Storia della guerra fredda
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Storia della guerra fredda

L'ultimo conflitto per l'Europa

Federico Romero

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Storia della guerra fredda

L'ultimo conflitto per l'Europa

Federico Romero

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Ormai sono passati vent'anni da quel breve autunno di esaltazione e stupore in cui, con spettacolare e apparente repentinità, i sistemi comunisti dell'Europa dell'Est crollarono fra la polvere e i calcinacci del Muro di Berlino. Gorbacëv aveva rinunciato a usare la forza per arginare la crisi storica del comunismo e i popoli dell'Est si liberavano di regimi tanto invisi quanto ormai incapaci di sopravvivere senza e contro l'Occidente. L'impero sovietico costruito da Stalin non c'era piú. Con esso svaniva la divisione dell'Europa in due blocchi contrapposti. Il progetto comunista di un'alternativa radicale al capitalismo occidentale aveva finito per rovesciarsi nel suo opposto. Un Occidente enormemente piú efficiente e creativo aveva dispiegato una ben maggiore forza di innovazione e attrazione globale, rinchiudendo il colosso del socialismo sovietico in uno spazio angusto senza futuro.
Ma quale fu il lungo percorso che portò a questo esito? E quale la genesi del conflitto che ha disegnato i lineamenti del mondo contemporaneo? Oggi è finalmente possibile rispondere a queste domande con la documentazione dei protagonisti e il distacco dello storico. Nessuno voleva una guerra fredda, nessuno l'aveva pianificata e nessuno dei protagonisti l'aveva davvero prevista, per lo meno nelle forme rigide che poi assunse. Ciò che si andava delineando nei mesi conclusivi della Seconda guerra mondiale era un'inedita geografia di potenza in cui Stati Uniti e Unione Sovietica primeggiavano... Gli assunti ideologici e i paradigmi culturali dei protagonisti ebbero un ruolo determinante: additavano la direzione in cui ciascuno intendeva procedere, ed erano le lenti attraverso cui si giudicavano le mosse altrui, si tentava di indovinare le possibili concatenazioni di eventi futuri, si soppesavano i pericoli evidenti o potenziali. L'URSS di Stalin non poteva concepire la coesistenza internazionale se non in chiave intrinsecamente conflittuale. Il governo degli Stati Uniti, insieme a larga parte delle élite europee, si convinse che una ferma contrapposizione ai sovietici fosse la via piú efficace, e meno pericolosa, per promuovere interessi, ideali e identità di una coalizione occidentale che prese a definirsi come «mondo libero».
Fu allora che la guerra fredda prese forma.

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Information

Publisher
EINAUDI
Year
2014
ISBN
9788858417270

Capitolo sesto

Il cerchio si chiude, 1981-1990

All’inizio del 1983 l’intera rete spionistica del KGB nei paesi occidentali fu messa in allerta con l’ordine di scoprire ogni segnale, ogni minimo indizio di eventuali preparativi per un attacco nucleare a sorpresa contro l’URSS. Non vi era alcuna intenzione cosí sconsiderata, a Washington o altrove, ma la politica antisovietica dell’amministrazione Reagan stava spaventando il Cremlino, attizzandone la paranoia. L’Operazione RJAN impegnò l’intelligence sovietica fino al novembre del 1983, quando un’esercitazione della NATO elevò i timori di Mosca al parossismo. Fu in quel momento che culminò la paura – piuttosto diffusa anche nel pubblico occidentale – di un esito catastrofico della «seconda guerra fredda». Neppure tre anni dopo, tuttavia, il presidente americano Ronald Reagan e il nuovo segretario del PCUS Michail Gorbačëv discutevano dell’abolizione di tutte le armi nucleari, aprendo una stagione di travolgenti cambiamenti che in altri tre anni mise fine alla guerra fredda.
In quest’altalenante variazione di prospettive è racchiuso l’andamento sorprendente di un decennio ancora difficile da interpretare, sia per la grandezza dei suoi repentini mutamenti sia per l’enorme divario tra le aspettative dei contemporanei e le interpretazioni retrospettive che sono oggi divenute senso comune. Non si tratta solo della generalizzata incapacità di prevedere il tracollo dell’impero sovietico e la fine pacifica dell’antagonismo bipolare. Negli anni Ottanta le ansie per il crescente deficit americano e la formidabile ascesa economica del Giappone alimentavano diffuse diagnosi sulla decadenza degli Stati Uniti. L’idea che l’URSS tentasse di riformarsi suscitava non solo speranze ma anche timori. E ancora alla vigilia del 1989 ebbe grande autorità e risonanza un pronostico di declino di entrambe le superpotenze1.
Gli anni Ottanta risultano insomma sfocati dalla patina d’ineluttabilità stesa loro addosso dal legittimo ma sproporzionato trionfalismo occidentale degli anni successivi. Vanno perciò decodificati con attenzione, cercando di rispondere a quesiti che sfuggono a responsi netti e unilaterali. C’è un cospicuo consenso sulle dinamiche economiche che misero l’URSS di fronte alle sue tragiche disfunzionalità proprio mentre l’Occidente trovava nuovi meccanismi di crescita e modalità d’innovazione. Ma i giudizi politici sono assai piú controversi.
Fu l’intransigente, articolata offensiva antisovietica della prima amministrazione Reagan a mettere l’URSS in ginocchio, forzandola infine alla resa? O risultò assai piú determinante la successiva svolta antinucleare del presidente americano, che poté cosí dialogare fattivamente con i nuovi dirigenti sovietici facilitandone l’abbandono della strategia dell’antagonismo?2. E le scelte di Gorbačëv – figura centrale e decisiva – originarono da una realistica valutazione della crisi storica dell’URSS, a cui egli rispose con la nozione di sicurezza condivisa? O non contribuirono piuttosto ad approfondire irrimediabilmente quella crisi in nome di un «progetto morale globale»3, di un nuovo messianesimo assai piú pacifico ma non meno illusorio?
È invece indiscutibile che la guerra fredda tornò a vertere decisamente sul suo baricentro europeo. E trovò lí la sua soluzione quando la rinuncia dei vertici sovietici alla dottrina della lotta di classe internazionale, e la conseguente ritirata dalla strategia di dominio imperiale, consentirono finalmente di sciogliere i nodi intorno a cui il conflitto bipolare era sorto: l’indipendenza di una Polonia democratica; la portata dell’influenza sovietica nell’Europa centro-orientale; la sovranità, unità e collocazione internazionale della Germania.
Con due cospicue differenze rispetto al 1945. La prima fu rappresentata dal protagonismo dei cittadini dell’Europa centro-orientale, che a Varsavia come poi a Lipsia, Praga e Berlino riuscirono finalmente ad avere voce, riappropriarsi della propria sovranità ed esercitare quindi un ruolo attivo nel promuovere il trapasso dai regimi comunisti a sistemi democratici. La seconda concerneva il contesto globale, che non fungeva solo da cornice a questi cambiamenti europei ma era fattore cruciale per la loro realizzabilità. Nell’arco di quarant’anni, infatti, il progetto sovietico di un’alternativa radicale – e potenzialmente mondiale – al capitalismo occidentale aveva finito per rovesciarsi nel suo opposto. Un capitalismo immensamente piú efficiente aveva dispiegato una ben maggior forza di attrazione globale e trasformazione innovativa, finendo per racchiudere il socialismo sovietico in uno spazio angusto senza futuro. Il contenimento aveva dunque funzionato proprio nella sua originaria accezione storico-politica, e ben al di là dei confini immaginati dal suo ideatore. Il merito storico di Gorbačëv fu di scegliere di rinunciare alla forza per uscire dal vicolo cieco del comunismo sovietico.
1. «La controrivoluzione avanza su ogni fronte».
«Abbiamo ogni diritto di fare sogni eroici», proclamava Ronald Reagan entrando alla Casa Bianca. La sua promessa di «un’America forte e prospera» – liberata dalla sfiducia che egli imputava alla cultura liberal – era in primo luogo un programma economico. Deregolamentare i mercati, remunerare gli investimenti e favorire l’iniziativa imprenditoriale erano i capisaldi della trionfante dottrina liberista che contrapponeva l’individuo allo stato: «lo stato non è la soluzione dei nostri problemi, lo stato è il problema». Fiducia e ottimismo – tratti fondamentali del suo carattere e della cultura neoconservatrice – erano però anche leve essenziali di una strategia internazionale che mirava a dissolvere ogni fatalistica rassegnazione alla potenza dello stato sovietico: «nessun arsenale […] è tanto potente quanto la volontà e il coraggio morale delle donne e degli uomini liberi»4.
Il suo primo bersaglio era la psicologia della distensione che, ormai tramontata nei suoi aspetti operativi e simbolici, andava archiviata anche nel suo assunto essenziale: quella legittimazione dell’URSS come interlocutore paritario che i neoconservatori, e Reagan in particolare, rigettavano in termini sia morali che strategici. Il punto è che per loro essa non era neppure una necessità, perché il loro sentire era agli antipodi del pessimismo kissingeriano. Detestavano il comunismo sovietico ma non lo temevano piú come forza ideologica, perché lo ritenevano fallito come sistema organizzativo e sempre piú apertamente ripudiato dai popoli. Invece del declino dell’Occidente intravedevano la possibilità di un suo trionfo storico, perché confidavano nel dinamismo del mercato, nella modernità tecnologica e nella superiore attrazione dell’individualismo. Avevano soprattutto una fede incrollabile nell’unicità storica e nella superiorità morale dell’America, un’«isola di libertà» eretta dalla «divina provvidenza» – secondo Reagan – a «rifugio per tutti i popoli del mondo che anelano a vivere liberamente»5.
Reagan ribaltava perciò sul comunismo sovietico quell’aura di vulnerabilità e obsolescenza storica che molti avevano in precedenza attribuito all’Occidente e in particolare agli Stati Uniti. «Siamo ottimisti, – proclamò al Parlamento britannico, – perché giorno dopo giorno la democrazia sta mostrando di essere un fiore tutt’altro che fragile» mentre il «sistema totalitario ha suscitato nell’umanità una rivolta dell’intelletto e della volontà». Alla «rovina dell’esperimento sovietico» Reagan contrapponeva «la marcia della libertà e della democrazia che lascerà il marxismo-leninismo nella pattumiera della storia»6.
La sua offensiva retorica si nutriva della convinzione di vivere alle soglie di una «svolta epocale», che avrebbe deciso «per le generazioni a venire se tutta l’umanità diverrà comunista o se il mondo intero riuscirà a essere libero». E mirava perciò a cambiare sia la dinamica che la rappresentazione pubblica dell’antagonismo bipolare. Al posto dell’odiata distensione, Reagan immaginava una battaglia politica e ideologica a 360º in cui la forza dell’Occidente avrebbe trionfato: «L’Occidente non conterrà il comunismo, lo trascenderà […] come un bizzarro capitolo della storia umana di cui si stanno ormai scrivendo le ultime pagine»7.
La strategia che doveva sostenere questa visione si compendiava per l’amministrazione Reagan in due mete, complementari e intrecciate: accrescere la forza dell’America, riconquistando un vantaggio strategico e diplomatico, e aggravare le difficoltà dell’URSS. Per questo avviarono un intenso programma di ampliamento e modernizzazione delle forze armate. Le spese per la difesa crebbero a ritmi accelerati, anno dopo anno, fino a gonfiare il bilancio militare del 50% tra il 1980 e il 1985. Come percentuale del PIL americano la spesa per la difesa era declinata per un decennio, scendendo sotto al 5% nel 1979-80, ma adesso risaliva fino al 6,5% nel 1985.
Si volevano cosí accumulare le risorse per costringere i sovietici a negoziare, in un futuro imprecisato, da posizioni di inferiorità. E si cercava di ricostruire quell’orgoglio di grande potenza militare che il Vietnam aveva offuscato. Ma nel riarmo – e in genere nello sforzo di rilancio economico e tecnologico del paese – operava anche una nuova aspirazione legata alle palesi difficoltà dell’economia sovietica. La sua incipiente stagnazione avrebbe infatti reso difficile per i dirigenti sovietici imbarcarsi in un nuovo ciclo di prolungato e intenso riarmo. «Conoscono il nostro potenziale industriale e non possono stargli alla pari, – confidava Reagan, – dovranno confrontarsi col fatto che noi potremo spingere a fondo una gara al riarmo in cui non riusciranno a starci dietro»...

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