Azione popolare
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Azione popolare

Cittadini per il bene comune

Salvatore Settis

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Azione popolare

Cittadini per il bene comune

Salvatore Settis

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«Azione popolare» è il pieno esercizio del diritto di cittadinanza, per imporre un'agenda politica centrata sul bene comune. Il suo manifesto esiste già: è la Costituzione. Che società ci aspetta sotto l'assolutismo dei mercati e il ricatto del debito pubblico? Quale ambiente, quale cultura, salute, educazione? Quale giustizia sociale? Serve un'altra idea di Italia per liberare energie civili, creatività, lavoro. Per la Costituzione, lo Stato siamo noi. Cittadini responsabili. In prima persona. Indignarsi non basta. Contro l'indifferenza che uccide la democrazia, contro la tirannia antipolitica dei mercati dobbiamo rilanciare l'etica della cittadinanza. Puntare su mete necessarie: giustizia sociale, tutela dell'ambiente, priorità del bene comune sul profitto del singolo. Far leva sui beni comuni come garanzia delle libertà pubbliche e dei diritti civili. Recuperare spirito comunitario, sapere che non vi sono diritti senza doveri, pensare anche in nome delle generazioni future. Ambiente, patrimonio culturale, salute, ricerca, educazione incarnano valori di cui la Costituzione è il manifesto: libertà, eguaglianza, diritto al lavoro. La comunità dei cittadini è fonte delle leggi e titolare dei diritti. Deve riguadagnare sovranità cercando nei movimenti civici il meccanismo-base della democrazia, il serbatoio delle idee per una nuova agenda della politica. Dare nuova legittimazione alla democrazia rappresentativa facendo esplodere le contraddizioni fra i diritti costituzionali e le pratiche di governo che li calpestano in obbedienza ai mercati. Ricreare la cultura che muove le norme, ripristina la legalità, progetta il futuro. Serve oggi una nuova consapevolezza, una nuova responsabilità. Una forte azione popolare in difesa del bene comune.

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Capitolo sesto

L’Italia rinunzia?

«inaderenza»
L’Italia rinunzia? Questo il titolo di un appassionato scritto di Corrado Alvaro, apparso a puntate nel 1944 sul «Popolo di Roma», poi raccolto in volume nel 1945 (Bompiani), e ristampato da Sellerio (1986) e da Donzelli (2011). Quelle pagine furono scritte appena dopo la liberazione di Roma dalle truppe nazifasciste, mentre si avvicinava la fine della guerra e fiorivano le speranze in una nuova Italia. Speranze, ma anche il timore di una pesante involuzione, che nonostante l’enorme rivolgimento di quel tempo già minacciava di ricacciare il Paese in un vortice di cinismo, speculazione, incompetenza. Il lucido sguardo di Alvaro si appunta su un aspro contrasto: da un lato il popolo italiano, che «diede, nei mesi dell’occupazione, prova di maturità e capacità d’iniziativa»; che «sarebbe un vero serbatoio di élites», tale da far diventare l’Italia «un Paese di qualità, di competenze grandi e piccole, sua sola risorsa per il domani». Dall’altro lato, una classe politica in cui «trionfa la mezza cultura, conformismo e feticismo e mancanza di senso critico»; in cui «il Nord si è presa la parte del gran corruttore, il Sud quella del complice e corrotto». «Una classe dirigente guasta per sempre», inquinata da «mancanza di solidarietà, cinismo, viltà», che «considera delitto parlare dei propri difetti, e piú che il male teme lo scandalo». «Un’immane piramide di sfruttatori», che coltiva «l’insensibilità nei delitti contro il pubblico denaro» e «disprezza ogni forma della tradizione nazionale». Vi era stata in Italia un’«antica, onoranda borghesia creatrice, con attitudine alla mercatura, all’industria, all’agricoltura», ma quel che ne resta «si conta ormai sulle dieci dita». Si sparge invece come «una rogna di cui non si sa come guarire» una nuova borghesia, «che appesta tutto, che confonde tutto, che corrompe il popolo con la sua sola presenza», dando all’Italia «la sua pietosa fama di furberia, tortuosità, vanità, bassa sensualità».
L’antica borghesia italiana, scrive Alvaro, puntava sulla cultura e sull’istruzione, sapeva che «l’Italia non è un paese da livellare, non è un paese di masse», ma ha una «struttura economica tutta fondata e da fondare sull’intelligenza, l’industriosità, la personalità». La nuova borghesia, scatenata nella sua avidità, è impegnata ad assaltare lo Stato, a «trafficare nell’enorme congegno dei benefici» che può ricavarne. Perché la rapina riesca, è necessario confondere le acque, occupare lo Stato in modo che i cittadini «lo sentano come nemico», considerando «quel che appartiene allo Stato come cosa di cui profittare senza scrupoli». Intanto i governanti, che dovrebbero essere «i custodi della nazione», accumulano catastrofi, che ogni volta vengono però «attribuite quasi a fenomeni naturali, a impensati colpi del destino, rimanendo estranea ogni responsabilità individuale». I problemi veri del Paese e le sue alte potenzialità escono dall’orizzonte della politica, la politica indugia in quella che con parola di suo conio Alvaro chiama inaderenza. Una nuvola di cinismo e di trucchi verbali oscura i nostri bisogni evocando dal nulla l’ectoplasma di una dimensione fittizia, non aderente al vero, ma presentata come la sola realtà. «Una manifestazione di potere creativo e di volontà unanime potrebbe salvare questo nostro Paese», conclude Alvaro. O «ancora una volta aspetteremo che la salvezza ci venga da fuori? L’Italia rinunzia?»
È meglio resistere alla tentazione di calare tal quale la spietata diagnosi di Alvaro sugli scenari dell’Italia di oggi. Moltissimo da allora è cambiato: resta tuttavia drammatico il divorzio fra le potenzialità di un popolo ricco di fermenti, di competenze, di idee, e la stagnazione di una politica non solo prigioniera dei propri rituali di autoperpetuazione, ma anche ostaggio di una casta di profittatori che in comune con quella dipinta da Alvaro ha piú d’un tratto. Nello scontro fra il pubblico interesse (o l’utilità sociale) dei cittadini e il tornaconto di chi vuol piegare il Paese al profitto dei pochi, la Costituzione è ancor oggi il massimo manifesto di un’etica e di una politica del bene comune. Perciò essa è, anche, un terreno di battaglia, l’oggetto di continui attacchi volti a depotenziarla, erodendola con un pulviscolo di modifiche o svalutandola nel suo insieme2. La nostra Costituzione nacque da quel misto di speranze e di timori che ispirò le pagine di Alvaro e che si avverte anche nelle discussioni tra i Costituenti, serrate ma sempre saldamente orientate sul bene comune. Perciò in essa libertà, lavoro, uguaglianza, cultura, democrazia convergono entro un disegno coerente, tracciano una strada di valori, un progetto politico. Oggi è giusto, anzi indispensabile, rilanciare con forza la domanda di Alvaro: se dovessimo dimenticare o stravolgere la Costituzione, che cosa andrebbe perso, per il Paese e per i cittadini? Se dovesse restare senza piú la sua Costituzione, a che cosa l’Italia rinunzia?
Tre sono i principali fronti d’attacco dei nemici della Costituzione: potremmo chiamarli l’argomento dell’età, quello dell’utopia e quello del compromesso. L’età: voci interessate, prezzolate o distratte indugiano a definire la Costituzione (come è stato scritto) “un orologio d’antiquariato”, forse prezioso ma certo da mettere in soffitta, e proprio perché ha piú di sessant’anni. Molti di costoro sono gli stessi che non perdono occasione per proclamare incondizionata ammirazione per gli Stati Uniti, indicandoli a modello di democrazia; dovrebbero dunque sapere che la Costituzione americana ha piú di duecento anni ed è considerata quasi come un testo sacro, da interpretare senza alterarne il dettato. Non è sull’età che si misura l’efficacia di una Costituzione, ma sulla sua coerenza e lungimiranza, sulla capacità di prevedere, di indicare valori e traguardi. Sulla fedeltà dei cittadini agli ideali e ai progetti da cui essa nacque.
Piú insidioso è l’“argomento dell’utopia”. Esso si fonda sulla distinzione delle norme costituzionali in programmatiche e precettive. Solo le norme precettive avrebbero valore, in quanto costitutive di diritti. Le norme programmatiche, al contrario, si limiterebbero ad additare remoti obiettivi, senza alcun valore prescrittivo e senza configurare diritti per i cittadini. Conseguenza: tutta la prima parte della Costituzione, essendo “programmatica”, non comporterebbe alcuna conseguenza sulle leggi e sull’ordinamento. Sarebbe, insomma, la generica descrizione di un ideale, una sorta di utopia vagheggiata, non la fissazione di un fine raggiungibile; l’intera impalcatura che abbiamo provato a ripercorrere, fondata su libertà, uguaglianza, giustizia sociale, democrazia, si ridurrebbe a una sognante e vana dichiarazione d’intenti. Per esempio, il diritto al lavoro dell’art. 4 sarebbe una lontana finalità politico-sociale, che non comporta per i cittadini alcun vero diritto. Ma la Corte costituzionale, sin dalla sua prima seduta sotto il suo primo presidente Enrico De Nicola, ha chiaramente affermato che le norme “programmatiche” «fissano principî fondamentali, che si riverberano sull’intera legislazione», hanno «concretezza che non può non vincolare immediatamente il legislatore, ripercuotersi sulla interpretazione della legislazione precedente e sulla perdurante efficacia di alcune parti di questa». Perciò «la distinzione fra norme precettive e norme programmatiche non è decisiva nei giudizi di legittimità costituzionale» (sentenza n. 1, 5 giugno 1956). Anzi, le norme dette “programmatiche”, poiché la Costituzione è sovraordinata a qualsiasi legge, vanno intese come immediatamente precettive rispetto al potere legislativo, devono (o dovrebbero) fissarne i fini e guidarne gli indirizzi secondo vincoli irrinunciabili.
Va infine citato l’“argomento del compromesso”, secondo il quale la Costituzione sarebbe da considerarsi obsoleta perché frutto di un compromesso fra le visioni diverse rappresentate nella Costituente (solidarismo cristiano, marxismo, ispirazione mazziniana, liberalismo), e non piú presenti in quella forma nell’orizzonte politico italiano di oggi. Questa concezione è opposta a quella dei Costituenti, i cui intensi dibattiti non ebbero per obiettivo la topografia contingente dei partiti di allora, bensí l’Italia, i cittadini, la concreta articolazione di un futuro possibile. Per dirla con Calamandrei, «la Costituzione dev’essere presbite, deve vedere lontano, non essere miope. Non è un gretto compromesso tra partiti, che restringa il nostro campo visivo alle previsioni elettorali dell’immediato domani», è anzi «un progetto politico, diventato legge, che è obbligo realizzare». Secondo Calamandrei,
se la Costituzione si volesse considerare come una sinfonia, le si adatterebbe una denominazione di Schubert, L’incompiuta. Soltanto in parte è una realtà. In parte è ancora un programma, un ideale, una speranza, un impegno di lavoro da compiere. Realizzare tutto questo deve essere il nostro programma comune (1955).
È una strada concreta, una direzione verso la quale abbiamo camminato ancora troppo poco. O forse abbiamo cominciato a camminare a ritroso, in direzione opposta?
Questi tre “argomenti” hanno un denominatore comune: vedono nella Costituzione un testo effimero, soggetto al soffiare d’ogni vento. Se cambiano le maggioranze (alcuni credono), cambia la Costituzione. Si parla di invecchiamento, di precettività o meno delle norme, della costellazione di consensi da cui la Carta nacque. Si parla insomma di tutto, fuorché dei suoi contenuti, della loro coerenza, della loro adeguatezza o meno alle sfide del presente e del futuro. Per esempio, a rappresentare l’etica del bene comune, a tradurla in traguardo politico. In questa riduzione dalla lungimiranza “presbite” di Calamandrei alla miseranda miopia di un presente sempre mutevole, in questo svilimento di un alto orizzonte di diritti, affermati in nome del Diritto, che si vorrebbero rinsecchiti in astratta utopia, possiamo leggere un perfetto esempio di quel che Alvaro chiamava inaderenza. Vi sono professionisti della politica, opinion makers, giuristi che guardano alla periferia della Costituzione, alla sua cornice, ma non alla mappa dei contenuti, non all’architettura dei valori, non alla sua aderenza alle aspirazioni dei cittadini.
«antipolitica»
Questo divorzio dalla realtà del Paese non riguarda solo la Costituzione, ma l’attività dei parlamenti e dei governi, la confezione delle leggi, l’acquiescenza diffusa al potere del denaro e di chi lo accumula, la rete delle complicità, i processi decisionali, la redistribuzione delle risorse pubbliche a vantaggio di pochi detentori di capitali, ma a scapito dei servizi e del lavoro, dunque dei cittadini. Riguarda, insomma, una gestione autoreferenziale del potere politico e delle istituzioni mirata non al bene comune, bensí alla perpetuazione del sistema e alla sopravvivenza di chi lo rappresenta. Riguarda una minuta trama di leggi, norme, decreti, prassi di governo e sottogoverno che in crescente inaderenza alle esigenze del Paese ha creato la deriva che viviamo, contraria allo spirito e alla lettera della Costituzione. I suoi nemici sono gli artefici della degenerazione della vita pubblica, che per giunta conferiscono a se stessi, escludendone chiunque altro, la preziosa etichetta di “politica”, tacciando di “antipolitica” chiunque è fuori dal loro cerchio magico, a cominciare dai “movimenti” e dalle associazioni di cittadini. Il presupposto è che per “politica” si debba intendere il chiuso sistema dei partiti, o meglio dei loro apparati, e del loro comporsi e disfarsi in una variabile geografia del potere.
Lo scontro fra le regole del gioco dei professionisti della politica e la crescente opposizione dei cittadini è in atto oggi in tutto il mondo, ed è rispetto a questa dimensione “globale”, ma nell’orizzonte “locale” del nostro Paese, che dovremmo chiederci che cosa intendiamo per “politica”. In una delle piú note definizioni contemporanee, quella di Giovanni Sartori, la politica è «la sfera delle decisioni collettive sovrane», che nei termini della nostra Costituzione spettano al popolo. In questa e in ogni altra definizione risuona la genealogia greca del termine: politiké è un aggettivo (da polis, “città” o “comunità di cittadini”), che presuppone il sostantivo episteme (“scienza”). La “scienza politica” è fra quelle che Aristotele classifica come scienze pratiche, e deve avere per fine «il viver bene, con compiutezza e indipendenza, una vita bella e felice»3; anzi, «sarà compito del buon legislatore fare in modo che la città, la stirpe umana o qualsiasi altra comunità possano condividere una vita buona e tutta la felicità per loro possibile»4.
Politica è dunque all’origine, e deve essere ancora, il pubblico discorso fra cittadini, che ha per oggetto la polis, cioè la comunità dei cittadini, come fine la pubblica utilità (o felicità), come strumento il governo. Se adottiamo questa definizione di “politica”, diventa subito chiaro che radice e sede di ogni “antipolitica” sono gli agenti regolatori delle sfere vitali di una comunità (economia, società, etica) che sfuggono alle regole della democrazia. “Antipolitica” è il predominio di chi sovrasta e calpesta la sovranità popolare, predicando l’impersonale e soprannaturale supremazia dei mercati e asservendo a essa non solo i governi nazionali e le istituzioni europee, ma anche ogni istanza di giustizia, di libertà, di eguaglianza. Sulla scala italiana, “antipolitica”, è l’inaderenza dei politici di mestiere ai problemi del Paese, il loro divorzio dai cittadini, la loro ottusa difesa dei propri privilegi. C...

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