Il piccolo libro dell'Ikigai
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Il piccolo libro dell'Ikigai

La via giapponese alla felicità

Ken Mogi, Amber Anderson, Anna Rusconi

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Il piccolo libro dell'Ikigai

La via giapponese alla felicità

Ken Mogi, Amber Anderson, Anna Rusconi

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Jir? Ono è universalmente riconosciuto come il piú grande maestro di sushi al mondo. Che prepari i suoi piatti per il presidente degli Stati Uniti o per il piú comune degli avventori, Jir? si impegna perché la visita al suo ristorante sia un'esperienza unica per tutti. Dalla scelta accurata degli ingredienti al mercato all'esecuzione delle piú sofisticate composizioni, dalla cottura del riso fino alla pulizia meticolosa del piano di lavoro, a guidare Jir? nel raggiungimento della quotidiana perfezione gastronomica è un profondo senso di ikigai. L'arcipelago di Okinawa è noto in tutto il mondo per un motivo: i suoi abitanti sono i piú longevi della Terra. Si cibano di pietanze tanto miracolose quanto sconosciute? Assimilano una misteriosa linfa vitale dall'acqua o dall'aria? O, piú semplicemente, questi arzilli ultracentenari conducono una vita all'insegna dell'ikigai? Ma cos'è l'ikigai? Per scoprirlo non serve volare in Giappone: tutti hanno un ikigai, ma non sempre ne sono consapevoli. È quella forza che spinge ad alzarsi la mattina e dà l'entusiasmo per affrontare la giornata. È la soddisfazione che deriva dal compiere i gesti piú naturali e scoprirli preziosi per sé e per gli altri. È la gioia inaspettata che si prova per un raggio di sole dopo tante giornate di pioggia, per un caffè fumante in un mattino d'inverno, per il sorriso sincero di uno sconosciuto in autobus. Se l'ikigai è la via che conduce alla felicità, Ken Mogi è la persona giusta per indicarci la direzione da seguire. E lo fa raccontandoci, dalla prospettiva insolita del neuroscienziato, un Giappone sconosciuto, quotidiano eppure segreto. Sempre con la stessa leggerezza e concentrazione di una cosa fatta con ikigai. Il piccolo libro dell'ikigai è un concentrato di storie e saggezza, un viaggio al cuore millenario di un paese straordinario.

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Information

Publisher
EINAUDI
Year
2018
ISBN
9788858428771
Capitolo settimo

Trovare il proprio obiettivo nella vita

Come abbiamo visto, l’ikigai ha a che fare con la sostenibilità della vita. A questo punto forse vi sorprenderà sapere che in Giappone una delle grotte del tesoro in cui si cela questa sostenibilità è il mondo del sumo.
Il sumo è una forma di lotta tradizionale con una storia che risale all’antichità e la sua versione professionistica nacque nei primi anni del periodo Edo, nel XVII secolo.
In Occidente prevale la visione (distorta) del sumo come di una battaglia a base di pugni e spintoni tra due ciccioni nudi, con una strana acconciatura e delle strane cinture intorno alla vita: un’immagine spesso ridicola e (forse) dispregiativa. Perché naturalmente in questa antica disciplina atletica c’è molto di piú. Per quale ragione, se no, persone intelligenti ed evolute impazzirebbero per questo sport, o vi si getterebbero anima e corpo per farne la carriera di una vita?
La cosa positiva è che, essendo sempre piú apprezzato anche all’estero e attirando agli incontri un numero crescente di turisti, il sumo comincia a essere compreso nelle sue sottigliezze anche da un pubblico internazionale piú vasto.
I Grandi Tornei di sumo si svolgono sei volte all’anno, tre delle quali al Ryōgoku Kokugikan di Tōkyō e una rispettivamente a Ōsaka, Nagoya e Fukuoka. Ogni torneo dura quindici giorni, da domenica a domenica, e la classifica dei campioni, yokozuna («grande campione») in testa, è rigorosissima. L’obiettivo e il sogno di tutti i lottatori di sumo è dare la scalata alla vetta, anche se solo pochissimi riescono a conquistare il titolo massimo. Uno dei primi yokozuna di cui si ha notizia certa fu Tanizake, attivo dal 1789. Tanizake aveva una percentuale di vittorie incredibile, pari al 94,9 per cento, ed era secondo solo a Umegatani, che arrivò al 95,1 per cento (sí, proprio cosí, i giapponesi annotavano minuziosamente gli esiti degli incontri già a quei tempi). Tanizake gareggiò fino al 1795, quando un’influenza ne causò la morte troncando di colpo la sua straordinaria carriera. Molti lo considerano ancora uno dei piú grandi, forse addirittura il piú grande yokozuna della storia del sumo.
Nell’arco di circa tre secoli si sono imposti 72 yokozuna, quattro dei quali ancora attivi mentre scrivo. Nel 1993 Akebono, originario delle Hawaii, diventò il primo «grande campione» nato all’estero, nonché il sessantaquattresimo della storia. Dal 1993 a oggi ci sono stati ben cinque yokozuna di origine straniera, tra cui il celebre Hakuhō, proveniente dalla Mongolia, che attualmente detiene il record di 38 vittorie in campionato ai Grandi Tornei.
La gerarchia dei sumotori si suddivide in sei categorie; quelli appartenenti alle due fasce superiori prendono il nome di sekitori, ma solo uno su dieci riesce ad arrivarci. In media i sekitori sono una settantina, mentre il numero totale di lottatori attivi si aggira intorno ai settecento.
Tra un sekitori e qualsiasi altro lottatore di categoria inferiore c’è una differenza di status abissale: quest’ultimo non solo gareggia negli incontri, ma deve anche svolgere funzione di assistente al sekitori. Il che significa seguirlo portandogli materialmente indumenti ed effetti personali, mentre il sekitori gira a mani vuote. Fuori dal ring, infatti, il sekitori rientra nella tipologia del nonchalant cool: deve avere l’aria di uno che sa il fatto suo e non si scompone, uno che non si prende certo l’incomodo di sporcarsi le mani e sollevare pesanti bagagli. Sono i sumotori piú giovani a farlo per lui, cosí come a svolgere altre insolite mansioni, e mentre il sekitori può indossare un vero kimono, i non-sekitori devono limitarsi a una yukata, una specie di semplice accappatoio. Nessuna sorpresa, dunque, che tutti i lottatori di sumo aspirino a diventare sekitori.
Promozioni e retrocessioni dipendono naturalmente dai risultati ottenuti nei tornei. Piú vittorie significano promozione, e in caso contrario si retrocede. L’aritmetica del sumo è di una semplicità disarmante, quella del classico gioco a somma zero, e piú tu vinci piú gli altri perdono: il sumo è una pratica in cui la vittoria e la promozione di un lottatore si traducono in maniera diretta nella sconfitta e nella retrocessione di un altro. Il mondo del sumo è comunque sovraffollato e per essere promossi è letteralmente necessario far scendere dal ring la concorrenza.
In termini economici, chi resta nelle categorie piú basse guadagna pochissimo. L’heya (il centro di allenamento) garantisce solo vitto e alloggio e una grande camerata comune. Ma dato che con l’avanzare dell’età la vita si fa parecchio dura, i non-sekitori possono scordarsi di metter su e mantenere una famiglia. Per un giapponese diventare un grande campione di sumo è insomma uno dei sogni piú dolci; il problema è che il sogno si accompagna ad altissime probabilità di fallimento: ben nove su dieci non ce la fanno.
Il famoso centro di allenamento Arashio pubblica sul suo sito informazioni particolareggiate sulle diverse prospettive di carriera che attendono i sumotori. Dopo aver premesso chiaramente che soltanto uno su dieci arriva al rango di sekitori, elenca le tre possibilità a disposizione di chi abbia alle spalle almeno cinque anni di pratica assidua:
  1. proseguire per diventare lottatore professionista. In questo caso, dopo il cerimoniale di festeggiamento in onore degli sforzi compiuti nei cinque anni appena trascorsi, l’atleta viene incoraggiato a continuare;
  2. nell’incertezza, là dove il professionismo eserciti un’attrattiva ma al contempo si riconosca il bisogno di valutare carriere alternative, il centro offre un anno-ponte durante il quale il maestro considera le varie possibilità, mentre il sumotori continua ad allenarsi. Al termine di questo lasso di tempo l’atleta può infine prendere la sua decisione;
  3. nel caso l’atleta senta di essersi già messo sufficientemente alla prova con il sumo e desideri dedicarsi ad altro nella vita, il responsabile e i patrocinatori del centro gli cercheranno nuove opportunità di lavoro. Nel frattempo il sumotori può continuare a vivere nelle strutture del centro per un periodo massimo di un anno, contando su vitto e alloggio garantiti.
A questo punto il sito dichiara con orgoglio:
Considerate le fatiche e lo sforzo necessari a permanere nel centro, il lottatore che si ritira avrà il carattere e le risorse che gli permetteranno di intraprendere con successo qualsiasi altra carriera.
Peraltro, i sumotori possono contare con una certa sicurezza su molte alternative, spesso sostenuti dai loro patrocinatori (collettivamente detti tanimachi, dal nome della zona di Ōsaka dove si formò la prima comunità di facoltosi supporter). Spesso aprono ristoranti dove servono il chanko, lo speciale piatto consumato dagli atleti nei centri di allenamento per sviluppare la loro inconfondibile corporatura. Una ricetta particolarmente famosa è il chanko nabe, stufato i cui ricchi ingredienti (ad esempio carne, pesce e verdure) vengono cucinati in una saporita zuppa. Contrariamente a una credenza diffusa, mangiare piccole porzioni di chanko non porta affatto all’obesità e molti ex sumotori hanno aperto ristoranti piú o meno di successo, a Tōkyō e dintorni. In genere i patrocinatori forniscono il capitale di avviamento e poi diventano clienti abituali del ristorante, ma un lottatore che si è ritirato può tranquillamente sperare in altri lavori; la percezione generale è infatti che una persona sopravvissuta a cinque anni di fatiche in un heya sia in grado di farsi largo in qualunque campo. La chiropratica, la carriera aziendale, l’edilizia, la gestione alberghiera sono solo alcuni fra gli ambiti di attività degli ex sumotori, ma non mancano gli istruttori sportivi e nemmeno i piloti di aerei.
Dal punto di vista economico, dunque, ritirarsi e intraprendere una carriera potenzialmente lucrativa, che dà anche la possibilità di metter su famiglia, ha senso. Eppure molti lottatori che non riescono a entrare nella divisione dei sekitori restano nel sumo anche se ciò significa vivere con pochissimo e sobbarcarsi i compiti onerosi che spettano agli assistenti.
A oggi, giugno 2017, il lottatore piú anziano ha 46 anni e si chiama Hanakaze. Alto un metro e ottantadue per 109 chili di peso, è un sumotori da piú di trentun anni e ha partecipato a 186 Grandi Tornei, ottenendo risultati mediocri ma non disastrosi (605 vittorie contro 670 sconfitte). Il rango piú alto che ha raggiunto è stato due divisioni sotto quella di sekitori, e attualmente si trova nella seconda piú bassa in assoluto. Data l’età e il record personale è improbabile che Hanakaze ce la faccia a diventare sekitori, e, in una nazione anagraficamente tanto consapevole e in uno sport dove le possibilità di successo diminuiscono rapidamente con l’avanzare degli anni, il fatto che continui a tenere duro è considerata una scelta molto coraggiosa.
Come già detto, il curriculum di Hanakaze è tutto sommato dignitoso. Hattorizakura, invece, non ha avuto altrettanta fortuna: diciotto anni, un metro e ottanta di altezza per 68 chili, ha partecipato a undici Grandi Tornei riportando una sola vittoria e 68 sconfitte. Attualmente detiene il piú alto record di sconfitte consecutive e attirò l’attenzione dei media il giorno in cui, terrorizzato dall’avversario Kinjo, noto per i suoi pugni temibili, sembrò inciampare apposta e cadere, cosa che nel sumo equivale ovviamente alla sconfitta immediata. L’aspetto giovane e ingenuo di Hattorizakura, e il suo essere un lottatore professionista, dovettero però colpire l’immaginazione del pubblico, che paradossalmente nel giro di una notte lo trasformò in una star. Inutile dire che, con risultati tanto negativi, Hattorizakura è comunque rimasto sempre nella divisione piú bassa.
Nessuno sa per quanto tempo questo atleta riuscirà (e vorrà) continuare la carriera; potrebbe rinunciarvi da un momento all’altro e decidere che non è adatto per uno sport come il sumo. D’altro canto, però, potrebbe anche andare avanti cosí per altri trent’anni, proprio come Hanakaze. Nel sumo professionistico nessuna regola impone di lasciare solo perché alle spalle si hanno troppe sconfitte, e ogni lottatore decide se restare nell’arena anche in assenza di prospettive di promozione.
In ogni caso è interessante domandarsi che cosa spinga sumotori come Hanakaze o Hattorizakura a insistere, nonostante gli evidenti insuccessi. Perché restare nel mondo di uno sport che li tratta male? In altre parole, qual è l’ikigai del lottatore di sumo scadente? Be’, in quanto fan di questo sport potrei tentare una risposta, o comunque mi sono fatto una mia idea: tutto sta nella magia del sumo. Mi riferisco a qualcosa che si può comprendere solo entrando al Ryōgoku Kokugikan di Tōkyō in occasione di un Grande Torneo. Una volta sviluppata la dipendenza da sumo, uscirne diventa veramente difficile e, dal punto di vista psicologico, andare incontro a piccoli sacrifici personali pur di restare in questo regno delle meraviglie ha sicuramente senso.
Da un lato, il sumo è uno sport full-contact con tutti i crismi e richiede un allenamento estremo: bisogna superare le proprie paure e imparare a lanciarsi a tutta velocità contro l’avversario, lezione che il giovane Hattorizakura deve ancora metabolizzare. Dall’altro, il sumo viene da una tradizione culturale ricchissima. Chi metta piede per la prima volta al Ryōgoku Kokugikan rimane esterrefatto dalla complessità e quantità di lunghi preparativi che precedono l’incontro, che in media dura dieci secondi e raramente supera il minuto. La stragrande maggioranza del tempo la si passa ammirando la poesia dei rituali del lottatore, l’atteggiamento dignitoso dei gyoji («i giudici») e i movimenti coreografici degli yobidashi («gli annunciatori»), che invitano i sumotori sul ring proclamandone cerimoniosamente il nome. A catturare è infatti proprio l’accostamento tra il cozzare spietato di ossa contro ossa e l’eleganza dei rituali connessi alla lotta.
Satonofuji, trentanove anni mentre scrivo, ha alle spalle una carriera di tutto rispetto. Ha partecipato a 127 Grandi Tornei, riportando 429 vittorie e 434 sconfitte, e per essere un lottatore di sumo è di stazza modesta: un metro e settantuno di altezza per 111 chili. Salito fino all’ultimo gradino prima di quello di sekitori, oggi alligna nella seconda categoria piú bassa, ma a dispetto della parabola discendente non c’è appassionato di sumo che non conosca il suo nome e il suo busto solido e compatto. E questo perché Satonofuji chiude le giornate dei Grandi Tornei compiendo la cerimonia dello yumitori-shiki («roteazione dell’arco»).
Nella tradizione del sumo, a roteare l’arco è sempre un lottatore proveniente da un centro di allenamento di yokozuna. Satonofuji viene dall’Isegahama, la palestra del settantesimo yokozuna Harumafuji, di origine mongola. Dopo l’annuncio del vincitore dell’ultimo incontro (in cui generalmente figura appunto uno yokozuna), agli spettatori viene chiesto di restare seduti e di seguire la cerimonia della roteazione dell’arco. Satonofuji maneggia l’arco, lungo circa due metri, con incredibile velocità e precisione, mentre il pubblico lo applaude, e solo dopo l’inchino finale e la sua uscita dal ring la giornata di incontri può dirsi conclusa. Osservandolo impegnato nella cerimonia, si comprende che probabilmente questa è la forma piú alta di ikigai di Satonofuji.
Si dice che il sumotori che compie la cerimonia dell’arco sia condannato a non diventare mai sekitori, una maledizione a cui finora solo pochissimi sono riusciti a sottrarsi.
Ma per gli ammiratori della destrezza ed eleganza di Satonofuji con l’arco, la sua performance negli incontri conta ben poco. Sembra anzi che questo lottatore abbia trovato la sua personale nicchia nel mondo del sumo, un ruolo che è felice e orgoglioso di adempiere in quanto parte del ricco corredo di tradizioni di questa disciplina. In effetti il piacere e la gioia che Satonofuji trae dalla roteazione dell’arco sono perfettamente giustificati, visto che la cerimonia nacque come danza di gratitudine da parte del sumotori vincitore dell’ultimo incontro della giornata. (Anche dopo un’importante vittoria, i lottatori non esprimono direttamente la loro gioia per rispetto dell’avversario, già umiliato dalla sconfitta). Sebbene non abbia molte chance di ridare la scalata alla classifica, Satonofuji sarà dunque felice di continuare a svolgere il ruolo di roteatore fino alla fine della carriera.
Il sumo è un sistema ecologico in cui è possibile conservare un ruolo attivo a patto di trovare una propria collocazione anche quando si continua a perdere negli incontri. Hanakaze, Hattorizakura e Satonofuji sono eroi non celebrati che hanno tutto il diritto di andare fieri della propria posizione, nonostante i loro risultati agonistici gli impediscano di diventare sekitori.
Quando parliamo di sumo parliamo quindi di un eloquente esempio dell’eterogeneità e autorevolezza dell’ikigai. Il sumo ci indica come si possa trovare il proprio ikigai anche in un mondo dove le regole che definiscono vittorie e sconfitte sono inflessibili. In molti ambiti umani i sistemi valoriali che misurano la performance degli individui sono aperti a interpretazioni alternative, al punto che si può arrivare a ingannare se stessi e a raccontarsi che va bene cosí; i sumotori invece non conoscono né ambig...

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