Allâinizio del 1983 lâintera rete spionistica del KGB nei paesi occidentali fu messa in allerta con lâordine di scoprire ogni segnale, ogni minimo indizio di eventuali preparativi per un attacco nucleare a sorpresa contro lâURSS. Non vi era alcuna intenzione cosĂ sconsiderata, a Washington o altrove, ma la politica antisovietica dellâamministrazione Reagan stava spaventando il Cremlino, attizzandone la paranoia. LâOperazione RJAN impegnĂČ lâintelligence sovietica fino al novembre del 1983, quando unâesercitazione della NATO elevĂČ i timori di Mosca al parossismo. Fu in quel momento che culminĂČ la paura â piuttosto diffusa anche nel pubblico occidentale â di un esito catastrofico della «seconda guerra fredda». Neppure tre anni dopo, tuttavia, il presidente americano Ronald Reagan e il nuovo segretario del PCUS Michail GorbaÄĂ«v discutevano dellâabolizione di tutte le armi nucleari, aprendo una stagione di travolgenti cambiamenti che in altri tre anni mise fine alla guerra fredda.
In questâaltalenante variazione di prospettive Ăš racchiuso lâandamento sorprendente di un decennio ancora difficile da interpretare, sia per la grandezza dei suoi repentini mutamenti sia per lâenorme divario tra le aspettative dei contemporanei e le interpretazioni retrospettive che sono oggi divenute senso comune. Non si tratta solo della generalizzata incapacitĂ di prevedere il tracollo dellâimpero sovietico e la fine pacifica dellâantagonismo bipolare. Negli anni Ottanta le ansie per il crescente deficit americano e la formidabile ascesa economica del Giappone alimentavano diffuse diagnosi sulla decadenza degli Stati Uniti. Lâidea che lâURSS tentasse di riformarsi suscitava non solo speranze ma anche timori. E ancora alla vigilia del 1989 ebbe grande autoritĂ e risonanza un pronostico di declino di entrambe le superpotenze1.
Gli anni Ottanta risultano insomma sfocati dalla patina dâineluttabilitĂ stesa loro addosso dal legittimo ma sproporzionato trionfalismo occidentale degli anni successivi. Vanno perciĂČ decodificati con attenzione, cercando di rispondere a quesiti che sfuggono a responsi netti e unilaterali. CâĂš un cospicuo consenso sulle dinamiche economiche che misero lâURSS di fronte alle sue tragiche disfunzionalitĂ proprio mentre lâOccidente trovava nuovi meccanismi di crescita e modalitĂ dâinnovazione. Ma i giudizi politici sono assai piĂș controversi.
Fu lâintransigente, articolata offensiva antisovietica della prima amministrazione Reagan a mettere lâURSS in ginocchio, forzandola infine alla resa? O risultĂČ assai piĂș determinante la successiva svolta antinucleare del presidente americano, che potĂ© cosĂ dialogare fattivamente con i nuovi dirigenti sovietici facilitandone lâabbandono della strategia dellâantagonismo?2. E le scelte di GorbaÄĂ«v â figura centrale e decisiva â originarono da una realistica valutazione della crisi storica dellâURSS, a cui egli rispose con la nozione di sicurezza condivisa? O non contribuirono piuttosto ad approfondire irrimediabilmente quella crisi in nome di un «progetto morale globale»3, di un nuovo messianesimo assai piĂș pacifico ma non meno illusorio?
Ă invece indiscutibile che la guerra fredda tornĂČ a vertere decisamente sul suo baricentro europeo. E trovĂČ lĂ la sua soluzione quando la rinuncia dei vertici sovietici alla dottrina della lotta di classe internazionale, e la conseguente ritirata dalla strategia di dominio imperiale, consentirono finalmente di sciogliere i nodi intorno a cui il conflitto bipolare era sorto: lâindipendenza di una Polonia democratica; la portata dellâinfluenza sovietica nellâEuropa centro-orientale; la sovranitĂ , unitĂ e collocazione internazionale della Germania.
Con due cospicue differenze rispetto al 1945. La prima fu rappresentata dal protagonismo dei cittadini dellâEuropa centro-orientale, che a Varsavia come poi a Lipsia, Praga e Berlino riuscirono finalmente ad avere voce, riappropriarsi della propria sovranitĂ ed esercitare quindi un ruolo attivo nel promuovere il trapasso dai regimi comunisti a sistemi democratici. La seconda concerneva il contesto globale, che non fungeva solo da cornice a questi cambiamenti europei ma era fattore cruciale per la loro realizzabilitĂ . Nellâarco di quarantâanni, infatti, il progetto sovietico di unâalternativa radicale â e potenzialmente mondiale â al capitalismo occidentale aveva finito per rovesciarsi nel suo opposto. Un capitalismo immensamente piĂș efficiente aveva dispiegato una ben maggior forza di attrazione globale e trasformazione innovativa, finendo per racchiudere il socialismo sovietico in uno spazio angusto senza futuro. Il contenimento aveva dunque funzionato proprio nella sua originaria accezione storico-politica, e ben al di lĂ dei confini immaginati dal suo ideatore. Il merito storico di GorbaÄĂ«v fu di scegliere di rinunciare alla forza per uscire dal vicolo cieco del comunismo sovietico.
1. «La controrivoluzione avanza su ogni fronte».
«Abbiamo ogni diritto di fare sogni eroici», proclamava Ronald Reagan entrando alla Casa Bianca. La sua promessa di «unâAmerica forte e prospera» â liberata dalla sfiducia che egli imputava alla cultura liberal â era in primo luogo un programma economico. Deregolamentare i mercati, remunerare gli investimenti e favorire lâiniziativa imprenditoriale erano i capisaldi della trionfante dottrina liberista che contrapponeva lâindividuo allo stato: «lo stato non Ăš la soluzione dei nostri problemi, lo stato Ăš il problema». Fiducia e ottimismo â tratti fondamentali del suo carattere e della cultura neoconservatrice â erano perĂČ anche leve essenziali di una strategia internazionale che mirava a dissolvere ogni fatalistica rassegnazione alla potenza dello stato sovietico: «nessun arsenale [âŠ] Ăš tanto potente quanto la volontĂ e il coraggio morale delle donne e degli uomini liberi»4.
Il suo primo bersaglio era la psicologia della distensione che, ormai tramontata nei suoi aspetti operativi e simbolici, andava archiviata anche nel suo assunto essenziale: quella legittimazione dellâURSS come interlocutore paritario che i neoconservatori, e Reagan in particolare, rigettavano in termini sia morali che strategici. Il punto Ăš che per loro essa non era neppure una necessitĂ , perchĂ© il loro sentire era agli antipodi del pessimismo kissingeriano. Detestavano il comunismo sovietico ma non lo temevano piĂș come forza ideologica, perchĂ© lo ritenevano fallito come sistema organizzativo e sempre piĂș apertamente ripudiato dai popoli. Invece del declino dellâOccidente intravedevano la possibilitĂ di un suo trionfo storico, perchĂ© confidavano nel dinamismo del mercato, nella modernitĂ tecnologica e nella superiore attrazione dellâindividualismo. Avevano soprattutto una fede incrollabile nellâunicitĂ storica e nella superioritĂ morale dellâAmerica, unâ«isola di libertà » eretta dalla «divina provvidenza» â secondo Reagan â a «rifugio per tutti i popoli del mondo che anelano a vivere liberamente»5.
Reagan ribaltava perciĂČ sul comunismo sovietico quellâaura di vulnerabilitĂ e obsolescenza storica che molti avevano in precedenza attribuito allâOccidente e in particolare agli Stati Uniti. «Siamo ottimisti, â proclamĂČ al Parlamento britannico, â perchĂ© giorno dopo giorno la democrazia sta mostrando di essere un fiore tuttâaltro che fragile» mentre il «sistema totalitario ha suscitato nellâumanitĂ una rivolta dellâintelletto e della volontà ». Alla «rovina dellâesperimento sovietico» Reagan contrapponeva «la marcia della libertĂ e della democrazia che lascerĂ il marxismo-leninismo nella pattumiera della storia»6.
La sua offensiva retorica si nutriva della convinzione di vivere alle soglie di una «svolta epocale», che avrebbe deciso «per le generazioni a venire se tutta lâumanitĂ diverrĂ comunista o se il mondo intero riuscirĂ a essere libero». E mirava perciĂČ a cambiare sia la dinamica che la rappresentazione pubblica dellâantagonismo bipolare. Al posto dellâodiata distensione, Reagan immaginava una battaglia politica e ideologica a 360Âș in cui la forza dellâOccidente avrebbe trionfato: «LâOccidente non conterrĂ il comunismo, lo trascenderĂ [âŠ] come un bizzarro capitolo della storia umana di cui si stanno ormai scrivendo le ultime pagine»7.
La strategia che doveva sostenere questa visione si compendiava per lâamministrazione Reagan in due mete, complementari e intrecciate: accrescere la forza dellâAmerica, riconquistando un vantaggio strategico e diplomatico, e aggravare le difficoltĂ dellâURSS. Per questo avviarono un intenso programma di ampliamento e modernizzazione delle forze armate. Le spese per la difesa crebbero a ritmi accelerati, anno dopo anno, fino a gonfiare il bilancio militare del 50% tra il 1980 e il 1985. Come percentuale del PIL americano la spesa per la difesa era declinata per un decennio, scendendo sotto al 5% nel 1979-80, ma adesso risaliva fino al 6,5% nel 1985.
Si volevano cosĂ accumulare le risorse per costringere i sovietici a negoziare, in un futuro imprecisato, da posizioni di inferioritĂ . E si cercava di ricostruire quellâorgoglio di grande potenza militare che il Vietnam aveva offuscato. Ma nel riarmo â e in genere nello sforzo di rilancio economico e tecnologico del paese â operava anche una nuova aspirazione legata alle palesi difficoltĂ dellâeconomia sovietica. La sua incipiente stagnazione avrebbe infatti reso difficile per i dirigenti sovietici imbarcarsi in un nuovo ciclo di prolungato e intenso riarmo. «Conoscono il nostro potenziale industriale e non possono stargli alla pari, â confidava Reagan, â dovranno confrontarsi col fatto che noi potremo spingere a fondo una gara al riarmo in cui non riusciranno a starci dietro»...