Il nonno chiamava sempre lo stesso giorno, sempre alla stessa ora. Alle ventuno in punto di ogni domenica sera, sul telefono di casa, e io e mamma sapevamo che non poteva essere nessun altro.
«Eccolo» esclamava lei. «Puntuale come un orologio svizzero.» A volte alzava anche gli occhi al cielo nel dirlo, ma la sua era solo una recita. Dietro quel suo modo di fare riuscivo a intravedere un certo sollievo: quello di chi sa che qualcuno la cerca, sempre e comunque, ma anche quello di una donna adulta, vicina ai cinquanta, che puĂČ ancora contare sul padre.
Il telefono non arrivava al terzo squillo. «Ciao, papà » diceva lei afferrando la cornetta. Non câera bisogno di dire: âPronto?â, nĂ© di chiedere chi fosse. Era solo il nonno, che si rifiutava di imparare a usare il cellulare, a chiamare ancora sul numero di casa.
Mentre loro parlavano del piĂč e del meno, io me ne stavo a tavola, davanti ai cartoni freddi e secchi della pizza, altro rituale della domenica sera. A volte provavo ad ascoltare cosa si dicevano, piĂč spesso ingannavo il tempo al cellulare in attesa della âstaffettaâ: dopo cinque, massimo dieci minuti, mia madre mi avrebbe chiamato e a quel punto mi sarei spostato dalla cucina, con le sue pareti bianche che riflettevano la forte luce del lampadario e il gracchiare inascoltato della televisione in sottofondo, al soggiorno buio e silenzioso.
Io e il nonno ci vedevamo poco perchĂ© lui viveva in campagna, fuori cittĂ , e ci volevano quaranta minuti in auto per raggiungere la sua casa. Questa, in realtĂ , era solo la giustificazione che io e la mamma usavamo quando ci sentivamo in colpa perchĂ© era passato troppo tempo dallâultima volta che eravamo andati a trovarlo. Il vero motivo era che, di tempo, non ne avevamo mai abbastanza. Mia madre era molto impegnata con il suo lavoro, io con lâuniversitĂ prima e con lo stage poi. In un modo o nellâaltro, tornavamo a casa ogni giorno a pomeriggio inoltrato ed eravamo troppo stanchi per salire in auto.
Questo il nonno non ce lo aveva mai fatto pesare. Anzi, quasi si scusava per aver scelto di restare a vivere fuori cittĂ , ma diceva sempre che per lui quella casa era âpiĂč di quattro fredde paretiâ. Quando poi andavamo a trovarlo, sembrava sinceramente dispiaciuto per il tempo che ci aveva fatto perdere. E ogni volta, per ringraziarci, cucinava qualcosa per noi. Avevamo provato a convincerlo tante volte a prendere una pizza dâasporto, cosĂŹ che non dovesse mettersi ai fornelli, ma lui era irremovibile: ci diceva, con un sorriso, che era solo un piacere. Ed era impossibile non credergli. Ogni volta lo osservavo ammirato: preparare un pranzo o una cena per la figlia e il nipote era inusuale per un uomo della sua etĂ e della sua generazione, eppure lo faceva con grande naturalezza e con una evidente gioia.
«Avere le persone che ami al tuo stesso tavolo significa avere tutto» aveva commentato una volta mentre tagliava una cipolla.
Ci vedevamo poco, ma il legame tra me e il nonno era forte. E quella telefonata della domenica sera era sacra. Lo era anche perchĂ©, quando sei figlio di genitori divorziati, e le due persone che fin da bambino rappresentavano per te lâidea di amore si odiano al punto di desiderare soltanto di stare il piĂč lontano possibile, Ăš molto difficile avere dei punti di riferimento stabili. O anche solo credere che possano esistere.
I miei genitori si erano separati quando avevo quindici anni, dopo due anni di litigate e silenzi assordanti. Da allora, la mia esistenza era cambiata per sempre. Ed era cambiata anche la mia visione delle piccole cose della vita. Quelle che, quando le hai, le dai per scontate e, quando non le hai piĂč, ti fanno soffrire. E allora, forse, tanto piccole non erano.
Quando i tuoi genitori si lasciano, tu non hai piĂč una casa, ne hai due. Due armadi dove tenere i tuoi vestiti, due letti in cui dormire, due cucine dove fare colazione, pranzo e cena, due bagni in cui guardarti allo specchio ogni mattina. Allâinizio, come per tutto ciĂČ che Ăš nuovo, ti sembra unâavventura. Poi diventa un fastidio. Alla fine, Ăš solo stressante. Ti chiedi se fosse proprio necessario arrivare fino a quel punto.
I tuoi genitori vanno avanti con la loro vita e tu hai lâimpressione che ti abbiano lasciato un poâ indietro, anche se si impegnano a farti credere il contrario. Oppure si sforzano di portarti con sĂ©, ma allora ti senti un peso. Nella loro quotidianitĂ arrivano altre persone, e quindi anche nella tua. Persone che conosci e con cui ti sforzi di andare dâaccordo. Poi, magari, spariscono cosĂŹ come sono arrivate, e tu non ne sei nĂ© felice nĂ© infelice. La tua unica certezza Ăš che ci sono sempre delle novitĂ allâorizzonte: spostamenti, nuove abitudini, prospettive un tempo impensabili.
In questa situazione che cambia continuamente Ăš facile sentirsi persi. Io ero fortunato, perlomeno avevo il nonno. Con la sua telefonata della domenica sera e quel suo modo indefinibile di essere presente anche senza dirlo, era come una boa sempre ben visibile in un mare di incertezza.
Gli volevo bene, certamente, ma provavo anche una profonda stima nei suoi confronti. Non solo perchĂ©, nonostante lâetĂ e qualche acciacco, era ancora un uomo forte, che amava passeggiare in montagna e andare in bicicletta. Non solo perchĂ© era una persona interessata e interessante, curiosa e attiva. Non solo perchĂ© parlava poco ma sorrideva tanto, e spesso usava il sorriso per rispondere, come se non ci fosse nulla da aggiungere. A volte mi sembrava di sentirlo, quel suo sorriso, anche se eravamo al telefono e non potevo vederlo.
Il motivo per cui lo rispettavo e lo ammiravo cosĂŹ tanto era un altro e riguardava una storia di cui nessuno, in famiglia, parlava volentieri.
Il nonno era vedovo da una decina di anni, una situazione già tragica di per sé, ma resa anche beffarda dal tempismo con cui la morte si era presentata nella sua vita: due settimane prima di andare in pensione, mia nonna era mancata nel sonno a causa di un problema congenito al cuore di cui nessuno era a conoscenza.
Perdere un proprio caro Ăš giĂ doloroso, ma perderlo a un passo dalla libertĂ della pensione Ăš straziante. Mio nonno si sarebbe ritrovato ad avere tutto il tempo di questo mondo, ma senza nessuno con cui condividerlo. Tutti quanti, in famiglia, temevamo che non si sarebbe piĂč ripreso, specialmente dopo averlo visto, al funerale, in lacrime e quasi incapace di reggersi in piedi. Un uomo distrutto. Mio padre lo aveva sorretto per tutta la funzione. Quando poi si era accasciato sulla bara chiusa, credo che ognuno dei presenti aveva pensato la stessa cosa: âCome potrĂ mai andare avanti?â. Una domanda che ne innescava una seconda, terribile: âQuanto tempo passerĂ prima del suo, di funerale?â.
E invece successe qualcosa di inaspettato. Innanzitutto il nonno decise di continuare a lavorare per altri sei mesi. Quelle sue trasferte, lunghe e lontane, ci apparvero come un tentativo di non pensare, di rifiutare il lutto. Continuava a sembrarci un uomo distrutto e impossibile da aiutare, perchĂ© completamente chiuso in se stesso e nel suo dolore. Tutti eravamo preoccupati per lui, ma poi, al rientro dallâennesimo viaggio di lavoro allâestero, era diventato un uomo nuovo. Non câera piĂč traccia di tristezza sul suo volto, non era piĂč disperato. Ogni suo atteggiamento, ogni suo gesto erano ora pieni di amore. Nessuno di noi, in famiglia, era in grado di spiegare cosa gli fosse successo, ma il cambiamento era evidente.
Il nonno annunciĂČ che aveva deciso di andare in pensione. Da quel momento divenne un punto di riferimento per tutti quanti, perchĂ© si prendeva cura di ognuno di noi. Sembrava quasi che la sua nuova missione di vita fosse quella di tenere unita la famiglia, unâimpresa difficile dopo il divorzio dei miei genitori.
In qualche modo era riuscito a lasciarsi la sofferenza alle spalle e ripartire, con un incredibile ottimismo, trasformandosi sempre piĂč nel collante della nostra famiglia. Nonostante quel crudele scherzo del destino, non aveva sfogato la sua frustrazione sugli altri, divenendo una persona carica di odio e rancore. Al contrario, non aveva mai una parola di rabbia o una cattiveria per nessuno.
Divenne piĂč presente che mai. Telefonava, si preoccupava, ci aiutava nelle piccole cose, e soprattutto ci ascoltava. Tuttavia, era come se celasse una ferita ancora aperta dentro di sĂ©, e ogni domenica sera rifiutava con gentilezza qualsiasi mio tentativo di spostare lâattenzione verso il suo lato della cornetta. Voleva che fossi io a parlare, lui ascoltava e basta. Non câera alcuna possibilitĂ che condividesse con me quello che aveva dentro. E piĂč insistevo, piĂč lui si chiudeva, cosĂŹ mi ero messo il cuore in pace e avevo smesso di provarci.
Da una parte era davvero unâautodifesa, dallâaltra lui sapeva ascoltare gli altri nel modo che appartiene solo a coloro che amano ascoltare gli altri. E questa Ăš una dote rara.
Intorno a me avevo sempre individuato due tipi di persone: quelle che non appena ti apri un poâ ti sovrastano con le loro sentenze spacciate per innocue opinioni; e quelle che restano in silenzio ma non ti ascoltano. Veri e propri muri contro cui le tue parole rimbalzano senza alcuna possibilitĂ di passare dallâaltra parte.
Poi câera il nonno, che stava in silenzio per concentrarsi totalmente su ciĂČ che dicevo io. Non gli sfuggiva un dettaglio e, se non capiva un concetto, una parola o il senso di una mia riflessione, mi chiedeva di ripeterglieli. Gli volevo bene anche per questo.
Possedeva unâempatia rara, quella che ti porta a preoccuparti per gli altri invece di pensare costantemente a quanto la vita sia stata ingiusta con te. Avresti tutto il diritto di lamentarti, deprimerti e cadere nel piĂč totale vittimismo, e invece non lo fai. Solo le persone davvero sensibili ci riescono, perchĂ© questo significa andare oltre la propria sofferenza per non diventare ciechi dinnanzi a quella altrui.
Il nonno era una di queste persone. Forse Ăš proprio questo il motivo per cui fu il primo ad accorgersi della mia depressione.
Ci sono momenti in cui tutto va esattamente come lo immaginavi. La vita segue il solco tracciato dalle tue speranze e aspettative come un fiume in piena, apparentemente inarrestabile. A volte ti fermi, te ne rendi conto e sei felice per questo. Dentro di te, nel profondo, una vocina dice qualcosa che non sogneresti mai di esprimere ad alta voce: âTe lo meriti. Te lo meriti, cazzo, perchĂ© hai sempre fatto del tuo meglio. Non sei un fenomeno, non sei un predestinato, non hai ambizioni fuori dal comune, perĂČ hai sempre fatto del tuo meglio. Ti sei impegnato affinchĂ© tutto andasse in un certo modo e, ora che sta succedendo, ti sembra giusto. Semplicemente giustoâ.
Mi sentivo cosĂŹ il giorno del mio venticinquesimo compleanno. La mia ragazza mi aveva organizzato una festa a sorpresa, câerano tutti i miei amici, si beveva, si mangiava, si rideva. Si era felici e io, in un momento in cui mi trovai solo, senza nessuno da salutare o ringraziare, sorrisi pensando che tutto stava andando alla perfezione. Tutto.
Ero in salute, amavo tenermi in forma. Giocavo a basket in una piccola squadra amatoriale, mi allenavo una volta ogni due giorni. E tra amici e parenti ero da tempo rinomato per la mia fame, quella fame tipica delle persone piene di vita, che si mangerebbero il mondo intero.
Lavoravo come stagista (retribuito) in un prestigioso studio di architettura della mia cittĂ , dove tutto faceva pensare che avrei avuto una lunga carriera di successo, perchĂ© mi impegnavo ogni giorno come se non esistesse nientâaltro e i miei sforzi erano riconosciuti. Un giorno, tre mesi circa dopo il mio arrivo, il proprietario dello studio mi aveva convocato nel suo ufficio per dirmi che al termine dei sei mesi dello stage mi avrebbero assunto con un contratto a tempo indeterminato. Mi aveva stretto la mano, come a suggellare una promessa che a suo dire si sarebbe realizzata âal 99 per centoâ. Per me, lavorare stabilmente lĂŹ avrebbe significato arrivare, farcela, ammirare il panorama dalla cima della montagna. Dopo cinque anni di liceo artistico, altrettanti di universitĂ , sei mesi di stage e migliaia di ore a disegnare e progettare per conto mio, non câera altro a cui potevo ambire.
Alle spalle avevo una famiglia la cui unitĂ era stata crepata dal divorzio dei miei genitori, ma su cui potevo comunque contare. Mia madre avrebbe fatto di tutto per me, era forse fin troppo apprensiva, ma rappresentava certamente un pilastro. Su mio padre potevo contare un poâ meno, dal momento che si era fatto una nuova famiglia dopo la separazione e ora aveva due figli piccoli. Per quanto si sforzasse, ora le sue attenzioni erano inevitabilmente rivolte altrove. Ma ero piĂč fortunato di altri, io almeno un padre lo avevo. E poi câera il nonno, una presenza leggera ma costante, con quella sua telefonata della domenica sera e la preziosa sicurezza che riusciva a trasmettermi: «Per qualsiasi problema, ci sono qua io, Davide» mi diceva spesso.
Câerano gli amici, ovviamente. La mia vera forza, perĂČ, era Valentina. Ci eravamo conosciuti sui banchi di scuola alle medie, poi le nostre strade si erano separate e alla fine, durante il liceo, ci eravamo ritrovati. E lâamicizia fanciullesca era diventata amore, una storia che era cresciuta col tempo. Sette anni, per la precisione. La amavo perchĂ© con lei mi sentivo al sicuro. Bastava che guardassimo un film insieme e per me la giornata era unâottima giornata, bastava sentirla prima di andare a dormire per dormire bene. Mi bastava pensare al futuro insieme per sorridere. Era troppo presto per dire che fosse la donna della mia vita, ma certamente potevo dire di non volere nessunâaltra.
Quando avevo iniziato lo stage, avevamo parlato di andare a convivere. Lei abitava con i suoi genitori, io con mia madre, e alla nostra etĂ sentivamo forte il bisogno di indipendenza, ma anche, dopo tanto tempo, quello di portare la nostra relazione a un altro livello. Visto che lei aveva giĂ un lavoro a tempo indeterminato nel settore commerciale di una grande multinazionale, tra il suo stipendio e quello che avrei percepito io avremmo potuto permetterci lâaffitto di un posto piccolo, ma nostro. Non vedevo lâora che arrivasse quel momento, era forse questa lâunica cosa a mancare nella mia vita.
Eppure quando mi invitarono a spegnere le candeline ed esprimere un desiderio, la sera del mio compleanno, a questo non ci pensai nemmeno. In fondo la convivenza non dovevo chiederla a qualcuno, dipendeva da noi. Di ciĂČ che era al di fuori del mio controllo, perĂČ, non câera davvero nulla che potessi desiderare. Alla fine, quando soffiai sulle candeline, chiesi semplicemente che tutto restasse cosĂŹ, poco prima che anche lâultima fiammella diventasse una riga di fumo nellâaria.
Commisi un grave errore. Forse lâuniverso si offese per la scarsa considerazione che diedi a quella possibilitĂ . O forse volle semplicemente farmi capire, con le cattive, che tutto cambia, sempre, e che gli avevo solo fatto perdere tempo desiderando qualcosa di impossibile. Forse non fu niente di tutto ciĂČ.
Lâunica certezza che ho Ăš che, da quel momento, andĂČ tutto a rotoli.