La genealogia della morale (Einaudi)
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La genealogia della morale (Einaudi)

Uno scritto polemico

Friedrich Nietzsche, Umberto Colla

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La genealogia della morale (Einaudi)

Uno scritto polemico

Friedrich Nietzsche, Umberto Colla

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La genealogia della morale è uno degli ultimi scritti di Nietzsche. La sua attualità è via via cresciuta nel tempo, tante sono le questioni cruciali con cui ci provoca, a cominciare dal fatto che Nietzsche toglie ogni rassicurante punto di appoggio a qualunque morale pretenda di valere per se stessa, fino alla grande scena del «risentimento ascetico» in cui domina quella volontà di nulla in cui noi, oggi, continuiamo a dibatterci.
Questo nichilismo - ecco la sua amara e paradossale conclusione - è tutto ciò che abbiamo nelle mani: da esso paradossalmente ricaviamo quel poco di senso che ci salva dal baratro di un completo e insensato rifiuto della vita, del corpo e del desiderio. Dalla morale del «prete ascetico», risultato di un lunghissimo tragitto attraverso la cattiva coscienza e il senso di colpa (appunto, la genealogia), dobbiamo ripartire, e non possiamo girare pagina con una semplice impennata filosofica. Lo hanno capito in tanti nei decenni appena trascorsi, da Benjamin a Deleuze, a Foucault, a Sloterdijk. Si disegna qui la contraddizione del nostro presente, le sabbie mobili in cui siamo bloccati. Chi è il sano? Chi è il malato? Chi è il «vero» medico tra la folla dei falsi terapeuti? Nietzsche rilancia a noi la palla avvelenata, ed è perciò che questo libro dovrebbe essere letto, anzi «ruminato» da tutti, a cominciare dai giovani oggi cosí spaesati. E non c'è bisogno di essere addetti ai lavori per leggerlo e farne uso. Pier Aldo Rovatti

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Information

Publisher
EINAUDI
Year
2012
ISBN
9788858406137

LA GENEALOGIA DELLA MORALE

La traduzione è basata sul testo dell’edizione critica Colli-Montinari (F. Nietzsche, Werke, VI, 2, Walter de Gruyter & Co., Berlin 1968). Le note a piè di pagina sono del traduttore, cosí come le versioni dei testi citati ove non diversamente indicato.

Prefazione

1.

Siamo sconosciuti a noi stessi, noi uomini della conoscenza: noi stessi a noi stessi, e di questo c’è un buon motivo. Non siamo mai andati alla ricerca di noi stessi: come sarebbe potuto accadere che un giorno ci trovassimo? A ragione è stato detto: «Dove è il vostro tesoro, là è anche il vostro cuore»1; il nostro tesoro è là dove sono gli alveari della nostra conoscenza. Per questo scopo siamo sempre per via, come se fin dalla nascita fossimo animali alati, raccoglitori del miele dello spirito, e di cuore ci preoccupiamo davvero soltanto di una cosa, di «portare a casa» qualcosa. Per quanto concerne invece la vita, le cosiddette «esperienze vissute», chi di noi ha sufficiente serietà di fronte a esse? O anche sufficiente tempo? In tali faccende, temo, non siamo mai stati davvero «attenti alla cosa stessa»: infatti non è lí il nostro cuore, e neppure il nostro orecchio! Piuttosto, come un uomo divinamente distratto o sprofondato in se stesso al quale la campana abbia fatto rimbombare con forza all’orecchio i dodici rintocchi del mezzogiorno si desta d’un tratto e si domanda: «Che cosa ha suonato?», cosí anche noi talvolta ci strofiniamo in ritardo le orecchie e ci domandiamo, stupiti, confusi: «Che cosa abbiamo appena vissuto?» e, piú ancora: «Chi siamo noi, propriamente?» E ci mettiamo a contare – in ritardo, come si è detto – tutti i dodici tremuli rintocchi di campana della nostra esperienza vissuta, della nostra vita, del nostro essere: ahinoi! e perdiamo il conto… Restiamo appunto necessariamente estranei a noi stessi, non ci comprendiamo, dobbiamo necessariamente confonderci con altri, per noi vale in eterno il principio: «Ognuno è a se stesso il piú lontano»2 – per noi stessi, non siamo affatto «uomini della conoscenza»…

2.

I miei pensieri sull’origine dei nostri pregiudizi morali (perché di essi si tratta, in questo scritto polemico) hanno avuto la loro prima espressione, provvisoria e sporadica, in quella raccolta di aforismi che reca il titolo di Umano, troppo umano. Un libro per spiriti liberi, e la cui stesura fu iniziata a Sorrento, durante un inverno che mi concesse di fare una sosta, come un viandante, e di ripercorrere con lo sguardo la vasta e pericolosa regione nella quale il mio spirito si era fino ad allora aggirato. Ciò accadde nell’inverno tra il 1876 e il 1877; i pensieri, in sé, sono anteriori. Erano già, in sostanza, gli stessi pensieri che ora riprendo nelle presenti dissertazioni: speriamo che il lungo intervallo abbia loro giovato, e che essi siano diventati piú maturi, piú chiari, piú forti, piú compiuti! Ma il fatto che ancora oggi io tenga fermamente a essi, e che essi stessi nel frattempo si siano dati un sostegno reciproco sempre piú saldo, siano anzi cresciuti insieme fino a fondersi l’uno con l’altro, rafforza in me la lieta fiducia che fin da principio non siano sorti in me singolarmente, a caso, sporadicamente, ma piuttosto da una comune radice, da una fondamentale volontà della conoscenza, dominante nel profondo, che parlava in modo sempre piú determinato ed esigeva qualcosa di sempre piú determinato. Solo questo, infatti, si addice a un filosofo. Noi non abbiamo nessun diritto di essere, in qualsiasi cosa, isolati: non ci è consentito né di sbagliare isolatamente né di cogliere da soli la verità. Piuttosto, con la stessa necessità con cui un albero reca i suoi frutti, da noi crescono i nostri pensieri, i nostri valori, i nostri sí e i nostri no, i nostri se e qualora, tutti affini e in relazione reciproca, e testimonianze di un’unica volontà, di un’unica salute, di un’unica terra, di un unico sole. Forse a voi piacciono, questi nostri frutti? Ma che cosa importa, questo, agli alberi! – Che cosa importa a noi, a noi filosofi!…

3.

Con una scrupolosità che è mia propria, e che confesso malvolentieri (si riferisce infatti alla morale, a tutto ciò che finora è stato solennizzato sulla terra come morale), con una scrupolosità che nella mia vita è emersa cosí precocemente, cosí inattesa, cosí irresistibile, cosí in contraddizione con l’ambiente, l’età, l’esempio, l’origine, che avrei quasi il diritto di chiamarla il mio «a priori», la mia curiosità e insieme il mio sospetto dovettero fermarsi per tempo alla questione di quale origine abbiano propriamente il nostro bene e il nostro male. In realtà, il problema dell’origine del male mi perseguitava già quando avevo tredici anni: a esso dedicai, in un’età in cui si hanno in cuore «un poco i tuoi balocchi e un poco Dio»3, il mio primo gioco di bimbi letterario, il mio primo esercizio di calligrafia filosofica – e, per quanto concerne la mia «soluzione», a quell’epoca, del problema, ebbene, va da sé che resi l’onore a Dio e ne feci il padre del male. Ma voleva proprio questo, da me, il mio «a priori»? Quel nuovo «a priori» immorale, o almeno immoralistico, e quell’«imperativo categorico» che da esso parlava, ahimè, in modo cosí antikantiano ed enigmatico, e al quale intanto io prestavo sempre piú orecchio, e non solo orecchio?... Per fortuna, imparai per tempo a separare il pregiudizio teologico da quello morale, e non cercai piú l’origine del male dietro il mondo. Un poco di addestramento storico e filologico, con l’aggiunta di un’innata finezza di fronte ai problemi psicologici in generale, mutò in breve il mio problema nell’altro: sotto quali condizioni l’uomo si inventò quei giudizi di valore, buono e malvagio? E quale valore hanno essi stessi? Finora hanno frenato oppure favorito il prosperare degli uomini? Sono un segno di angustia, di impoverimento, di degenerazione della vita? Oppure, al contrario, si rivela in essi la pienezza, la forza, la volontà della vita, il suo coraggio, la sua fiducia, il suo avvenire?
A queste domande trovai, e osai dentro di me, molte risposte: distinsi epoche, popoli, stabilii differenze di rango tra gli individui, specificai il mio problema, e dalle risposte sorsero nuove domande, indagini, supposizioni, verisimiglianze – finché ebbi un mio proprio territorio, un suolo mio, tutto un mondo silenzioso in crescita e in fiore, quasi dei giardini segreti di cui nessuno poteva presagire nulla… Oh, come siamo felici, noi uomini della conoscenza, a patto che sappiamo tacere abbastanza a lungo!…

4.

Il primo impulso a permettere che si udisse qualcosa delle mie ipotesi sull’origine della morale mi fu dato da un libriccino chiaro, limpido e avveduto, e forse anche un poco saccente, in cui per la prima volta mi si presentò una specie capovolta e perversa di ipotesi genealogiche, la specie propriamente inglese, e che mi attrasse con la forza di attrazione che è propria di tutto ciò che è opposto, agli antipodi. Il titolo del libriccino era L’origine delle sensazioni morali; il suo autore, il dottor Paul Rée; l’anno della pubblicazione, il 1877. Forse non ho mai letto qualcosa alla quale, come nel caso di questo libro, a ogni proposizione, a ogni deduzione io dentro di me abbia detto un no: e però senza fastidio, o impazienza. Nell’opera suaccennata, alla quale stavo lavorando a quel tempo, mi riferii, che se ne presentasse o no l’occasione, alle tesi di quel libro: non confutandole (che mai ho a che fare, io, con le confutazioni?) ma, come si addice a uno spirito positivo, sostituendo all’inverisimile il piú verisimile, e anche, nel caso, a un errore un altro errore. Come ho detto, fu allora che diedi alla luce per la prima volta quelle ipotesi sull’origine alle quali sono dedicate queste dissertazioni: però in un modo goffo, come vorrei poter nascondere a me stesso, e ancora non libero, ancora privo del linguaggio proprio che è necessario per queste cose proprie, e inoltre con varie ricadute e incertezze. In particolare, si confronti quello che io dico in Umano, troppo umano4 sulla doppia preistoria di bene e male (a seconda che siano nati dalla sfera degli aristocratici o da quella degli schiavi); cosí pure5 sul valore e l’origine della morale ascetica; e ancora6 sull’«eticità del costume», quella specie molto piú antica e originaria di morale che è distante toto coelo dal modo altruistico di valutazione (in cui il dottor Rée, come tutti i genealogisti inglesi della morale, vede il modo di valutazione morale in sé); e ancora piú avanti7. Poi il Viandante8, e Aurora9, sull’origine della giustizia come accomodamento tra potenti quasi pari (l’equilibrio come presupposto di tutti i patti, e quindi di ogni diritto); e cosí pure sull’origine della pena (Viandante)10, per la quale lo scopo terroristico non è né essenziale né originario (come opina invece il dottor Rée: esso piuttosto è stato sovrapposto in determinate circostanze, e sempre come qualcosa di accessorio, di aggiunto).

5.

In fondo, proprio allora mi stava a cuore qualcosa di molto piú importante che un complesso di ipotesi, proprie o altrui, sull’origine della morale (piú esattamente: quest’ultima mi stava a cuore solo per uno scopo in vista del quale essa è un mezzo tra tanti). Si trattava, per me, del valore della morale, e su questo dovevo confrontarmi quasi soltanto con il mio grande maestro Schopenhauer, al quale si rivolgeva, come a un contemporaneo, quel libro, la passione e la segreta opposizione di quel libro (anch’esso era infatti uno «scritto polemico»). Si trattava, in particolare, del valore del «non egoistico», degli istinti di compassione, di autonegazione e di autosacrificio, che appunto Schopenhauer aveva tanto lungamente indorati, divinizzati e trasposti nell’aldilà che gli rimasero infine come i «valori in sé» sul fondamento dei quali egli disse di no alla vita, e anche a se stesso. Ma proprio contro questi istinti parlava in me un sospetto sempre piú radicale, una scepsi che scavava sempre piú a fondo! Proprio qui vedevo il grande pericolo dell’umanità, la sua piú sublime lusinga e seduzione (ma verso dove? verso il nulla?), proprio qui io vedevo il principio della fine, il fermarsi, la stanchezza che volge indietro lo sguardo, la volontà che si rivolge contro la vita, l’estrema malattia, che si annuncia dolcemente e melanconicamente: io intesi la morale della compassione, che si diffondeva sempre piú, che conquistava anche i filosofi e li rendeva malati, come il sintomo piú sgradevole della nostra cultura europea divenuta sgradevole, come una sua deviazione verso un nuovo buddhismo, verso un buddhismo europeo, o forse verso… il nichilismo! Questa moderna predilezione e sopravvalutazione filosofica della compassione è infatti una novità: proprio sul non valore della compassione finora i filosofi si erano trovati d’accordo. Nomino soltanto Platone, Spinoza, La Rochefoucauld e Kant, quattro spiriti quanto piú è possibile diversi tra loro, ma in una cosa tutti d’accordo: nel disprezzare la compassione.

6.

Questo problema del valore della compassione, e della morale della compassione (io sono un avversario dello scandaloso infrollimento moderno dei sentimenti), a prima vista sembra essere qualcosa di isolato, un interrogativo a sé; ma a chi una volta si fermi su questo punto, a chi su questo punto impari a porre domande, capiterà quello che è capitato a me: gli si aprirà un immenso, nuovo panorama, una possibilità lo afferrerà come una vertigine, balzerà fuori ogni sorta di diffidenza, sospetto, paura, vacillerà la sua fede nella morale, in ogni morale, e infine in lui si manifesterà una nuova esigenza. Esprimiamola, questa nuova esigenza: abbiamo necessità di una critica dei valori morali, dev’essere messo in dubbio una buona volta il valore stesso di questi valori, e per questo è necessaria una conoscenza delle condizioni e delle circostanze dalle quali sono cresciuti, tra le quali si sono sviluppati e trasformati (morale come conseguenza, come sintomo, come maschera, come tartuferia, come malattia, come fraintendimento; ma anche morale come causa, come terapia, come stimulans, come freno, come veleno): una conoscenza quale non c’è mai stata finora, e neppure è mai stata bramata. Si prendeva il valore di questi «valori» come dato, come un fatto reale, al di là di ogni possibile messa in discussione; finora non si è neppure lontanamente dubitato ed esitato nel porre il «buono» come di maggior valore rispetto al «malvagio», di maggior valore nel senso del progresso, dell’utilità, della prosperità, in vista dell’uomo in generale (compreso l’avvenire dell’uomo). Come? E se la verità fosse proprio l’opposto? Come? E se nel «buono» ci fosse anche un sintomo di regresso e insieme un pericolo, una seduzione, un veleno, un narcotico, attraverso il quale ad esempio il presente vivesse a spese dell’avvenire? Magari piú comodamente, certo, e con meno pericolo, ma anche in stile minore, e piú basso?… Cosí che proprio la morale sarebbe colpevole del fatto che una suprema potenza e magnificenza del tipo uomo, in sé possibile, non sia mai stata raggiunta? Cosí che proprio la morale sarebbe il pericolo dei pericoli?…

7.

Insomma, da quando mi si aprí questa prospettiva io stesso ebbi buon motivo di guardarmi intorno alla ricerca di compagni dotti, audaci e laboriosi (lo faccio ancora oggi). Si tratta di percorrere l’immensa, lontana e tanto nascosta regione della morale (della morale realmente esistita, realmente vissuta) con nuove domande e quasi con nuovi occhi: e questo non è come scoprire per la prima volta questa regione?… Se a questo proposito ho pensato anche, tra gli altri, al citato dottor Rée, è stato perché io non dubitavo che egli sarebbe stato spinto dalla natura stessa dei suoi interrogativi verso un metodo piú giusto, per poter arrivare a delle risposte. Mi sono forse ingannato? Era in ogni modo mio desiderio dare a un occhio tanto acuto e imparziale una direzione migliore, la direzione verso l’effettiva storia della morale, e metterlo in guardia per tempo da quel complesso inglese di ipotesi campate in aria, nell’azzurro del cielo. È chiaro quale colore deve essere cento volte piú importante dell’azzurro per un genealogista della morale: il grigio, voglio dire il documentato, ciò che effettivamente può essere stabilito, che effettivamente è stato, insomma tutta la lunga e difficilmente decifrabile scrittura geroglifica del passato morale dell’uomo! Tutto questo era ignoto al dottor Rée, ma egli aveva letto Darwin: e cosí nelle sue ipotesi si dànno educatamente la mano, in maniera per lo meno divertente, la bestia darwiniana e il modesto, modernissimo effeminato della morale, quello che «ormai non morde piú»: quest’ultimo con in volto un’espressione di bonaria e leggiadra indolenza, nella quale è perfino mescolato un grano di pessimismo, di stanchezza, quasi non valesse la pena di prendere cosí sul serio tutte queste cose, cioè appunto i problemi della morale. Proprio all’opposto, a me pare che non ci siano cose che piú di queste diano una ricompensa a chi le prenda sul serio; e tra queste ricompense c’è, ad esempio, che un giorno ci si possa permettere di prenderle con ilarità. L’ilarità infatti, o, per dirlo nel mio linguaggio, la gaia scienza, è una ricompensa: una ricompensa per una lunga, coraggiosa, laboriosa e sotterranea serietà, che certo non è cosa da tutti. Ma il giorno in cui diremo di tutto cuore: «Avanti! Anche la nostra vecchia morale fa parte della commedia!», quel giorno avremo scoperto un nuovo intreccio e una nuova possibilità per il dramma dionisiaco del «destino dell’anima»: e c’è da scommettere che saprà servirsene, il grande, l’antico, l’eterno commediografo della nostra esistenza!

8.

Se questo scritto per qualcuno è incomprensibile, oppure urta il suo orecchio, la colpa, mi pare, non è necessariamente mia. È...

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