Breve storia del fascismo
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Breve storia del fascismo

Con i due saggi «Il problema della identità nazionale» e «Dall'eredità di Adua all'intervento»

Renzo De Felice

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Breve storia del fascismo

Con i due saggi «Il problema della identità nazionale» e «Dall'eredità di Adua all'intervento»

Renzo De Felice

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Una sintesi completa e aggiornata della storia del Ventennio fascista. Dalla fondazione dei Fasci di combattimento alla marcia su Roma, fino alla caduta del regime e alla Repubblica di Salò. Con stile rigoroso ma cordiale, De Felice rende accessibile una materia complessa e controversa, spesso distorta da interpretazioni di parte e da passioni non ancora spente. I testi, raccolti per la prima volta in volume, sono accompagnati da uno straordinario repertorio di immagini d'epoca. Il libro, frutto di un lavoro decennale di studio e ricerca, restituisce al lettore la lucidità interpretativa di un grande studioso della pagina più nera del Novecento italiano.

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Information

Publisher
Mondadori
Year
2022
ISBN
9788852061103

Breve storia del fascismo

Il primo Mussolini

Un vecchio casolare a Varano dei Costa, nel villaggio di Dovia, frazione del comune di Predappio: qui il 29 luglio 1883, da Alessandro e Rosa Maltoni, nacque Benito Mussolini; e qui visse una infanzia in povertà nella casa paterna. Il giovane Mussolini dal ’92 al ’94 fu nel collegio dei Salesiani di Faenza, anni difficili per un adolescente passato dalla quasi totale libertà di Dovia a una rigida disciplina. Dopo l’influsso paterno, proprio negli anni trascorsi a Forlimpopoli, il giovane Mussolini si sarebbe avvicinato al socialismo militante.
Venne nominato maestro supplente agli inizi del marzo 1902 presso la scuola di Pieve Saliceto (frazione di Gualtieri Emilia, primo comune «rosso» d’Italia). Emigrò poi in Svizzera, spinto a tentar fortuna: «A diciannove anni» confesserà molto più tardi al suo biografo Emil Ludwig «si scrivono versi, e si vuol provare il mondo … A quell’età si è ora entusiasti, ora scoraggiati. Soprattutto si è ribelli».
Dal luglio 1902 al novembre 1904, Mussolini fu in Svizzera; periodo breve, ma importante per la sua formazione, in continuo peregrinare da una città all’altra, nei più diversi lavori occasionali. E in difficoltà con le autorità elvetiche: due espulsioni (con il rischio di essere arrestato al suo arrivo in Italia come renitente alla leva), superate grazie all’aiuto di socialisti, radicali e anarchici del Canton Ticino.
All’intensa attività propagandistica, alla collaborazione ad alcuni periodici (da «L’avvenire del lavoratore» di Losanna al «Proletario» al settimanale sindacalista-rivoluzionario milanese «Avanguardia socialista», diretto da Arturo Labriola e Walter Mocchi) e allo studio presso la facoltà di Scienze sociali di Losanna, si sommò l’esperienza di stretti rapporti con personaggi come Angelica Balabanoff e gruppi di anarchici e sindacalisti rivoluzionari. Per un Mussolini, marxista solo all’acqua di rose, e diffidente di tutte le ideologie (socialismo compreso), il volontarismo dei sindacalisti rivoluzionari avrebbe per certi versi rappresentato la pratica ideale del socialismo.
Nel novembre 1904 Mussolini fece ritorno in Italia, dopo che la condanna come renitente alla leva era caduta in prescrizione in seguito a un’amnistia concessa per la nascita dell’erede al trono. Assegnato a un reggimento bersaglieri, per il suo contegno disciplinato ottenne una dichiarazione di buona condotta.
Dopo una nuova esperienza come maestro elementare a Tolmezzo (non meno negativa della prima), nel febbraio 1908 insegnò francese presso la scuola tecnica di Oneglia: qui diresse il settimanale socialista «La lima» sul quale la polemica anticlericale e contro il riformismo e una maggiore attenzione ai temi culturali avrebbero caratterizzato i suoi interventi.
Nel 1908, Mussolini prese parte a violente agitazioni nel Forlivese tra braccianti e mezzadri. Arrestato e processato, venne condannato a tre mesi di reclusione (ridotti in appello a dodici giorni). Dopo aver collaborato a «Pagine libere» e al repubblicano «Il pensiero romagnolo», Mussolini si trasferì nel febbraio 1909 a Trento, responsabile del Segretariato del lavoro. I contatti con Cesare Battisti e l’assidua lettura del «Leonardo» prima e della «Voce» poi, contribuirono ad affinare la sua preparazione culturale, e la coscienza di un problema nazionale trascurato dai socialisti rivoluzionari. La febbrile attività giornalistica, quella politico-sindacale, i contrasti fra socialisti e cattolici e le dure polemiche soprattutto con «Il Trentino», diretto da Alcide De Gasperi, portarono al suo arresto e all’espulsione, nonostante le proteste di esponenti politici trentini a Vienna e a Innsbruck e le interpellanze presentate a Montecitorio.
Il ritorno in Romagna avrebbe in pratica segnato il suo ingresso ufficiale nell’agone politico. Direttore, nel 1909, di «Lotta di classe» e segretario della Federazione socialista forlivese, si batté soprattutto contro il riformismo («Un grande cadavere» disse «da seppellire per dar vita a un nuovo partito socialista rivoluzionario»); posizione polemica emersa al congresso del partito di Milano (ottobre 1910) esplosa infine nel marzo 1911, per la «salita» di Bissolati al Quirinale per le consultazioni in vista di un’eventuale partecipazione socialista al governo. Il suo ruolo nelle agitazioni contro la guerra di Tripoli e nella mobilitazione e il successivo processo e la condanna (Mussolini a un anno di reclusione, Pietro Nenni a un anno e quindici giorni) lo avrebbero di fatto lanciato alla ribalta della vita politica nazionale.
Alla vigilia del XIII congresso del partito, a Reggio Emilia, Mussolini era quasi uno sconosciuto; inaspettato, dunque, il suo successo personale, cui avrebbero contribuito sia le sue capacità oratorie, sia l’appoggio di leader rivoluzionari. Mussolini agì con estrema abilità anche dietro le quinte dei lavori congressuali, con il risultato di far espellere dal partito «per gravissima offesa allo spirito della dottrina e alla tradizione socialista» i vari Bissolati, Bonomi, Cabrini, Podrecca; risultato che destò entusiastiche reazioni all’estero (dalla Francia alla Germania alla Russia, per bocca dello stesso Lenin).
Dopo una breve collaborazione a «La folla» – organo antimonarchico e anticlericale, antimilitarista e rivoluzionario – nel novembre 1912 Mussolini venne nominato direttore dell’«Avanti!». La violenza dei suoi articoli avrebbe allarmato uomini come Turati e Treves, che nel rivoluzionarismo mussoliniano (e nel successo che andava incontrando presso le masse) lamentavano il perdurare dell’illusione insurrezionista. Ma, arrivato a controllare l’intero partito, Mussolini smorzò i toni, anche in vista delle elezioni politiche, conclusesi con un notevole successo del Partito socialista (quasi un milione di voti e 53 deputati); successo che avrebbe ancor più rafforzato la sua leadership.
Forte anche dell’aumentata diffusione dell’«Avanti!» sotto la sua direzione (nel ’13, tiratura media di 50.000 copie), Mussolini si presentò al congresso di Ancona apertosi il 26 aprile 1914, riscuotendo un vero e proprio trionfo, «esercitando sulle masse rivoluzionarie» così si scrisse in quei giorni «una potenza fascinatrice e trascinatrice … con quella figura d’asceta, quella voce, quel gesto di persona quasi agitata sempre da un incubo». Eppure, la posizione di Mussolini venne messa in discussione per le ripercussioni della «settimana rossa» seguita all’eccidio di Ancona del 7 giugno dello stesso anno, quando la forza pubblica aveva sparato contro i partecipanti a un comizio pacifista, uccidendo due manifestanti. La «settimana rossa» spiazzò tutti i partiti italiani, organizzazioni operaie e Partito socialista compresi, dimostratisi incapaci di controllare le agitazioni popolari. Lo stesso Mussolini avrebbe invitato i lavoratori a desistere dallo sciopero generale, che nei giorni precedenti egli aveva sostenuto (anche per non esserne scavalcato).
Quando la possibilità di un conflitto europeo parve ineluttabile, la posizione di Mussolini non si sarebbe discostata da quella dei socialisti italiani e dell’Internazionale. Abbasso la guerra! si sarebbe intitolato un suo articolo sull’«Avanti!», con l’invito a rispolverare la vecchia parola d’ordine «Non un uomo! Né un soldo!». Gli sviluppi del conflitto – primo fra tutti l’aggressione tedesca al neutrale Belgio – mostrarono ben presto la debolezza della neutralità assoluta. Realtà non sfuggita a un Mussolini che, pur disorientato e ondeggiante, non poteva non rendersi conto che le più consapevoli avanguardie presenti nel Paese stessero volgendo verso una linea politica più realistica. Dal canto loro gli interventisti tentavano di attrarre Mussolini dalla loro parte, per conquistare il consenso delle masse presso le quali egli godeva tanto prestigio. Si trattava, per gli interventisti, di sfruttare i suoi crescenti dubbi, la sua promessa di non provocare rivolte o scioperi in caso di mobilitazione; e quel suo definire i socialisti «simpatizzanti» (e non contrari) in una guerra contro l’Austria.
Il sofferto approdo di Mussolini all’interventismo sarebbe scattato il 18 ottobre 1914 con l’articolo Dalla neutralità assoluta alla neutralità attiva ed operante, sui pericoli che la neutralità assoluta avrebbe comportato per i socialisti, chiamati a prendere atto dell’esistenza dei problemi nazionali e a scegliere tra una politica delle «mani nette» (che li avrebbe condannati all’isolamento) e un’altra che consentisse loro di inserirsi nella vita pubblica del Paese e dello Stato.
Il Partito socialista respinse quell’appello. Mussolini si dimise da direttore dell’«Avanti!» e diede vita a «Il popolo d’Italia», che avrebbe subito conosciuto un successo strepitoso (dalle iniziali 30.000 copie si sarebbero toccate punte di 80.000). La reazione socialista culminò il 24 novembre con la proposta di espellerlo, confermata dalla direzione del partito, nonostante i tentativi della minoranza di opporsi al suo linciaggio morale; nonostante, soprattutto, l’eco delle parole con cui Mussolini stesso aveva riaffermato la propria fede socialista:
Voi credete di perdermi. Voi vi illudete. Voi mi odiate perché mi amate ancora. Sono e rimarrò un socialista … Ci divide una questione che turba tutte le coscienze … Non crediate che io mi separi gaiamente da questa tessera. Strappatemela pure: ma non mi impedirete di essere in prima fila per la causa del socialismo.
Con la fondazione del «Popolo d’Italia» Mussolini aveva compiuto una scelta precisa in chiave rivoluzionaria, vedendo nella guerra la possibilità «levatrice» della rivoluzione; e in questa impostazione egli si sarebbe trovato in compagnia sia degli interventisti rivoluzionari che di quelli democratici, facendo del suo giornale un punto d’incontro.
Su Mussolini in guerra molto è stato scritto, con accenti varianti dall’esaltazione alla denigrazione, quando invece egli si comportò come un buon soldato. Cercò di partire volontario (richiesta inutile dal momento che la sua classe sarebbe stata richiamata in agosto).
Bersagliere, venne ferito gravemente nel ’17 dallo scoppio di un lanciabombe e sarebbe stato promosso caporale per meriti di guerra. «Attività esemplare, qualità battagliere, serenità di mente, incuranza ai disagi, zelo, regolarità nell’adempimento dei suoi doveri, primo in ogni impresa di lavoro e di ardimento» si sarebbe letto – fra l’altro – nel suo fascicolo militare.
Smobilitato nel giugno 1917 per le conseguenze delle ferite, ripresa nel luglio ’17 la direzione del «Popolo d’Italia», Mussolini cercò di assumere una posizione in linea con i gruppi interventisti più coerenti. Ma dopo Caporetto – superato lo choc – Mussolini prese coscienza dell’intrinseca debolezza dell’interventismo in sé, cercando di superarlo nel confuso concetto di «trincerismo» e «combattentismo». Non a caso Trincerocrazia si sarebbe intitolato un articolo, in cui avrebbe delineato lo scontro inevitabile tra «quelli che ci sono stati e quelli che non ci sono stati; quelli che hanno combattuto e quelli che non hanno combattuto; quelli che hanno lavorato e i parassiti».
Non più «quotidiano socialista» ma «quotidiano dei combattenti e dei produttori» sarebbe stato, a partire dal 1º agosto 1918, il sottotitolo del «Popolo d’Italia». Il tentativo di valorizzazione sociale della vittoria con l’articolo Andate incontro al lavoro che torna dalle trincee, apparso il 9 novembre ’18, rifletteva l’illusione di fare dell’interventismo una piattaforma politica di rinnovamento sociale e di competizione col socialismo.
Nell’azione portata avanti verso i reduci, i «trinceristi» e gli ex combattenti, Mussolini avrebbe stretto legami in particolare con i futuristi e gli arditi, ai quali disse:
Io vi ho difeso quando il vigliacco filisteo vi diffamava … Rappresentate la mirabile giovinezza guerriera dell’Italia. Il baleno dei vostri pugnali o lo scrosciare delle vostre bombe farà giustizia di tutti i miserabili che vorrebbero impedire il cammino della più grande Italia.
Allontanandosi dalle illusioni wilsoniane non appena il presidente americano disconobbe i diritti dell’Italia («chiari e legittimi», consacrati da 460.000 morti), Mussolini si sarebbe presentato all’opinione pubblica borghese come uno dei più autorevoli interpreti delle posizioni antirinunciatarie e irredentiste.
In questo quadro si inserisce la fondazione dei Fasci di combattimento; avvenimento passato quasi inosservato (sulla stampa il maggiore rilievo venne dal «Corriere della Sera»); d’altra parte nemmeno Mussolini avrebbe potuto predire un futuro preciso a un movimento in cui avrebbe visto il mezzo per rinnovare, se necessario anche con «metodi rivoluzionari», una vita politica italiana sclerotizzata. Avrebbe scritto in quei giorni:
Noi interventisti siamo i soli che in Italia hanno il diritto di parlare di rivoluzione … Né la parola ci sgomenta come succede al mediocre pauroso che è rimasto col cervello al 1914. Noi abbiamo già fatto la rivoluzione. Nel maggio del 1915.
Cifre alla mano, la riunione del 23 marzo 1919 in piazza San Sepolcro a Milano non può certo considerarsi un successo (300 in tutto i presenti). Più importante, semmai, il quadro degli intervenuti: trinceristi, ex combattenti, interventisti rivoluzionari, futuristi, repubblicani, socialisti riformisti. Milano a parte, i Fasci non avrebbero avuto nel resto della penisola particolare sviluppo; realtà non sfuggita a Mussolini, piuttosto restio a impegnarsi più di tanto nella loro organizzazione, e deciso semmai a puntare al vecchio sogno del blocco delle sinistre interventiste. Solo quando il sogno si confermò tale, solo allora Mussolini si sarebbe acconciato a utilizzare quella modesta base politica per le proprie mire. Né si può certo dire che il programma dei Fasci brillasse per particolare originalità; era molto avanzato sul piano sociale, ma in realtà soltanto sulla carta, non avendo i Fasci la forza necessaria per estendere la loro influenza sulle masse operaie e contadine, né per erodere il fronte socialista (e quasi subito sarebbe apparsa chiara la discrepanza fra la «sinistra» del Fascio di Milano e quella di altri in altre zone del Paese).
Fallimento evidente sin dal 15 aprile 1919, quando l’assalto di fascisti e arditi alla sede milanese dell’«Avanti!» avrebbe di fatto reso incolmabile il solco tra fascisti e socialisti e, soprattutto, tra fascisti e masse proletarie.
Eppure un forte aiuto a Mussolini per tentare di agganciare i partiti e i gruppi della sinistra interventista sarebbe potuto venire dalla situazione internazionale; dall’infelice andamento delle trattative parigine di pace e dalla intransigenza degli alleati, in generale, e di Wilson in particolare, sulla questione di Fiume. Tema capace di far convivere gli interventisti di destra e di sinistra, ricreando, seppure per un breve periodo, la fittizia unità dell’interventismo. Lo stesso Mussolini, in un primo contatto epistolare con D’Annunzio il 1º gennaio 1919, si era dichiarato d’accordo con lui sulla necessità di non lasciar «mutilare» la vittoria.
Nei fatti Mussolini era però prudente nell’impegnarsi troppo con D’Annunzio, e non si fece invischiare più di tanto nella questione fiumana. Qualsiasi altro obiettivo – fosse un allargamento rivoluzionario dell’impresa legionaria o una sua estensione alla Dalmazia – gli sarebbe apparso troppo aleatorio. Di qui un continuo temporeggiare, che non sarebbe sfuggito a D’Annunzio stesso. Al quale rivolse l’invito a rinviare a dopo le elezioni generali di metà novembre qualsiasi tipo di agitazione; a dimostrazione di come ormai Mussolini ragionasse e si muovesse non più come rivoluzionario ma come uomo di Stato e non intendesse arrischiare avventure militari e rivoluzionarie di alcun tipo. Posizione che avrebbe personalmente ribadito al comandante a Fiume, dove egli si recò in volo.
Mussolini gestì così, come volle, i lavori del I congresso dei Fasci di combattimento; occasione per ribadire il suo possibilismo politico e istituzionale («Noi» avrebbe affermato «siamo degli antipregiudizialisti, degli antidottrinari, dei problemisti, dei dinamici; non abbiamo pregiudiziali né monarchiche né repubblicane»). Nel tentare di rilanciare una politica di accordo elettorale con gruppi e movimenti della sinistra interventista – con risultati deludenti –, alle elezioni del novembre 1919 i Fasci si trovarono un po’ dovunque isolati. In alcune circoscrizioni finirono addirittura per non presentarsi, in altre aderirono a coalizioni di destra.
Inevitabile il tracollo elettorale, reso ancor più cocente dal successo del Partito socialista. Situazione critica, sarcasticamente fotografata dall’«Avanti!» del 18 novembre: «Un cadavere in stato di putrefazione fu ripescato stamane nel Naviglio. Pare si tratti di Benito Mussolini». Come se non bastasse, dopo alcune perquisizioni nelle sedi dei Fasci di combattimento e della redazione del «Popolo d’Italia» durante le quali furono sequestrate armi e documenti, egli venne arrestato, rimanendo tuttavia in carcere soltanto per un giorno.
Mussolini cercò di minimizzare l’entità della sconfitta e il successo socialista («Ci sono delle vittorie che schiacciano come le sconfitte» avrebbe scritto sul «Popolo d’Italia». «Queste sotto il peso delle rovine; quelle sotto il peso, talora più ingente, delle responsabilità»); ma i mesi successivi sarebbero stati per lui drammatici.
Gravi difficoltà economiche per il giornale (al punto che pensò di liquidarlo), forti polemiche all’interno dei Fasci; una situazione che avrebbe non poco contribuito al processo di conversione a destra del movimento, tra la fine del ’20 e gli inizi del ’21: allontanamento e defezioni degli elementi di sinistra, sostituiti da altri privi di una vera e propria ideologia (studenti, piccoloborghesi, ex combattenti), come tali più a loro agio in un movimento dall’ideologia confusa e dal vago programma. Dietro quegli «sbandati» si sarebbero avvicinati sempre meno timidamente ai Fasci gruppi sempre più numerosi di «benpensanti». Trasformazione suggellata al congresso del maggio 1920 a Milano, dove l’involuzione (trasparente dalle parole di Mussolini, con la sua rinuncia alla pregiudiziale repubblicana e l’apertura ai valori «tecnici e morali» della borghesia e al Vaticano) provocò critiche e contestazioni. Marinetti, fra tutti, denunciò il progressivo allontanamento dei Fasci dalle masse abbandonando subito, insieme ad altri futuristi, una simile congrega di «passatisti».
Per la scia di polemiche che ne sarebbero scaturite, fu ancora più alto il prezzo pagato sul finire del ’20 con la posizione assunta di fronte al trattato di Rapallo alla conclusione dell’impresa fiumana; posizione che Mussolini avrebbe spiegato in un articolo sul «Popolo d’Italia» come imposta sia dalla situazione internazionale, sia dalla stanchezza morale del Paese; per cui lo stesso «Natale di sangue» fiumano gli sarebbe apparso come «il punto d’incrocio tragico fra la ragion di Stato e la ragione dell’Ideale». Più o meno convincenti siano state le spiegazioni (poco lo furono per D’Annunzio, per molti legionari e per alcuni fascisti), esse dimostrano con quanta duttilità e spregiudicatezza si muovesse Mussolini e chiariscono in fondo come egli fosse riuscito, in meno di un anno, a ribaltare gli effetti della débâcle elettorale, aiutato da contingenze favorevoli: l’atteggiamento di Giolitti nei confronti del fascismo e la vera e propria esplosione del fascismo agrario. A Mussolini era sin troppo chiaro come quello assegnato da Giolitti al movimento fosse un valore strumentale; per quanto riguarda il fascismo agrario, se aveva contribuito a promuovere i Fasci a movimento di portata nazionale, era evidente che i suoi caratteri peculiari poco avevano a che spartire con il fascismo mussoliniano. Quanto questo era dinamico, tanto quello era reazionario, borghese nel senso più gretto della parola.
Sembrò in un primo tempo che Mussolini riuscisse ad affermare la propria autori...

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