire, con le cattive, che tutto cambia, sempre, e che gli avevo solo fatto perdere tempo desiderando qualcosa di impossibile. Forse non fu niente di tutto ciò.
L’unica certezza che ho è che, da quel momento, andò tutto a rotoli.

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