Mille anni che sto qui
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Mille anni che sto qui

Mariolina Venezia

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Mille anni che sto qui

Mariolina Venezia

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Grottole, nei pressi di Matera: in un Sud poco esplorato, le vicende straordinarie e quotidiane dei Falcone, una famiglia cui il destino dona tutto e non risparmia niente, dalla guerra all'emigrazione, dalla ricchezza alla fame, passando per scandali pubblici e furori individuali. Dal capostipite don Francesco, con i suoi barili d'oro sepolti e non piú ritrovati, all'ultima discendente, Gioia, che piú di un secolo dopo raccoglie i ricordi di famiglia. Il ritratto di un mondo terrestre, duro e magnifico. Una costellazione di personaggi colti nei momenti salienti della loro esistenza. Il loro scendere o meno a patti con la vita. L'immaginazione usata per accettare la realtà. E poi la fine di un mondo. Padri e figli, ma soprattutto madri e figlie, aspettative e tradimenti. Amori, ideali politici, lotte, delusioni. La vitalità di un popolo e una voglia di vivere conquistata infine sfidando anche l'amore romantico e le sue trappole.
Vincitore del Premio Campiello 2007, Mille anni che sto qui è stato tradotto in venti paesi.

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Information

Publisher
EINAUDI
Year
2010
ISBN
9788858402597
Ipage_no="5"

Capitolo primo

Erano piú o meno le tre di pomeriggio del 27 marzo 1861 quando a Grottole, in quella parte della Basilicata che si trova circa cento chilometri all’interno delle coste pugliesi, si produsse un fenomeno che restò poi proverbiale.
Sulla sua natura i grottolesi si interrogarono a lungo nelle ore successive, facendo congetture di ogni specie: per qualcuno era un miracolo, per altri stregoneria o con una sfumatura leggermente piú ortodossa tentazione del demonio, e solo per pochi, i piú istruiti, semplice manifestazione naturale.
Forse qualcosa c’entrava zí Uel u Furnaciar, ma poi, per come andarono i fatti, nessuno piú ci pensò. Certe volte, quando nell’argilla restava qualche pietruzza che non si schiacciava bene, i vasi dopo un po’ di tempo si crepavano. Ma a lui non succedeva quasi mai. Le mani di zí Uel sul tornio erano veloci e precise, i polpastrelli mezzo bruciacchiati accarezzavano con delicatezza i fianchi rotondi delle cuccume e delle brocche, come dio deve aver accarezzato quelli di Eva, il giorno della creazione. Impastava, modellava, infornava. Sfornava lucerne, pedali e cuccume. Le segnava coi cerchi concentrici che molto tempo prima servivano a far comunicare i vivi coi morti in una lingua che nessuno piú conosce. Terrecotte sottili e sonore, porose, umide, trasudanti. Cuccume che trattenevano la freschezza dell’acqua. Tanto perfette e sottili che un grido avrebbe potuto creparle.
Lo stesso giorno in cui Roma non ancora conquistata veniva designata capitale dell’Italia finalmente unita, a Grottole il primo ad accorgersi di questo fenomeno di altra natura ma non meno portentoso fu il piú piccolo di quelli della Rabbia, che si aggirava dalla parte della terra vecchia detta anche “s’rretiedd”, un serrato ammasso di strade e case dove il sole non batteva mai, con una zoccola legata a una fune e lo stomaco che gorgogliava dalla fame.
Stava tirando la zoccola che non lo voleva seguire quando vide un liquido giallo scendere lentamente dallo stretto del Saraceno, fermarsi in una piccola pozza nel selciato sconnesso, e proseguire scalino dopo scalino, scivolando sulle pietre lisciate dagli zoccoli dei muli, infilando vicoli e vicoletti fino a tuffarsi giú dalla scarpata. All’inizio gli sembrò una pisciata di mulo, ma non aveva mai visto un mulo e nemmeno la vacca di Totonno pisciare tanto a lungo. Non poteva essere nemmeno che stessero vuotando i cantari di don Filippo Cocca, perché per quanti ospiti potesse portare il figlio che studiava all’Università di Salerno, ci sarebbe voluto un battaglione per fare tutta quella piscia. Tanta fu la curiosità che si lasciò sfuggire la zoccola e neanche se ne accorse. Si avvicinò al rigagnolo e lo osservò cosí da vicino che quasi ci metteva il naso dentro. Stava continuando a scorrere. Veniva giú con una consistenza fluida e viscosa, limpido e dorato sotto i raggi del sole, facendo qualche bolla grassa e riprendendo con piú forza come se la fonte di provenienza invece di seccarsi stesse crescendo.
Rocchino alla fine ci intinse un dito, lo annusò e poi lo assaggiò. Una smorfia gli contrasse il viso, di dolore o di piacere non si capiva.
A quell’ora nel paese c’erano solo donne, bambini, storpi e matti. Gli uomini validi non erano ancora tornati dalle campagne. Rocchino si mise a leccare di faccia nella pozzanghera immergendosi tutto, ungendosi i piedi, le mani, la coccia pelata, e finendo col rotolarcisi dentro come un maiale nella merda. Era olio, olio d’oliva!
Un suono di campane gli rimbombò nelle orecchie, sentí la vita che gli scorreva dentro grassa e untuosa e la morte secca che si allontanava. Quelli della Rabbia, diceva qualcuno, si erano mangiati un figlio appena nato arrostito alla brace, un inverno di carestia. Un odore stuzzicante, indimenticabile, aveva invaso il paese per giorni.
Mentre Rocchino grugniva di piacere e quasi soffocava di ingordigia, il secondo a cui il fenomeno apparve in tutta la sua stranezza fu Felice la Campanella, che se ne stava immobile su un sedile di pietra, sperando invano che il sole del pomeriggio gli scaldasse il cuore, quando vide la pisciata del demonio farsi strada nel fango del sentiero che portava all’orto di zí Titt.
Emerse per un attimo dal ricordo che lo teneva incatenato da piú di vent’anni, il corpo prosperoso di sua moglie trafitto da trenta coltellate.
Quando era uscito dalle Regie prigioni di Napoli aveva perso la parola, tranne le bestemmie che biascicava come Ave Maria, e gli incubi della sua anima dannata gli erano affiorati sulla pelle. Dal collo fino alla vita e sicuramente anche sul resto del corpo, comprese le mani fino alla punta delle dita e forse anche le parti intime, era tutto un agitarsi di diavoli, di cuori spaccati, di donne nude e di scritte oscene che un tempo si animavano al guizzare dei muscoli e ora sembravano volersi rintanare nella peluria ormai incanutita del torace.
Il suo mantello nero svolazzava agli angoli delle strade mentre lui si rodeva di solitudine, con le mani a corna dietro la schiena e alla cintura corni e cornetti che tintinnavano a ogni passo nel tentativo ormai ridicolo di scongiurare la malasorte. Solo i bambini lo seguivano per tirargli le pietre, sorprendendolo alle spalle e nascondendosi veloci dietro un muro o nell’arco di una porta.
L’olio gli sembrò bile di demonio e pensò che il Maligno fosse venuto finalmente a prenderselo. Pronunciò allora una terribile imprecazione e si preparò a seguirlo con un certo senso di sollievo.
Fu a una femmina che venne l’idea.
Cumma Tar’socc’ si avventurava lungo i muri screpolati, tuffandosi nell’ombra ed emergendo guardinga al sole, avvolta in uno scialle marrone sotto il quale nascondeva il pitale puzzolente che voleva svuotare in largo Sant’Andrea. A quell’ora non l’avrebbe vista nessuno perché chi non stava lavorando si era sicuramente appisolato. Lo svuotò furtiva sullo scivolo di pietra sul quale passavano le ruote del traino, davanti alla casa di sua cognata Agnese. Fu grande la sua sorpresa quando si accorse che gli stronzi galleggiavano in un lago giallo molto piú ampio di quello che avrebbe potuto produrre la sua famiglia, per quanto numerosa fosse.
Stava lí a interrogarsi sul fenomeno, sbilanciata sulla punta dei piedi, il collo allungato e teso come una gallina e il pitale appoggiato all’anca, quando il grido della cognata lacerò l’aria stagnante del primo pomeriggio facendo sollevare nuvole di mosche e risvegliando il paese inebetito: “Ca pzz scttà u’ sagn’ da n’gann”, che tu possa buttar sangue dalla gola… L’ululio prolungato dell’“a” di “n’gann” rimbalzò contro i muri di pietra, si rifletté sinistro di strada in strada attraverso il groviglio dei vicoli e si scaricò in una pioggia di echi nei burroni della valle. Le donne vennero fuori dalle porte semiaperte pronte a gustarsi la rissa, ma ciò che videro fu molto di piú e settant’anni dopo qualcuna se ne ricordava ancora e lo raccontava ai nipoti insieme alle storie di san Pietro, del diavolo e della signora col porcello bianco che appare ai crocevia quando si perde la strada.
Agnese e Tar’socc’ avevano appena iniziato a puntarsi e a darsi piccole spinte, con le unghie sfoderate come due gatte, quando Tar’socc’ mise un piede in fallo e scivolò. Si ritrovò col culo a terra e il pitale rotto, e Agnese le fu subito addosso abbracciandola, spingendola e stringendola, con le gonne che si inzuppavano nel liquido vischioso e si appiccicavano alle gambe.
Le due cognate si misero le mani alla gola col gesto che si usa per tirare il collo alle galline, e Agnese stava torcendo gli occhi, tutta paonazza e scapellata, quando riuscí a girare la testa di Tar’socc’ e a immergerla nel liquido. Tar’socc’ restò un attimo senza fiato, poi prese un respiro che le gorgogliò sonoro nel gargarozzo e mormorò stupita, leccandosi la peluria sulle labbra: “iè iuogghj”, olio, olio d’oliva! Le donne si guardarono, convinte che per la mancanza d’aria avesse perso il sentimento.
Seguí un minuto di silenzio, rotto da Lucietta, la figlia piú grande di Peppino Paglialunga, che si avvicinò alla pozza, intinse il dito con prudenza, gli diede un’occhiata e lo leccò. “È proprio olio”, disse in italiano scandendo bene le parole con la sua vocina compunta, perché aveva studiato fino alla seconda elementare.
Un brusio percorse la folla delle femmine. Una cominciò a raccontare di quella volta che una sorgente di acqua limpida era zampillata sotto il letto di Nascafolta, ma nessuno la stava a sentire.
Che le novene promosse dal nuovo parroco avessero fatto effetto e quella sorgente miracolosa fosse venuta a salvare dalla fame i poveretti? Nonostante cumma Caniuccia con l’autorità dei suoi novantanove anni scongiurasse di non toccarne neanche una goccia, sicura come la morte che quell’olio fosse strabordato dai pentoloni dove bollono i dannati dell’inferno, la lasciarono a gracchiare come una Cassandra e si avventarono sul liquido miracoloso.
Lucietta si era tolta il fazzoletto dalla testa e l’aveva intinto nell’olio, trasportandolo poi prudentemente dentro casa come un bambinello, per andare a torcerlo dentro il pedale vuoto. E cosí tutte, chi col grembiule chi col fazzoletto, chi dentro un secchio di rame chi di legno, affondavano e torcevano con energia.
Risalendo il corso del rigagnolo arrivarono sotto casa di don Francesco Falcone. Ninetta, la piú giovane, la figlia di Zica Zica, alzò lo sguardo e si accorse che l’olio sgocciolava dalle feritoie sotto il magazzino. Guardò le altre indecisa sul da farsi, quando le campane si misero a suonare a festa.
Piú sotto il rigagnolo d’olio aveva suscitato altre reazioni: liti, stupore e discussioni. Don Valentino Blasone, maestro elementare insignito del diploma di Benemerenza, autore di una storia generale della letteratura lucana e sostituto del medico condotto, nonché cittadino onorario del comune di Miglionico, si era affannato a spiegare che il fenomeno non aveva niente di soprannaturale. Nessun miracolo, solo una questione chimica, aggregazione di molecole. Per un caso fortuito certi elementi presenti in natura si erano incontrati in qualche falda sotterranea, e combinandosi avevano prodotto il fluido altrimenti noto come olio d’oliva. Prima di usarlo, raccomandava, bisognava farlo osservare al microscopio, per via dei microbi.
L’eco del fatto era arrivata anche all’orecchio di don Antonio, il giovane parroco arrivato da Salerno, che per non sbagliarsi aveva deciso di far suonare le campane, fosse per ringraziare qualche santo, fosse per spaventare il demonio.
Gli ultimi a sapere quello che stava succedendo furono i diretti interessati, cioè la famiglia Falcone, e ultimo fra gli ultimi il piú interessato di tutti, don Francesco Falcone in persona.
Nella stanza piú alta della casa Concetta stava partorendo nuovamente. Il dolore era cosí forte e le grida cosí acute che le vibrazioni dovevano aver fatto scoppiare una a una tutte le giare conservate nel magazzino. Cosí, almeno, si disse. L’olio che contenevano si era versato giú attraverso i buchi tondi che servivano a far passare i gatti. Cinquanta quintali d’olio, quanti ne bastavano per un anno intero alla famiglia di don Francesco e a tutti i sottoposti.
La prima ad apprendere la notizia fu Licandra, la terza figlia allora tredicenne di don Francesco e della sua ex contadina Concetta. Stava insieme alle sorelle intorno al letto della madre che partoriva per la settima volta, senza contare i quattro aborti spontanei e i cinque provocati che aveva subito.
Nessuno, tranne Concetta stessa, nutriva piú la minima speranza che la Madonna concedesse la grazia tanto insistentemente richiesta in tutti quegli anni. Troppo cocente era stata la delusione le altre volte, ben sei, in cui don Francesco e tutti quelli della casa si erano illusi che stesse per nascere il maschio. Adesso don Francesco non aveva voluto saperne. Benché Concetta avesse le doglie fin dalla notte, era partito per le terre alla prima luce, infuriato come un brigante, dicendole di sbrigarsela da sola perché erano fatti che non lo riguardavano. Concetta, a parte che stava troppo male per pensare ad altro, non se l’era presa, perché aveva la resistenza di una mula, la mansuetudine di una pecora e la leggerezza di una farfalla, doti senza le quali non avrebbe resistito a lungo accanto a don Francesco, che invece di natura era furioso come una giornata di maestrale e non era neanche suo marito, per questo minacciava di sbatterla fuori ogni volta che qualcosa non gli stava bene, cioè ogni volta che partoriva una femmina.
Don Francesco non aveva ritenuto opportuno stipulare un contratto per appropriarsi di ciò che già gli apparteneva, cioè il corpo di Concetta in totale usufrutto, la sua disponibilità, devozione, e anche qualcosa che lui prendeva per amore e invece era pietà, una compassione profonda che Concetta riservava alle fruscole ferite, ai pezzenti e a lui, che poi non si capiva perché, visto che era ricco, sano e forte e le dava anche da mangiare.
L’unico motivo per cui don Francesco avrebbe potuto sposare Concetta è che gli partorisse un maschio, ma questo evento, tanto atteso anche da tutte e sei le loro figlie bastarde, non si era ancora verificato e le possibilità che si verificasse sembravano diminuire di giorno in giorno.
Prima di prendersi in casa Concetta, don Francesco era stato sposato con donna Nina, una grassanese che gli aveva trovato suo padre, già un po’ avanti con l’età, gialliccia e molle, con le ossa cave come quelle degli uccelli, che aveva portato in dote le terre di Arsizz’, Mazzam’pet e Sant’ Làzzar’, e la tenuta di Serra Fulminante che rendeva piú di mille ducati l’anno.
Donna Nina era stata educata in un convento di Napoli, dove aveva imparato a orlare i fazzoletti, a leggere le vite dei martiri, e soprattutto a guardare quelli che considerava bifolchi, e lui in prima fila, come se avessero potuto attaccarle il vaiolo da un momento all’altro. Si disprezzavano a vicenda. Dopo la prima notte di nozze, nella quale don Francesco aveva fatto il suo dovere, consegnando a sua madre il lenzuolo macchiato col sangue della sposa, lui e donna Nina, di comune accordo, avevano continuato a dormire insieme voltati ognuno dalla sua parte. Dopo un anno di matrimonio erano ancora senza figli.
Donna Nina trascorreva le giornate avvolta in una delusione astiosa, senza mettere il naso fuori dalla camera nuziale, il piú delle volte sdraiata nel letto a baldacchino con la scusa di qualche malattia, e lí dentro si respirava un’aria talmente stantia che don Francesco si sentiva mancare non appena ci metteva piede. C’era un olezzo di tavuto, accentuato dal profumo struggente dei gigli e delle candele che ornavano l’effigie di una Madonna dall’aria schifiltosa cui sua moglie era devota.
Accanto a donna Nina, don Francesco non riusciva a prendere sonno se non quando era stremato, forse per paura di svegliarsi direttamente nell’aldilà con le membra legate dai fili sottili dell’invidia, dai fascini di mummia imbalsamata di sua moglie. Ma non osava dirle di aprire le finestre per lasciar entrare l’aria, né di andarsene da qualche altra parte. Tanto meno osava abbandonare il letto coniugale perché avrebbe fatto scandalo.
Ma la notte della vigilia di San Giovanni un caldo prematuro e soffocante aveva fatto cuocere il sangue nelle vene di don Francesco. Arrivavano fino a loro, attutite, le canzoni che cantavano per strada. Alla fine aveva dovuto uscire dalla camera in cerca di aria pura, con la furia di uno che è stato chiuso ancora vivo nel tavuto.
Intorno al 21 giugno, il solstizio d’estate, il giorno raggiunge la massima lunghezza prima del declino. I cafoni iniziavano dal pomeriggio ad ammucchiare le ginestre nelle strade e nelle piazze. Si facevano fuochi per aiutare il sole a splendere nel cielo. Si raccoglieva la cenere da portare a casa per cacciare gli spiriti maligni e attirare l’abbondanza. Si cantava. Si saltavano le braci ardenti, ogni volta con lo stesso stupore, per ammogliarsi, e passare le gioie e le pene della vita a qualcun altro.
Don Francesco aveva aperto la finestra e il vento della notte gli era saltato in faccia, gli aveva accarezzato la barba nera e i capelli e l’aveva fatto sentire giovane e vigoroso. Ma per la prima volta in vita sua, insieme a quella sensazione lo aveva preso un pensiero, una specie di presentimento, che comunque fossero andate le cose, avesse anche evitato le trappole del malocchio, i sortilegi, l’invidia, le guerre e le malattie infettive, prima o poi sarebbe morto, e non c’era modo di sfuggire al fatto che quel suo corpaccione che sembrava tagliato nell’olivo sarebbe diventato molliccio e si sarebbe sfatto come i torsoli delle pannocchie e gli altri residui che buttavano nelle pozze per concimare la terra. La muina in basso mescolandosi a quei pensieri gli faceva girare la testa. Si era appoggiato al davanzale. Le braci e gli occhi delle ragazze brillavano nell’ombra. Una risata che aveva i toni bassi e caldi della cupa cupa, e poi saliva fino a diventare sottile come uno squillo di campanelle si distinse fra gli altri suoni. Don Francesco Falcone si sforzò di guardare nell’oscurità. Nella luce della luna e nei bagliori delle fiamme si accorse che stava succedendo qualcosa di straordinario.
Era sbocciata dalla sera alla mattina, con le labbra rosse come ciliegie, i capelli ancora liberi che le ballavano sulle spalle e il corpo rotondo e minuto, scuro e tornito come un chicco d’uva, coi seni che sembrava gli stessero fiorendo sotto gli occhi.
Non che non l’avesse mai vista, non era possibile in un paese dove tutti se non erano parenti erano perlomeno compari e commari, vincolo che in qualche modo valeva piú del sangue. Piuttosto, certe ragazze si sviluppavano da un giorno all’altro, come le rose che si aprono in una sola notte e il giorno dopo sono già sfiorite.
Restò a guardare incantato quel miracolo, lacerato dal desiderio di scendere giú e mescolarsi ai cafoni festanti, come aveva sempre fatto prima che arrivasse donna Nina, di mescolare la sua carne a quella della bambina che stava diventando donna, di sentire la vita che si faceva strada dentro di lei combattere con la morte che si faceva strada dentro di lui.
Una mano inconsistente gli si posò sulla spalla facendolo sobbalzare. Era donna Nina che lo pregava di chiudere la finestra, perché lo spiffero arrivava fin dentro la sua stanza e non poteva prendere sonno. Don Francesco obbedí docilmente e seguí sua moglie nel letto. La temeva, perché sapeva scrivere e leggere e aveva il sangue freddo come le lucertole.
Quando spensero la luce, Nina disse che è peccato essere sposati se non si hanno figli. Don Francesco lo sapeva benissimo e per questo si rodeva segretamente. Provò a rispondere che c’era tempo, ma lei ormai aveva deciso. Si era fatta due volte il segno della croce e aveva allungato verso di lui le sue mani secche e fredde. Don Francesco, che era forte e vigoroso, ma spesso si sentiva perso come un bambino senza mamma, non aveva saputo sottrarsi, e aveva consumato l’atto, mentre dentro di lui si inquinava l’acqua fresca e sfiorivano le rose, e la notte vinceva sul giorno e la vita si arrendeva alla morte.
All’alba, mentre Nina lo sorvegliava attraverso le palpebre socchiuse, perché aveva la capacità di vederci come i gatti, don Francesco si era vestito e si era avviato verso le terre.
Gli ci era voluto parecchio per vincere il disgusto che l’aveva preso, quella nausea da femmina forzata, quella sporcizia che la mancanza di desiderio gli aveva appiccicato sulla pelle, e ancora di piú gli ci volle per trovare ciò che stava cercando, perché i suoi possedimenti erano cosí vasti che a percorrerli tutti non bastava una giornata dall’alba al tramonto.
Stavano mietendo. A metà mattina aveva mangiato il pane col sangue fritto insieme agli uomini venuti dalla marina, e si era sentito meglio.
L’aveva trovata all’Ai Mar, mentre il sole stava cominciando a calare, che spigolava. L’aveva osservata coi suoi occhi tristi da rapace, poi le aveva chiesto a bruciapelo chi le avesse dato il permesso, perché era un uomo di poche parole e non gli era venuto niente di meglio per farle la corte.
Appena Concetta lo vide seppe che stava per succederle ciò che era successo già a sua madre, a sua nonna e a molte cugine, e faceva l’oggetto di certi furtivi ragionamenti con le compagne mentre andavano a prendere l’acqua. Non le passò nemmeno per la testa di sottrarsi. Lasciò il fratello in fasce sotto la quercia e gli andò incontro. Don Francesco l’aveva sentita palpitare mentre se la portava sul cavallo.
Ma quando furono al casotto di Santa Lucia successe una cosa inusuale, che non era successa né a sua madre, né a sua nonna, né alle sue cugine. Mentre lui la prendeva dalla vita per farla scendere da cavallo, Concetta fu vinta non dalla ricchezza dei suoi vestiti, né dalla virilità delle sue mani, ma dalla potenza della sua malinconia, e volle fargli un regalo supplementare, di quelli che i poveri usano fare ai ricchi. Insieme al corpo, gli diede qualcosa di sé che non avrebbe saputo come chiamare.
La prese sul materasso di foglie di gr...

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