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Essere "umani" nel mondo antico

Maurizio Bettini

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Essere "umani" nel mondo antico

Maurizio Bettini

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Questo libro inizia con un episodio dell' Eneide: il naufragio dei Troiani sulle coste di Cartagine (nei pressi dell'odierna Tunisi, nel canale di Sicilia) mentre sono diretti in Italia. Enea e i suoi vengono accolti dalla regina Didone in nome dell'umanità e del rispetto verso gli dèi, perché le frontiere si chiudono di fronte agli aggressori, non ai naufraghi. Scrive Bettini: «Ci sono troppi dispersi nel mare che fu di Virgilio, troppi cadaveri che fluttuano a mezz'acqua perché quei versi si possano ancora leggere solo come poesia. Sono diventati cronaca». Il libro propone dunque una triplice esplorazione della cultura antica alla luce di ciò che oggi definiamo "diritti umani": per scoprire in Grecia e a Roma alcuni incunaboli della Dichiarazione; per misurare gli scarti che su questo terreno ci separano dalla società e dalla cultura antica; infine per mettere in luce alcune specifiche forme culturali in base alle quali Greci e Romani si ponevano problemi equivalenti a ciò che oggi definiamo diritti umani. Ancora una volta, riflettere sul mondo antico ci aiuta ad orientarci nel presente.

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Information

Publisher
EINAUDI
Year
2019
ISBN
9788858430583

Lacrime delle cose

Del resto basta leggerla con gli occhi di oggi, la storia del naufragio troiano, per rendersi conto che si tratta di cronaca. Riprendiamo il racconto dall’inizio. Allo scatenarsi della tempesta che sta per travolgere le navi, Enea, disperando ormai della vita, esclama1:
O tre e quattro volte felice
chi sotto lo sguardo del padre, alle alte mura di Troia
ebbe in sorte il cadere!
Adesso che le onde preannunciano la morte, il pensiero corre a tutti coloro che l’hanno già incontrata là dove infuriava la guerra. Forse sarebbe stato meglio farla finita allora, pensa Enea, mentre già si vede inghiottito dai flutti. Chissà quante volte pensieri simili avranno volteggiato e ancora volteggeranno – come droni – fra i gommoni e i barconi carichi di fuggiaschi che affondano nel canale di Sicilia. Se era questa la sorte che ci attendeva, sarebbe stato meglio morire con gli altri in Siria, sotto le bombe, o fra i monti dell’Afghanistan. Intanto, però, il mare ha già fatto le prime vittime fra i Troiani:
Sparsi naufraghi appaiono a nuoto nel vasto gorgo
Apparent rari nantes in gurgite vasto2.
In passato molte società sportive hanno usato queste parole virgiliane – rari nantes – come motto da stampare sugli accappatoi dei nuotatori. Ma ciò poteva avvenire al tempo in cui l’Eneide era solo un serbatoio di formule poetiche. Leggendo oggi questi versi l’accento batte drammaticamente su rari, non su nantes, perché in pochi scampano nuotando dai gommoni sfondati; mentre il gurges in cui i naufraghi si dibattono resta vasto. Ma continuiamo col racconto virgiliano. Il dio Nettuno non accetta che i venti, scatenati da Eolo per volere di Giunone, la facciano da padroni anche nel regno che è suo, le acque. Fa dunque cessare la tempesta e, contrariamente a ogni aspettativa, Enea e alcuni naufraghi raggiungono la costa:
con gran desiderio di terra, sbarcati,
di quella sabbia bramata i Troiani si appropriano e posano
sulla spiaggia le membra grondanti d’acqua salata3.
Desiderio di terra, di sentirsela finalmente sotto i piedi, brama di sabbia. La sensazione piú cara a ogni naufrago. I superstiti sono sbarcati nei pressi di Cartagine, sulla costa della regione che allora portava il nome di Libia (ma oggi è Tunisia). Ancora però non sanno dove si trovano. Intanto Venere, angosciata per la sorte di suo figlio Enea, si rivolge a Giove chiedendogli per quale motivo la sventura si accanisca contro i fuggiaschi:
cosa ha potuto il mio Enea contro te commettere, cosa
di cosí grave i Troiani, cui, dopo tante sciagure,
tutto l’orbe terrestre vien chiuso sulla via dell’Italia?4.
Come se il mondo intero congiurasse, chiudendosi di fronte a un pugno di disperati in fuga da una città in fiamme, per impedir loro di raggiungere la propria meta, il “luogo” che si sono “posti”: l’Italia. Cos’avranno mai commesso, di cosí grave, quei profughi? Nulla, ovviamente, la domanda è retorica. Porla serve solo a rimarcare l’innocenza di chi fugge dalla guerra per essere poi travolto dai flutti. Intanto anche Enea si è salvato, ma è approdato in un punto diverso da quello toccato dagli altri naufraghi. Si dispera per la perdita delle navi e dei compagni:
perse (inaudito!) le navi per l’ira di un solo
siamo traditi e tenuti lontani dai lidi d’Italia5.
«Un solo». Il lettore del poema virgiliano sa a chi si riferisce Enea con questa «ira di un solo», allude alla divinità che si accanisce contro i Troiani: Giunone. Ma il testo dice soltanto unius ob iram “per l’ira di un solo”. L’espressione è vaga, indefinita, suscita il fantasma di una presenza tanto oscura quanto minacciosa. Una entità che ieri come oggi ha “da sola” il potere nelle proprie mani e, animata dal peggiore dei sentimenti, l’ira, impedisce a un gruppo di profughi di raggiungere l’Italia, preferendo lasciarli annegare.
Adesso Venere, sotto le sembianze di una fanciulla mortale, va incontro a Enea e lo rassicura sulla sorte degli altri compagni: sono salvi. Siete sbarcati sulle coste di Cartagine, dice, non resta che recarvi alla corte della sovrana che regna sulla città, Didone. Non vedete? Un presagio favorevole garantisce a tutti la salvezza. Davanti agli occhi dei superstiti, infatti, uno stormo di dodici cigni è scampato alle insidie di un’aquila. Terminato il suo discorso, Venere si rivolge a Enea in questo modo:
Ora prosegui, e muovi i passi dove ti porta la via6.
La dea indica dunque a Enea la strada da seguire per giungere a Cartagine. Con questo suo gesto Venere mostra di rispettare l’antico precetto consuetudinario che imponeva a chiunque di mostrare la via a coloro che l’avessero persa e vagassero in luoghi sconosciuti. Di questo però parleremo meglio piú avanti. Enea e i compagni proseguono, avvolti in una nube che impedisce loro di esser visti (sono i privilegi dell’epica antica) e giungono nei pressi di Cartagine.
La città non è ancora sorta del tutto, fervono i lavori. Dalla sommità di un colle Enea contempla dunque gli splendidi edifici che stanno nascendo. Protetto dalla nube che lo rende invisibile a ogni sguardo, l’eroe si mischia ai cittadini, fino a raggiungere il luogo in cui sorge un tempio dedicato a Giunone. Ed ecco la cosa che piú colpisce il suo sguardo, la piú straordinaria: gli affreschi che ne adornano le pareti. Vi sono infatti raffigurate scene della guerra di Troia. Nella folla dei combattenti Enea riconosce gli Atridi, Diomede distruttore, piú in là vede la morte del giovane Troilo, il corpo di Ettore trascinato nella polvere dal carro di Achille, le donne di Troia che, supplici, si rivolgono a una divinità che non le ascolta, il riscatto del cadavere da parte di Priamo, tutto. Figure note, care, perdute per sempre. Fra queste Enea vede perfino se stesso, mescolato alla turba dei guerrieri greci. Le tragiche vicende di Troia, giunte fino alle lontane spiagge di Cartagine sulle ali della fama, hanno dunque preceduto l’arrivo dei profughi. Misteriosamente le loro immagini sono già lí, come se il mondo di Enea e Didone conoscesse la televisione e il web, strumenti capaci di inviare al mondo immagini di guerre e battaglie ben prima che i superstiti ne siano fuori. I “reportage” della tragedia troiana sono già noti e visibili, a disposizione di tutti, distesi sulle pareti del tempio. È questo il momento in cui si colloca uno dei passaggi piú intensi e piú noti del poema. Le parole che Enea rivolge ad Acate, il suo fidato compagno, indicandogli la mesta immagine di Priamo:
Che luogo, oramai, sulla terra,
quale regione non è piena, Acate, del nostro penare?
Ecco Priamo. Anche qui trova il suo compenso il valore,
sono lacrime delle cose e le vicende mortali commuovono gli animi.
(Sunt lacrimae rerum et mentis mortalia tangunt).
Sciogli i timori, questa fama ti porterà salvezza7.
Sunt lacrimae rerum et mentis mortalia tangunt. Questo verso virgiliano è tanto celebre quanto enigmatico, e particolarmente oscuro risulta il sintagma sunt lacrimae rerum. Che cosa intendeva dire Virgilio? Semplificando molto, le interpretazioni possibili di questa espressione sono sostanzialmente due: la prima è che le “cose” (i fatti, gli eventi) sono capaci di suscitare lacrime; la seconda, che le “cose” (i fatti, gli eventi) sono esse stesse bagnate di lacrime. Non è certo questa l’occasione per addentrarci in una discussione filologica8. Le due interpretazioni però non si escludono fra loro, anzi, è probabile che il poeta stesso abbia voluto questa ambivalenza, per accrescere il fascino doloroso delle parole pronunziate da Enea. Queste scene di rovina, distruzione e morte, a lui cosí familiari – il giovane Troilo che cade sotto la spada di Achille, il vecchio Priamo, impotente e inerme, e cosí via – suscitano lacrime negli occhi di chi le contempla e nello stesso tempo sono esse stesse bagnate di lacrime. Immaginiamo anzi per un momento che lo sguardo di Enea si stia rivolgendo non ai dipinti che, dal muro di quel tempio, rimandano alle vicende di Troia; ma si stia posando sulle immagini che, dagli schermi delle nostre televisioni, rinviano agli scenari delle innumerevoli guerre che insanguinano il presente. Che cosa vedrebbe Enea in queste circostanze? Una bambola strappata, una scarpa spaiata, un cassetto bruciato o insanguinato. Gli scenari sarebbero altri, ma la reazione dell’eroe sarebbe la stessa: altre “lacrime delle cose”, direbbe, ancora scene che suscitano lacrime e nello stesso tempo ne sono bagnate. Forse basta posare gli occhi su quella bambola strappata – momenti in cui il lontano si fa improvvisamente vicino e l’anonimo diventa familiare – per comprendere quanto poco ambigua risulti l’espressione di Virgilio, sunt lacrimae rerum.
Sia come sia, la conclusione che Enea trae dalla presenza di quegli affreschi nel tempio di Cartagin...

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