Rione Serra Venerdì
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Rione Serra Venerdì

Imma Tataranni e le trappole del passato

Mariolina Venezia

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Rione Serra Venerdì

Imma Tataranni e le trappole del passato

Mariolina Venezia

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Il quartiere di Serra Venerdí fu progettato per portarci gli abitanti dei Sassi, il cuore antico di Matera, dopo l'esodo forzato degli anni '50. Ma le utopie degli urbanisti si scontrano con la realtà, e Serra Venerdí diventa Rione Apache: l'omicidio di una coetanea della Piemme Tataranni, seguito da altri fatti sconcertanti, punta il dito su una Storia che sembra passare sempre sulla testa dei piú deboli. Con l'immancabile tacco dodici, Imma percorre la Basilicata per ricostruire un episodio del periodo postunitario, lasciandosi stregare dai paesaggi e ritrovandosi a fare i conti con i propri lati oscuri. Il marito Pietro e la figlia Valentina le sono accanto come sempre. Ma stavolta la dottoressa rischia di perdere quanto ha di piú caro. E forse c'è lo zampino del bel maresciallo Calogiuri... La dottoressa Tataranni è alle prese con un omicidio che affonda le radici nel passato. E se lei stessa avesse contribuito inconsapevolmente alla morte di Stella Gallicchio? L'indagine, oltre che negli spettacolari scenari delle Dolomiti Lucane, e nei «vicinati» dei Sassi, si svolge negli angoli bui dei suoi ricordi. «La memoria, spesso, è una dannazione. Tira fuori episodi imbarazzanti, dettagli inutili quando cerchi qualcosa di essenziale, ti ripropone una frase o un viso che vorresti cancellare, condanna all'oblio chi non se lo merita. La memoria, lei, l'avrebbe condannata senza sconti di pena». In una Matera impaziente di concedersi a un turismo sempre piú invadente, un passato di miseria torna come un fantasma. Fra rampolli di nobili famiglie, ragazzini che custodiscono innominabili segreti, grotte preistoriche e villaggi abbandonati, Imma indaga fianco a fianco al maresciallo Calogiuri, che non è piú il ragazzo soggiogato dal suo carisma, e se lei diventa troppo autoritaria, arriva a ribellarsi. Improvvisamente, Imma vede in lui l'uomo, e sta per succedere l'irreparabile. Cosa ne sarà dell'amorevole Pietro, e dell'adolescente Valentina, che si comporta col fidanzato come se fossero una vecchia coppia? Cederà la dottoressa all'attrazione per il bel maresciallo, mettendo in pericolo la sua famiglia? E poi... esiste un mostro che si aggira nelle strade di Matera? Qualcuno, in ufficio, fa il furbo? Troppe domande per una donna sola! Fortuna che Imma Tataranni non si dà per vinta, e se inciampa si rialza. Una nuova avventura della Piemme piú chiacchierata del Centro Sud, dopo Come piante tra i sassi e Maltempo.

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Capitolo trentaduesimo

“Voglio raccontarvi una storia, – esordí. – La conoscono i vecchi. Quando loro non ci saranno piú, sarà sepolta per sempre”.
De Nardis la guardò senza mostrare grandi segni di interesse. Lei continuò.
“Supponiamo che vicino ad Abriola ci fosse una frazione. Magari non aveva nemmeno un nome, o forse sí, quello di qualche santo, probabilmente”.
L’uomo non batté ciglio. Imma aprí il cassetto e ne tirò fuori una foto in bianco e nero, una manciata di casupole intorno a una chiesa. Lui la osservò, quindi la posò sulla scrivania.
“Si presentava cosí, verso la metà dell’Ottocento, – proseguí Imma. – Ora restano sí e no un po’ di pietre una sull’altra. Curiosa, eh, la forma di questo picco delle Dolomiti lucane? Quando uno lo guarda dal belvedere di Abriola sembra che la cima si debba staccare da un momento all’altro”.
Il nobile rampollo non tradí emozioni. Dissimulare sapeva dissimulare, a questo punto era assodato, perché a quelle immagini doveva tenerci. Per forza.
Imma prese altre due foto e gliele porse.
“Chi è, lo sapete?”
L’uomo non rispose subito.
“A me è sembrato di riconoscerlo, – lo incalzò lei, – l’ho notato nella galleria di quadri a casa vostra. È quel vostro antenato illustre, o sbaglio?”
“Sembrerebbe”, disse l’altro allontanando un po’ la foto.
“Ho saputo che avete fatto domanda per dichiarare palazzo de Nardis monumento nazionale. Proprio perché il conte Sifola di San Martino si è distinto durante il Risorgimento”.
“Ho il privilegio di aver ereditato un sito di rilevanza storica…”
“E vi siete sentito in dovere di metterlo a disposizione dei cittadini. Vi fa onore. Il municipio giustamente investirebbe, tanto piú che si avvicinano le celebrazioni per l’Unità d’Italia. La gente deve conoscerla, la storia, avere la possibilità di visitare i luoghi dove hanno vissuto gli eroi che hanno permesso al nostro paese di diventare quello che è”.
De Nardis abbozzò un sorrisetto compiacente.
“Peccato, per queste”.
Imma tirò fuori delle altre foto che dispose sul tavolo. Su una si vedeva una donna nuda trafitta da una baionetta. In un’altra un ufficiale sabaudo reggeva per i piedi un feto che sembrava un coniglio scuoiato.
Diana diede un’occhiata e si portò la mano alla bocca, perché era debole di stomaco. Il conte, o quello che era, distolse signorilmente lo sguardo.
“È stata una guerra”, mormorò.
“A me sembra una carneficina. È vero che questi erano poveracci, gente di cui non importava a nessuno”.
Calogiuri, che stava assistendo in silenzio all’interrogatorio, si guardava la punta delle scarpe. Il giorno prima la dottoressa gli aveva spiegato che a quelle azioni partecipava anche il corpo dei carabinieri e lui si vergognava.
“Adesso va di moda rivalutarli, – rispose de Nardis, – ma i briganti erano pazzi sanguinari. Bestie. Mia nonna raccontava che avevano tagliato un orecchio al fattore del mio trisnonno per farsi dire dove tenevano le provviste. Lo fecero trovare sul tavolo alla moglie. A un altro cavarono gli occhi…”
Imma prese un’altra foto dal cassetto. Un bambino di una decina di anni, o meglio la sua testa infissa a un palo.
“Anche questo era un pazzo sanguinario?”
Nella stanza calò un silenzio, che Imma interruppe dopo un po’.
“Non erano chierichetti, ci mancherebbe, però pure i sabaudi si facevano prendere la mano. E un eroe doppiogiochista, che prima fa il manutengolo, cioè finanzia i briganti perché cosí spera di recuperare i suoi privilegi, poi volta bandiera e si mette con un esercito che fa a pezzi i minorenni, può diventare imbarazzante”.
De Nardis non replicò.
“Vi racconto un’altra storia”. Imma raccolse le foto, le pareggiò e le ripose nel cassetto. “Piú recente questa volta. Risale agli anni Sessanta, quando nei paesini della Basilicata cominciarono a girare certi personaggi che entravano nelle case a proporre affari. In cambio di roba vecchia, pentole di rame, mobili intagliati, vasi di terracotta, offrivano congole e secchi di plastica colorata che puzzavano ancora di fabbrica. Alle contadine non sembrava vero. Peppino Pezz Pezz, lo chiamavano. All’anagrafe Giuseppe Giovinazzo”.
L’uomo incassò il colpo.
“Stava di casa a Calvello, – aggiunse Imma, – ma veniva spesso a trovare vostro nonno. Ve lo ricorderete”.
“Ero piccolo”.
“Infatti. A quell’età le cose restano impresse”.
De Nardis dissimulò un certo disappunto. Imma proseguí.
“Quelle visite fecero la fortuna del nonno di Stella Pisicchio. Quando arrivò in Basilicata dal foggiano, non aveva manco gli occhi per piangere. Poi a forza di accaparrarsi servizi di porcellana, quadri e alabarde, mise su una piccola fortuna. Alla fine era lui che prestava i soldi a vostro padre, don Annibale”.
“I miei genitori erano molto generosi. Purtroppo il patrimonio di famiglia ne ha risentito”.
Generosi, eh. Poveri genitori. “Fra le suppellettili che Peppino Pezz Pezz si portò via per pochi spiccioli c’era un baule di lastre fotografiche. Molti anni dopo lo ritrovò sua nipote, Stella”.
De Nardis era un tipo ragionevole. Capiva quando non si poteva negare l’evidenza. Accennò a quell’antenato che si chiamava come lui, Niccolò. Il cognome, Sifola di San Martino, apparteneva al lato materno della sua famiglia. Coltivava mille interessi. Storia, poesia, scienze naturali. E fotografia, all’epoca roba da pionieri.
Stella gli aveva mostrato le lastre al loro primo appuntamento, ammise. Le aveva trovate in uno sgabuzzino quando aveva ristrutturato casa. Era rimasta colpita da alcune immagini che si intravedevano controluce, se l’emulsione non era troppo deteriorata. Sospettando che si trattasse di roba scottante cercava qualcuno con cui confrontarsi. Poiché sul baule c’era un timbro di Abriola, aveva pensato che lui potesse essere la persona giusta.
“Come mai non me l’avete detto subito?”
“Certe volte la verità… può portare a conclusioni sbagliate”.
“Voi pensate a dirla”.
De Nardis rimase in silenzio. La osservò.
“D’accordo, ero interessato a quelle lastre, – convenne dopo un po’. – Non perché volessi farle sparire, intendiamoci. Era un pezzo di storia di famiglia…”
“Capisco”.
Il suo antenato si era appassionato a quella tecnica miracolosa, le raccontò, attrezzando in una stanza del palazzo un laboratorio che si era conservato pressoché intatto. Utilizzava il collodio umido, rimasto in voga solo per un breve lasso di tempo, presto scalzato dal nitrato d’argento. Si dilettava nel ritratto, per lo piú contadinotte che metteva in posa, nude. Lui ne aveva rinvenuti alcuni, di quei ritratti. Fra le cose del conte però c’era anche un diario che descriveva una spedizione fatta con alcuni ufficiali sabaudi in una frazione di Abriola dove si supponeva fossero nascosti i briganti. Vi veniva menzionato un servo, iniziato all’arte fotografica, che gli faceva da assistente. In quella situazione, l’uomo si era messo dietro l’obbiettivo per ritrarre il conte vittorioso insieme ai sabaudi. Quelle fotografie lui le aveva cercate dappertutto…
“E ora il destino vi metteva le lastre sotto il naso. Ma Stella, la prima volta che le proponeste di acquistarle, disse che voleva pensarci…”
L’interessamento di de Nardis doveva averle messo la pulce nell’orecchio. Ecco perché cercava di contattare il cognato di Nicoletta Mannarella, lo storico!
“La prima impressione – le confidò il nobiluomo – è stata che avrebbe preferito da parte mia… un interessamento di altro genere. Per questo sono rimasto sorpreso quando a distanza di tempo mi chiamò proponendomi di vendermi quelle lastre”.
“Quanto chiese?”
“Cinquemila euro”.
“Il 17 dicembre mi risulta che Stella Pisicchio è stata ad Abriola”.
“Da me non è mai venuta, ve l’assicuro. Che interesse avrei a mentirvi?”
“Non ho detto che state mentendo, però vorrei capire. Tutto suggerisce che sia stata lì…”
“La proposta di vendermi le lastre me la fece dopo quella data. Qualche giorno prima che andassi a trovarla, il lunedí in cui è morta. È il motivo per cui ero da lei, quel giorno”.
“E come andò la trattativa?”
“Non c’è stata trattativa”. De Nardis sembrava uno che cammina sul ghiaccio, tastando a ogni passo la resistenza della lastra. “Non mi ha aperto, come vi dicevo, non so nemmeno se fosse in casa”.
“Non avete provato a chiamarla?”
“Non avevo credito, – balbettò. – Poi mi è arrivata una telefonata. Ho risposto, e mentre parlavo sono uscito dallo stabile”.
“Di chi, la telefonata?”
“Uno che aveva sbagliato numero, mi sembra”.
“Avete parlato per una decina di minuti”.
“I...

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