Praga magica
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Praga magica

Angelo Maria Ripellino

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Praga magica

Angelo Maria Ripellino

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Il libro mostra, al di là del cliché turistico di Praga, «città d'oro», tutta l'arcana sostanza, le ambiguità, il tenebrismo, il torpore, il fascino nascosto della città boema. Il capolavoro di un saggista profondamente innamorato della sua materia, ma anche struggentemente poeta in proprio. Praga narrata non solo nei suoi splendori, ma anche nelle sue ombre non meno fascinose: quelle del Quartiere ebraico, del Golem, delle taverne, degli stranieri che vi abitarono, della letteratura tedesca che vi fiorí, di Hasek e di Kafka, di Apollinaire, di Meyrink e dei dadaisti boemi.

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Information

Publisher
EINAUDI
Year
2013
ISBN
9788858409565

Parte prima

1.

Ancor oggi, ogni notte, alle cinque, Franz Kafka ritorna a via Celetná (Zeltnergasse) a casa sua, con bombetta, vestito di nero. Ancor oggi, ogni notte, Jaroslav Hašek, in qualche taverna, proclama ai compagni di gozzoviglia che il radicalismo è dannoso e che il sano progresso si può raggiungere solo nell’obbedienza. Praga vive ancora nel segno di questi due scrittori, che meglio di altri hanno espresso la sua condanna senza rimedio, e perciò il suo malessere, il suo malumore, i ripieghi della sua astuzia, la sua finzione, la sua ironia carceraria.
Ancor oggi, ogni notte, alle cinque, Vítězslav Nezval ritorna dall’afa dei bar, delle bettole alla propria mansarda nel quartiere di Troja, attraversando la Vltava con una zàttera1. Ancor oggi, ogni notte, alle cinque, i massicci cavalli dei birrai escono dalle rimesse di Smíchov. Ogni notte, alle cinque, si destano i gotici busti della galleria di sovrani, architetti, arcivescovi nel triforio di San Vito. Ancor oggi due zoppicanti soldati con le baionette inastate, al mattino, conducono Josef Švejk giú da Hradčany per il Ponte Carlo verso la Città Vecchia, e in senso contrario, ancor oggi, la notte, a lume di luna, due guitti lucidi e grassi, due manichini da panoptikum, due automi in finanziera e cilindro accompagnano per lo stesso ponte Josef K. verso la cava di Strahov al supplizio.
Ancor oggi il Fuoco effigiato dall’Arcimboldo con svolazzanti capelli di fiamme si precipita giú dal Castello, e il ghetto si incendia con le sue scrignute catapecchie di legno, e gli svedesi di Königsmark trascinano cannoni per Malá Strana, e Stalin ammicca malèfico dal madornale monumento, e soldatesche in continue manovre percorrono il paese, come dopo la sconfitta della Montagna Bianca. Praga «fu sempre città di avventurieri», si legge in un dialogo di Miloš Marten, «per secoli nido di avventurieri senza pietà né legami. Venivano a frotte dalle quattro parti del mondo a predare, a spassarsela, a spadroneggiare»: «e ciascuno strappava, ingoiava un pezzo della viva polpa di questa misera terra, la quale dava sino a esaurirsi, senza che alcuno le si desse, per ripagarla di ciò che le aveva tolto»2.
Troppo spesso asservita ed afflitta da ruberie e da soprusi, troppo spesso teatro alla spocchia di prepotenti stranieri, di masnade bruttissime di lanzichenecchi e gradassi, che ne fecero strazio e si lupeggiarono ogni sua sostanza. Quanti grugni porcini, impacciandosi nelle occorrenze di Praga, vi si sono accampati nel corso dei tempi: squassapennacchi dalle armature dorate e dal gonfio petto tintinnante di cióndoli, fratacchioni di tutte le confratèrnite e prelati del porta inferi, Obergauner che piombavano in side-car, seminando rovina, e machiavellisti e fratelli traditorissimi, e ceffi mongolici come in racconti di Meyrink, e qualche assessore di collegio caucasico, preposto a imbavagliare il pensiero, e ciurme di regolisti e di sgherri che, puntando il mitra, sbaiaffano fagiolate ideologiche, e interi conclavi di generali capocchi, tra i quali sia ricordato; per le innumere placche e medaglie che lo avviluppano, lo zelante Episciòv, coglione in crèmisi.
Alla soglia della seconda guerra mondiale Josef Čapek, che sarebbe perito in un Lager nazistico, narrò in un ciclo di caricature la storia di due protervi stivali, due neri víscidi guitti che, moltiplicandosi come le salamandre, spargono per l’universo menzogna, sfacelo e morte3. Ancor oggi pesanti stivali calpestano Praga, ne strozzano l’inventiva, il respiro, l’intelligenza. E, sebbene ciascuno di noi non si stanchi di sperare che queste sciagurate scarpacce, come quelle che disegnò Josef Čapek, finiscano tra le cianfrusaglie di Chronos, il Gran Rigattiere, tuttavia molti si chiedono se, data la brevità della vita, ciò non accadrà troppo tardi.
1 Cfr. VÍTĚZSLAV NEZVAL, Z mého života, Praha 1959, pp. 177-79, e JIŘÍ SVOBODA, Přítel Vítězslav Nezval, Praha 1966, p. 203.
2 MILOŠ MARTEN, Nad městem (1917), Praha 1924, p. 24.
3 JOSEF ČAPEK, Diktátorské boty (1937), in Dějiny zblízka (Soubor satirických kreseb), a cura di Otakar Mrkvička, Praha 1949. Cfr. JAROMÍR PEČÍRKA, Josef Čapek, Praha 1961, p. 82.

2.

Detlev von Liliencron era convinto di esser già vissuto una volta nella capitale boema, non come poeta, ma come capitano dei lanzichenecchi del Wallenstein1. Anch’io ho la certezza di avervi abitato in altre epoche. Forse vi giunsi al séguito della siciliana principessa Perdíta che, in The Winter’s Tale di Shakespeare, va sposa al principe Florizel, figlio di Polissene, re di Boemia. Oppure come scolaro dell’Arcimboldo, «ingegnosissimo pittor fantastico», che dimorò per molti anni alla corte di Sua Maestà Cesarea Rodolfo II2. Lo aiutavo a dipingere i suoi ritratti compòsiti, quegli inquietanti e scurrili mostacci, rigonfi come di porri e di scròfola, che egli imbastiva ammucchiando frutti, fiori, spighe, paglie, animali, cosí come gli Incas mettevano pezzi di zucca nelle guance e occhi d’oro ai cadaveri3.
Oppure, nello stesso torno di tempo, ciarlatano in una baracca a Piazza della Città Vecchia, spacciavo lettovari ed intrugli ai babbioni e, quando gli sbirri scoprirono i miei ingannamenti, feci un leva eius, tornando da Praga come una gazza scodata. O piuttosto vi giunsi con un Caratti, un Alliprandi, un Lurago, con uno dei tanti architetti italiani, che diedero inizio al Barocco nella città vltavina. Ma se guardo il quadro in cui Karel Škréta effigiò (1653) Dionysius Miseroni con una coppa di ònice in mano, mi sembra di aver lavorato, io che amo limar le parole come pietre dure, nella bottega di questo intagliatore, che fu anche custode delle collezioni imperiali.
O forse non c’è bisogno di risalire cosí lontano: semplicemente ero uno dei molti figurinai e stuccatori italiani, che nel secolo scorso affluirono a Praga, aprendovi negozi di statuette di gesso4. Benché sia piú probabile che io appartenessi alla folta schiera di quelli che, a ogni ora del giorno, giravano per le viuzze e i cortili della capitale boema con un organetto, nella cui parte anteriore splendeva un teatrino invetriato. Posavo l’organetto su un tréspolo, alzavo la tela di cànapa che lo ricopriva e, al volgersi della manovella, nella bacheca raffigurante una fuga di piccole sale con sfondo di specchi danzavano a coppie minuscoli vagheggini in marsina e calzoni bianchi, bianche damine con la crinolina e la pettinatura a paniere ed esigui ventagli5.
Ma taluni già da lungo tempo mi hanno identificato con Titorelli, l’imbrattatele, il dispensiere di Kitsch, il quale, oltre a ritratti, dipinge paesaggi stenti ed uguali che a molti non piacciono, perché «troppo tristi»6. E c’è chi pensa che io sia stato quel cliente della banca a cui, nel Processo, K., che sa un po’ di italiano e si intende di arte, dovrebbe mostrare i monumenti di Praga. L’origine meridionale del cliente, i suoi «grossi baffi grigio-bleu» profumati, la sua «giacchettina stretta e corta», i molti gesti delle sue agili mani mi inducono a credere che qualcosa di vero sussista in questo bislacco accostamento. Se è cosí, mi dispiace di non essere andato quel giorno piovoso, freddo, umido all’appuntamento nella cattedrale costruita nel XIV secolo da Matyáš di Arras e da Petr Parléř di Gmünd, mi dispiace di aver fatto attendere invano il signor procuratore7. Se poi mi rammento che Titorelli vien definito «uomo di fiducia del tribunale»8 e che il cliente italiano ne è certo uno strumento segreto, un cursore, allora, nel futile giuoco delle incarnazioni, mi accorgo di essere io stesso morbosamente invischiato nel guazzabuglio malsano di accuse, soffiate, messaggi arcani, sentenze, espiamenti, che costituisce il mistero e il calvario di Praga.
Una sola cosa è sicura, che da secoli io cammino per la città vltavina, mi mescolo alla moltitudine, arranco, girónzolo, annuso tanfo di birra, di fumo di treni, di melma fluviale, potete vedermi là dove, come afferma Kolář, «invisibili mani rimenano sulle spianatoie dei marciapiedi la pasta dei passanti»9, là dove, per dirla con Holan, «i crostini di strade strofinati – con l’aglio della folla un poco puzzano»10.
1 Cfr. OSKAR WIENER, Alt-Prager Guckkasten (Wanderungen durch das romantische Prag), Prag-Wien-Leipzig 1922, p....

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