La traduzione Ăš basata sul testo dellâedizione critica Colli-Montinari (F. Nietzsche, Werke, VI, 2, Walter de Gruyter & Co., Berlin 1968). Le note a piĂš di pagina sono del traduttore, cosĂ come le versioni dei testi citati ove non diversamente indicato.
1.
Siamo sconosciuti a noi stessi, noi uomini della conoscenza: noi stessi a noi stessi, e di questo câĂš un buon motivo. Non siamo mai andati alla ricerca di noi stessi: come sarebbe potuto accadere che un giorno ci trovassimo? A ragione Ăš stato detto: «Dove Ăš il vostro tesoro, lĂ Ăš anche il vostro cuore»1; il nostro tesoro Ăš lĂ dove sono gli alveari della nostra conoscenza. Per questo scopo siamo sempre per via, come se fin dalla nascita fossimo animali alati, raccoglitori del miele dello spirito, e di cuore ci preoccupiamo davvero soltanto di una cosa, di «portare a casa» qualcosa. Per quanto concerne invece la vita, le cosiddette «esperienze vissute», chi di noi ha sufficiente serietĂ di fronte a esse? O anche sufficiente tempo? In tali faccende, temo, non siamo mai stati davvero «attenti alla cosa stessa»: infatti non Ăš lĂ il nostro cuore, e neppure il nostro orecchio! Piuttosto, come un uomo divinamente distratto o sprofondato in se stesso al quale la campana abbia fatto rimbombare con forza allâorecchio i dodici rintocchi del mezzogiorno si desta dâun tratto e si domanda: «Che cosa ha suonato?», cosĂ anche noi talvolta ci strofiniamo in ritardo le orecchie e ci domandiamo, stupiti, confusi: «Che cosa abbiamo appena vissuto?» e, piĂș ancora: «Chi siamo noi, propriamente?» E ci mettiamo a contare â in ritardo, come si Ăš detto â tutti i dodici tremuli rintocchi di campana della nostra esperienza vissuta, della nostra vita, del nostro essere: ahinoi! e perdiamo il conto⊠Restiamo appunto necessariamente estranei a noi stessi, non ci comprendiamo, dobbiamo necessariamente confonderci con altri, per noi vale in eterno il principio: «Ognuno Ăš a se stesso il piĂș lontano»2 â per noi stessi, non siamo affatto «uomini della conoscenza»âŠ
2.
I miei pensieri sullâorigine dei nostri pregiudizi morali (perchĂ© di essi si tratta, in questo scritto polemico) hanno avuto la loro prima espressione, provvisoria e sporadica, in quella raccolta di aforismi che reca il titolo di Umano, troppo umano. Un libro per spiriti liberi, e la cui stesura fu iniziata a Sorrento, durante un inverno che mi concesse di fare una sosta, come un viandante, e di ripercorrere con lo sguardo la vasta e pericolosa regione nella quale il mio spirito si era fino ad allora aggirato. CiĂČ accadde nellâinverno tra il 1876 e il 1877; i pensieri, in sĂ©, sono anteriori. Erano giĂ , in sostanza, gli stessi pensieri che ora riprendo nelle presenti dissertazioni: speriamo che il lungo intervallo abbia loro giovato, e che essi siano diventati piĂș maturi, piĂș chiari, piĂș forti, piĂș compiuti! Ma il fatto che ancora oggi io tenga fermamente a essi, e che essi stessi nel frattempo si siano dati un sostegno reciproco sempre piĂș saldo, siano anzi cresciuti insieme fino a fondersi lâuno con lâaltro, rafforza in me la lieta fiducia che fin da principio non siano sorti in me singolarmente, a caso, sporadicamente, ma piuttosto da una comune radice, da una fondamentale volontĂ della conoscenza, dominante nel profondo, che parlava in modo sempre piĂș determinato ed esigeva qualcosa di sempre piĂș determinato. Solo questo, infatti, si addice a un filosofo. Noi non abbiamo nessun diritto di essere, in qualsiasi cosa, isolati: non ci Ăš consentito nĂ© di sbagliare isolatamente nĂ© di cogliere da soli la veritĂ . Piuttosto, con la stessa necessitĂ con cui un albero reca i suoi frutti, da noi crescono i nostri pensieri, i nostri valori, i nostri sĂ e i nostri no, i nostri se e qualora, tutti affini e in relazione reciproca, e testimonianze di unâunica volontĂ , di unâunica salute, di unâunica terra, di un unico sole. Forse a voi piacciono, questi nostri frutti? Ma che cosa importa, questo, agli alberi! â Che cosa importa a noi, a noi filosofi!âŠ
3.
Con una scrupolositĂ che Ăš mia propria, e che confesso malvolentieri (si riferisce infatti alla morale, a tutto ciĂČ che finora Ăš stato solennizzato sulla terra come morale), con una scrupolositĂ che nella mia vita Ăš emersa cosĂ precocemente, cosĂ inattesa, cosĂ irresistibile, cosĂ in contraddizione con lâambiente, lâetĂ , lâesempio, lâorigine, che avrei quasi il diritto di chiamarla il mio «a priori», la mia curiositĂ e insieme il mio sospetto dovettero fermarsi per tempo alla questione di quale origine abbiano propriamente il nostro bene e il nostro male. In realtĂ , il problema dellâorigine del male mi perseguitava giĂ quando avevo tredici anni: a esso dedicai, in unâetĂ in cui si hanno in cuore «un poco i tuoi balocchi e un poco Dio»3, il mio primo gioco di bimbi letterario, il mio primo esercizio di calligrafia filosofica â e, per quanto concerne la mia «soluzione», a quellâepoca, del problema, ebbene, va da sĂ© che resi lâonore a Dio e ne feci il padre del male. Ma voleva proprio questo, da me, il mio «a priori»? Quel nuovo «a priori» immorale, o almeno immoralistico, e quellâ«imperativo categorico» che da esso parlava, ahimĂš, in modo cosĂ antikantiano ed enigmatico, e al quale intanto io prestavo sempre piĂș orecchio, e non solo orecchio?... Per fortuna, imparai per tempo a separare il pregiudizio teologico da quello morale, e non cercai piĂș lâorigine del male dietro il mondo. Un poco di addestramento storico e filologico, con lâaggiunta di unâinnata finezza di fronte ai problemi psicologici in generale, mutĂČ in breve il mio problema nellâaltro: sotto quali condizioni lâuomo si inventĂČ quei giudizi di valore, buono e malvagio? E quale valore hanno essi stessi? Finora hanno frenato oppure favorito il prosperare degli uomini? Sono un segno di angustia, di impoverimento, di degenerazione della vita? Oppure, al contrario, si rivela in essi la pienezza, la forza, la volontĂ della vita, il suo coraggio, la sua fiducia, il suo avvenire?
A queste domande trovai, e osai dentro di me, molte risposte: distinsi epoche, popoli, stabilii differenze di rango tra gli individui, specificai il mio problema, e dalle risposte sorsero nuove domande, indagini, supposizioni, verisimiglianze â finchĂ© ebbi un mio proprio territorio, un suolo mio, tutto un mondo silenzioso in crescita e in fiore, quasi dei giardini segreti di cui nessuno poteva presagire nulla⊠Oh, come siamo felici, noi uomini della conoscenza, a patto che sappiamo tacere abbastanza a lungo!âŠ
4.
Il primo impulso a permettere che si udisse qualcosa delle mie ipotesi sullâorigine della morale mi fu dato da un libriccino chiaro, limpido e avveduto, e forse anche un poco saccente, in cui per la prima volta mi si presentĂČ una specie capovolta e perversa di ipotesi genealogiche, la specie propriamente inglese, e che mi attrasse con la forza di attrazione che Ăš propria di tutto ciĂČ che Ăš opposto, agli antipodi. Il titolo del libriccino era Lâorigine delle sensazioni morali; il suo autore, il dottor Paul RĂ©e; lâanno della pubblicazione, il 1877. Forse non ho mai letto qualcosa alla quale, come nel caso di questo libro, a ogni proposizione, a ogni deduzione io dentro di me abbia detto un no: e perĂČ senza fastidio, o impazienza. Nellâopera suaccennata, alla quale stavo lavorando a quel tempo, mi riferii, che se ne presentasse o no lâoccasione, alle tesi di quel libro: non confutandole (che mai ho a che fare, io, con le confutazioni?) ma, come si addice a uno spirito positivo, sostituendo allâinverisimile il piĂș verisimile, e anche, nel caso, a un errore un altro errore. Come ho detto, fu allora che diedi alla luce per la prima volta quelle ipotesi sullâorigine alle quali sono dedicate queste dissertazioni: perĂČ in un modo goffo, come vorrei poter nascondere a me stesso, e ancora non libero, ancora privo del linguaggio proprio che Ăš necessario per queste cose proprie, e inoltre con varie ricadute e incertezze. In particolare, si confronti quello che io dico in Umano, troppo umano4 sulla doppia preistoria di bene e male (a seconda che siano nati dalla sfera degli aristocratici o da quella degli schiavi); cosĂ pure5 sul valore e lâorigine della morale ascetica; e ancora6 sullâ«eticitĂ del costume», quella specie molto piĂș antica e originaria di morale che Ăš distante toto coelo dal modo altruistico di valutazione (in cui il dottor RĂ©e, come tutti i genealogisti inglesi della morale, vede il modo di valutazione morale in sĂ©); e ancora piĂș avanti7. Poi il Viandante8, e Aurora9, sullâorigine della giustizia come accomodamento tra potenti quasi pari (lâequilibrio come presupposto di tutti i patti, e quindi di ogni diritto); e cosĂ pure sullâorigine della pena (Viandante)10, per la quale lo scopo terroristico non Ăš nĂ© essenziale nĂ© originario (come opina invece il dottor RĂ©e: esso piuttosto Ăš stato sovrapposto in determinate circostanze, e sempre come qualcosa di accessorio, di aggiunto).
5.
In fondo, proprio allora mi stava a cuore qualcosa di molto piĂș importante che un complesso di ipotesi, proprie o altrui, sullâorigine della morale (piĂș esattamente: questâultima mi stava a cuore solo per uno scopo in vista del quale essa Ăš un mezzo tra tanti). Si trattava, per me, del valore della morale, e su questo dovevo confrontarmi quasi soltanto con il mio grande maestro Schopenhauer, al quale si rivolgeva, come a un contemporaneo, quel libro, la passione e la segreta opposizione di quel libro (anchâesso era infatti uno «scritto polemico»). Si trattava, in particolare, del valore del «non egoistico», degli istinti di compassione, di autonegazione e di autosacrificio, che appunto Schopenhauer aveva tanto lungamente indorati, divinizzati e trasposti nellâaldilĂ che gli rimasero infine come i «valori in sé» sul fondamento dei quali egli disse di no alla vita, e anche a se stesso. Ma proprio contro questi istinti parlava in me un sospetto sempre piĂș radicale, una scepsi che scavava sempre piĂș a fondo! Proprio qui vedevo il grande pericolo dellâumanitĂ , la sua piĂș sublime lusinga e seduzione (ma verso dove? verso il nulla?), proprio qui io vedevo il principio della fine, il fermarsi, la stanchezza che volge indietro lo sguardo, la volontĂ che si rivolge contro la vita, lâestrema malattia, che si annuncia dolcemente e melanconicamente: io intesi la morale della compassione, che si diffondeva sempre piĂș, che conquistava anche i filosofi e li rendeva malati, come il sintomo piĂș sgradevole della nostra cultura europea divenuta sgradevole, come una sua deviazione verso un nuovo buddhismo, verso un buddhismo europeo, o forse verso⊠il nichilismo! Questa moderna predilezione e sopravvalutazione filosofica della compassione Ăš infatti una novitĂ : proprio sul non valore della compassione finora i filosofi si erano trovati dâaccordo. Nomino soltanto Platone, Spinoza, La Rochefoucauld e Kant, quattro spiriti quanto piĂș Ăš possibile diversi tra loro, ma in una cosa tutti dâaccordo: nel disprezzare la compassione.
6.
Questo problema del valore della compassione, e della morale della compassione (io sono un avversario dello scandaloso infrollimento moderno dei sentimenti), a prima vista sembra essere qualcosa di isolato, un interrogativo a sĂ©; ma a chi una volta si fermi su questo punto, a chi su questo punto impari a porre domande, capiterĂ quello che Ăš capitato a me: gli si aprirĂ un immenso, nuovo panorama, una possibilitĂ lo afferrerĂ come una vertigine, balzerĂ fuori ogni sorta di diffidenza, sospetto, paura, vacillerĂ la sua fede nella morale, in ogni morale, e infine in lui si manifesterĂ una nuova esigenza. Esprimiamola, questa nuova esigenza: abbiamo necessitĂ di una critica dei valori morali, devâessere messo in dubbio una buona volta il valore stesso di questi valori, e per questo Ăš necessaria una conoscenza delle condizioni e delle circostanze dalle quali sono cresciuti, tra le quali si sono sviluppati e trasformati (morale come conseguenza, come sintomo, come maschera, come tartuferia, come malattia, come fraintendimento; ma anche morale come causa, come terapia, come stimulans, come freno, come veleno): una conoscenza quale non câĂš mai stata finora, e neppure Ăš mai stata bramata. Si prendeva il valore di questi «valori» come dato, come un fatto reale, al di lĂ di ogni possibile messa in discussione; finora non si Ăš neppure lontanamente dubitato ed esitato nel porre il «buono» come di maggior valore rispetto al «malvagio», di maggior valore nel senso del progresso, dellâutilitĂ , della prosperitĂ , in vista dellâuomo in generale (compreso lâavvenire dellâuomo). Come? E se la veritĂ fosse proprio lâopposto? Come? E se nel «buono» ci fosse anche un sintomo di regresso e insieme un pericolo, una seduzione, un veleno, un narcotico, attraverso il quale ad esempio il presente vivesse a spese dellâavvenire? Magari piĂș comodamente, certo, e con meno pericolo, ma anche in stile minore, e piĂș basso?⊠CosĂ che proprio la morale sarebbe colpevole del fatto che una suprema potenza e magnificenza del tipo uomo, in sĂ© possibile, non sia mai stata raggiunta? CosĂ che proprio la morale sarebbe il pericolo dei pericoli?âŠ
7.
Insomma, da quando mi si aprĂ questa prospettiva io stesso ebbi buon motivo di guardarmi intorno alla ricerca di compagni dotti, audaci e laboriosi (lo faccio ancora oggi). Si tratta di percorrere lâimmensa, lontana e tanto nascosta regione della morale (della morale realmente esistita, realmente vissuta) con nuove domande e quasi con nuovi occhi: e questo non Ăš come scoprire per la prima volta questa regione?⊠Se a questo proposito ho pensato anche, tra gli altri, al citato dottor RĂ©e, Ăš stato perchĂ© io non dubitavo che egli sarebbe stato spinto dalla natura stessa dei suoi interrogativi verso un metodo piĂș giusto, per poter arrivare a delle risposte. Mi sono forse ingannato? Era in ogni modo mio desiderio dare a un occhio tanto acuto e imparziale una direzione migliore, la direzione verso lâeffettiva storia della morale, e metterlo in guardia per tempo da quel complesso inglese di ipotesi campate in aria, nellâazzurro del cielo. Ă chiaro quale colore deve essere cento volte piĂș importante dellâazzurro per un genealogista della morale: il grigio, voglio dire il documentato, ciĂČ che effettivamente puĂČ essere stabilito, che effettivamente Ăš stato, insomma tutta la lunga e difficilmente decifrabile scrittura geroglifica del passato morale dellâuomo! Tutto questo era ignoto al dottor RĂ©e, ma egli aveva letto Darwin: e cosĂ nelle sue ipotesi si dĂ nno educatamente la mano, in maniera per lo meno divertente, la bestia darwiniana e il modesto, modernissimo effeminato della morale, quello che «ormai non morde piĂș»: questâultimo con in volto unâespressione di bonaria e leggiadra indolenza, nella quale Ăš perfino mescolato un grano di pessimismo, di stanchezza, quasi non valesse la pena di prendere cosĂ sul serio tutte queste cose, cioĂš appunto i problemi della morale. Proprio allâopposto, a me pare che non ci siano cose che piĂș di queste diano una ricompensa a chi le prenda sul serio; e tra queste ricompense câĂš, ad esempio, che un giorno ci si possa permettere di prenderle con ilaritĂ . LâilaritĂ infatti, o, per dirlo nel mio linguaggio, la gaia scienza, Ăš una ricompensa: una ricompensa per una lunga, coraggiosa, laboriosa e sotterranea serietĂ , che certo non Ăš cosa da tutti. Ma il giorno in cui diremo di tutto cuore: «Avanti! Anche la nostra vecchia morale fa parte della commedia!», quel giorno avremo scoperto un nuovo intreccio e una nuova possibilitĂ per il dramma dionisiaco del «destino dellâanima»: e câĂš da scommettere che saprĂ servirsene, il grande, lâantico, lâeterno commediografo della nostra esistenza!
8.
Se questo scritto per qualcuno Ăš incomprensibile, oppure urta il suo orecchio, la colpa, mi pare, non Ăš necessariamente mia. Ă...