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Gianrico Carofiglio

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Gianrico Carofiglio

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Un barone universitario ricco e potente muore all'improvviso; cause naturali, certifica il medico. La figlia però non ci crede e si rivolge a Penelope Spada, ex Pm con un mistero alle spalle e un presente di quieta disperazione. L'indagine, che sulle prime appare senza prospettive, diventa una drammatica resa dei conti con il passato, un appuntamento col destino e con l'inattesa possibilità di cambiarlo. Nelle pieghe di una narrazione tesa fino all'ultima pagina, Gianrico Carofiglio ci consegna un'avventura umana che va ben oltre gli stilemi del genere; e un personaggio epico, dolente, magnifico.

«Carofiglio ci fa capire che, per andare avanti, i suoi personaggi, come tutti, avrebbero sí bisogno di giustizia (che spesso arriva troppo tardi), sí di verità (che spesso è piú d'una), ma soprattutto di perdono».
Vittorio Lingiardi, «Robinson - la Repubblica» «Come la sabbia nella clessidra, la vicenda di Penelope scorre inesorabile verso la resa dei conti, guidata da "una quieta e implacabile entropia in azione". Quieta e implacabile è anche la scrittura di Carofiglio, scarna e precisa come chi sa quanto sia forte il potere delle parole e la responsabilità di usarle».
Raffaella Silipo, «tuttolibri - La Stampa»

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Information

Publisher
EINAUDI
Year
2022
ISBN
9788858438800

1.

Veniva ai giardini sempre di sabato o di domenica. Arrivava nella zona in cui di solito mi alleno, si sedeva su una panchina, non troppo vicina e non troppo lontana dagli attrezzi, tirava fuori un libro e un taccuino dallo zainetto, si metteva a leggere e di tanto in tanto prendeva appunti. Anche se faceva freddo. Qualche volta alzava la testa e si guardava attorno, con un’espressione incuriosita, come si fosse reso conto solo in quel momento di dove si trovava.
Un giorno ci eravamo incrociati e si era fermato ad accarezzare Olivia. Olivia è un bull terrier; non è aggressiva – se non fai una mossa sbagliata con lei o con la sua amica Penelope – però neanche socievole, con gli estranei. Puoi accarezzarla, ti lascia fare, ma ostenta una totale indifferenza. Lo so che sovrappongo a un animale categorie interpretative che vanno bene per le persone (e nemmeno per tutte), eppure mi piace pensare che Olivia, come me, detesti gli atteggiamenti paternalistici e condiscendenti e cerchi di non familiarizzare con chi li adotta.
In ogni caso, il tizio disse buongiorno e si abbassò per accarezzarla, senza chiedere se fosse pericoloso. Le mise una mano sul collo e le sfiorò, con pollice e medio, gli angoli della bocca. Olivia parve deliziata, offrí la gola con voluttà, scodinzolò con forza, lei stessa stupita – suppongo – di ciò che stava accadendo.
– Come si chiama?
Fui sul punto di rispondere: Penelope. Ovviamente lui intendeva il cane.
– Olivia.
– Bel nome. Bellissima lei. Buon allenamento, – disse andandosene.
Da allora ci salutavamo, quasi sempre solo un cenno a distanza.
Anche quella mattina, di domenica: lui sulla panchina con il suo libro, io che mi allenavo con la solita, nevrotica determinazione.
Erano trascorsi forse dieci minuti quando sentii alle mie spalle uno scoppio di grida disperate, ringhi rabbiosi, guaiti. Mi voltai e vidi un groviglio di cani, uno nero sopra, uno bianco sotto; vicino, una donna che urlava e chiedeva aiuto.
Tutto si svolse rapidamente, molto piú rapidamente di quanto ci vuole per descriverlo. Lasciai le parallele su cui mi stavo esercitando, dissi a Olivia, che era legata a un albero, di aspettarmi lí, e mi diressi verso la zuffa, non sapendo bene cosa avrei potuto fare. Camminando cercavo con gli occhi un bastone o un qualsiasi altro oggetto che potesse essermi utile. Poi vidi l’uomo della panchina che mi superava di corsa, afferrava il cane nero per le zampe posteriori, lo sollevava e lo lanciava a un paio di metri di distanza. Il bestione – pareva un corso – ruzzolò in maniera rovinosa e quando si rialzò era come spaesato. L’uomo gli andò vicino, troppo vicino, e cominciò a parlargli sottovoce mentre il cane bianco – in realtà era un dalmata – scappava via inseguito dalla sua padrona in preda a una crisi isterica. Un attimo dopo entrò nel mio campo visivo un signore sulla sessantina che si affrettava verso di noi zoppicando un poco, con un guinzaglio in mano. Il molosso era fermo, sembrava ipnotizzato. Quando infine il suo padrone arrivò – scusandosi con tutti e con nessuno in particolare – si lasciò mettere il guinzaglio e portare via senza opporre resistenza. Nessuno avrebbe creduto fosse lo stesso animale che qualche istante prima stava quasi sbranando il dalmata. Appena i due cani con i rispettivi padroni furono andati via, l’atmosfera, in modo quasi irreale, tornò come prima.
– Mai vista una cosa del genere, – dissi.
– Per separare due cani che si azzuffano, – replicò lui, – ci sono solo due metodi efficaci e relativamente poco rischiosi. Una secchiata d’acqua o quello che ho fatto io.
– E secondo lei è poco rischioso? Non c’è pericolo di essere morsi?
– Se si sa come fare e si agisce senza esitazione è difficile che succeda. Il cane non può morderti, se viene sollevato dalle zampe posteriori, e di regola, dopo, non ha nessuna voglia di ricominciare. Non subito, almeno. La questione cambia se si tratta di un cane addestrato a combattere.
– Per fortuna quel bestione non apparteneva alla categoria.
– Per fortuna, sí.
– Mi è sembrato che lei gli sussurrasse qualcosa.
– Serve a tranquillizzarlo, e a dare il tempo all’altro cane e alla padrona di andarsene. Non importa cosa si dice, ma il tono.
Non aveva proprio l’aria dell’energumeno. Occhiali, statura media, corporatura normale, anzi un po’ magro. Piú il fisico del fondista che quello del lanciatore di peso.
– Ci sa fare con i cani –. Che frase idiota, pensai un attimo dopo. – E comunque ci tengo a precisare che mi capita anche di dire cose piú intelligenti.
– Mi piacciono i cani. Anni fa mi divertivo a addestrarli, adesso ho meno tempo. Il mio è morto da qualche mese.
– Mi spiace.
– Ho sempre consigliato di prendere subito un cucciolo, quando muore un cane molto amato. È la cosa piú giusta da fare: mantiene in equilibrio ed evita di trasformare gli animali in umani, nella nostra testa. Essendo la cosa piú giusta da fare, non l’ho fatta. Ho ragionato, per cosí dire, proprio nel modo che consideravo piú sbagliato negli altri: prendere un cucciolo sarebbe stato un tradimento verso Buck. Piuttosto stupido, eh?
– Buck come il cane de Il richiamo della foresta?
– Sí, esatto. Complimenti, ormai non se lo ricorda piú nessuno.
– Che cane era?
– Un incrocio fra un bovaro del bernese – cioè la razza di Buck nel romanzo – e un pastore belga. A vederlo faceva un po’ paura, invece era buonissimo.
Rimanemmo cosí per qualche secondo. Stavo per chiedergli cosa stesse leggendo, ma temetti che con quella domanda mi sarei mostrata insensibile verso il suo lutto canino.
A quel punto Olivia, che aveva atteso con pazienza, lanciò un singolo, legittimo latrato di frustrazione e protesta. È una ragazza poco loquace: se parla, di solito c’è un buon motivo.
– La chiama, ha ragione. Allora ci vediamo qui uno di questi giorni, – disse lui.
– Ci vediamo, – risposi io.

2.

Quando ricevo i miei clienti (fatico sempre a chiamarli cosí) nel bar di Diego, arrivo in anticipo e faccio due chiacchiere con lui, se non è troppo occupato. Mi ricorda il tempo in cui avevo un lavoro vero. Mi presentavo in procura una mezz’ora prima di ogni impegno – udienza, attività istruttoria, incontri con avvocati – e parlavo un po’ con i miei collaboratori. Era bello. È una delle cose di cui ho nostalgia.
– Ciao Diego.
– Ciao Penny, un po’ che non ti vedo. Tutto bene?
– Tutto bene mi sembra eccessivo. Tu?
Fece un’espressione che non gli era consueta e che non riuscii a decifrare. Mi guardò come se volesse rispondere ma non trovasse le parole. Poi chiese: – Ti serve l’ufficio?
Annuii.
– Qualcosa che non va?
Al bancone c’erano solo due avventori. Diego disse a Maria, la ragazza colombiana che lavorava con lui, che usciva a fumare una sigaretta.
– Che succede? – domandai quando fummo fuori, entrambi con la sigaretta accesa. Faceva freddo, il cielo era grigio e compatto, presto avrebbe cominciato a piovere.
– Ieri siamo stati dal giudice per la separazione.
– Ah, ecco. È arrivato il momento.
Tirò su col naso. Mi guardò con un’espressione avvilita, affranta. Aveva gli occhi lucidi. La gente che piange o che sta per piangere mi mette in imbarazzo. Anche se non c’entro niente, mi sento responsabile, e a me non piace sentirmi responsabile. Gli diedi una goffa pacca sulla spalla.
– Dài, in fondo lo avevate deciso insieme.
– Non ti ho mai raccontato il motivo.
– In effetti, no.
– Sono gay.
Rimasi in silenzio. Fumai.
– Non dire che lo sapevi.
– Va bene, non lo dico.
– Come hai fatto a capirlo? Quando? – mi chiese con un tono in bilico fra lo stupore e il sollievo.
Stavo per rispondere: perché non ci hai mai provato. Ma sarebbe stato fuori luogo, per varie ragioni.
– Non è che ci ho riflettuto in modo particolare. Ho solo immaginato che potevi essere gay. Forse il tipo di attenzioni che hai per me, la tua gentilezza, la capacità di notare certi dettagli. Una cosa infrequente nei maschi eterosessuali. Lo so che è un cliché, però non riesco a essere piú precisa. E non ricordo quando l’ho pensato per la prima volta, ma insomma, ora che me lo dici non mi sorprendo.
– Ti fa effetto?
– Il fatto che tu sia omosessuale o il fatto che ti sei separato da tua moglie?
– Tutte e due le cose.
– Che tu sia omosessuale non mi fa nessun effetto. Che ti sia separato, sí. Mi rendo conto che suona un po’ contraddittorio.
Schiacciò la sigaretta nel posacenere davanti all’ingresso del bar.
– Sei la prima persona cui lo dico. Grazie.
– Grazie perché?
– Non lo so. Mi viene da dire grazie. Di esserci, forse. Di averlo capito, di essere qui a parlare con me.
– Tu quando te ne sei accorto? Di essere omosessuale, intendo.
– Non so bene. Di sicuro un po’ in ritardo. Ho anche fatto un bambino. Adesso, se guardo indietro, mi sembra che fosse chiaro da sempre. Probabilmente rifiutavo, non avevo il coraggio di accettarlo.
– Capita spesso. Ci diciamo le bugie perché quello che implicherebbe riconoscere la realtà ci appare insopportabile. Poi non lo è quasi mai.
– Cosa?
– Insopportabile. Come è successo che avete deciso di separarvi? È accaduto qualcosa o hai preso tu l’iniziativa per fare chiarezza?
Sul viso di Diego comparve un sorriso tristissimo.
– Non sarei mai stato capace di prendere l’iniziativa. Semplicemente, Loredana ha capito che avevo una relazione. Poco dopo ha scoperto che questa relazione era con un uomo. E subito dopo mi ha chiesto di andarmene di casa.
– È molto arrabbiata, immagino.
– Impazzita, furiosa. Chissà se si sarebbe arrabbiata alla stessa maniera, se l’avessi tradita con una donna.
– Si sarebbe arrabbiata, ma una situazione come questa è piú difficile da accettare. Mette in discussione la femminilità di una donna, la sua percezione di sé. Non deve essere facile, ha tutto il diritto di essere arrabbiata.
– Mi dispiace tantissimo di averla ferita cosí. Io le voglio bene come prima, anche di piú. Lei invece mi odia, e credo che mi odierà per sempre.
Tirò su col naso prima di riprendere.
– Dice che mi farà causa alla Sacra Rota. Non capisco poi che differenza c’è con un divorzio normale…
– Sottigliezze giuridiche. Con la decisione della Sacra Rota il matrimonio v...

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