«inaderenza»
LâItalia rinunzia? Questo il titolo di un appassionato scritto di Corrado Alvaro, apparso a puntate nel 1944 sul «Popolo di Roma», poi raccolto in volume nel 1945 (Bompiani), e ristampato da Sellerio (1986) e da Donzelli (2011). Quelle pagine furono scritte appena dopo la liberazione di Roma dalle truppe nazifasciste, mentre si avvicinava la fine della guerra e fiorivano le speranze in una nuova Italia. Speranze, ma anche il timore di una pesante involuzione, che nonostante lâenorme rivolgimento di quel tempo giĂ minacciava di ricacciare il Paese in un vortice di cinismo, speculazione, incompetenza. Il lucido sguardo di Alvaro si appunta su un aspro contrasto: da un lato il popolo italiano, che «diede, nei mesi dellâoccupazione, prova di maturitĂ e capacitĂ dâiniziativa»; che «sarebbe un vero serbatoio di Ă©lites», tale da far diventare lâItalia «un Paese di qualitĂ , di competenze grandi e piccole, sua sola risorsa per il domani». Dallâaltro lato, una classe politica in cui «trionfa la mezza cultura, conformismo e feticismo e mancanza di senso critico»; in cui «il Nord si Ăš presa la parte del gran corruttore, il Sud quella del complice e corrotto». «Una classe dirigente guasta per sempre», inquinata da «mancanza di solidarietĂ , cinismo, viltà », che «considera delitto parlare dei propri difetti, e piĂș che il male teme lo scandalo». «Unâimmane piramide di sfruttatori», che coltiva «lâinsensibilitĂ nei delitti contro il pubblico denaro» e «disprezza ogni forma della tradizione nazionale». Vi era stata in Italia unâ«antica, onoranda borghesia creatrice, con attitudine alla mercatura, allâindustria, allâagricoltura», ma quel che ne resta «si conta ormai sulle dieci dita». Si sparge invece come «una rogna di cui non si sa come guarire» una nuova borghesia, «che appesta tutto, che confonde tutto, che corrompe il popolo con la sua sola presenza», dando allâItalia «la sua pietosa fama di furberia, tortuositĂ , vanitĂ , bassa sensualità ».
Lâantica borghesia italiana, scrive Alvaro, puntava sulla cultura e sullâistruzione, sapeva che «lâItalia non Ăš un paese da livellare, non Ăš un paese di masse», ma ha una «struttura economica tutta fondata e da fondare sullâintelligenza, lâindustriositĂ , la personalità ». La nuova borghesia, scatenata nella sua aviditĂ , Ăš impegnata ad assaltare lo Stato, a «trafficare nellâenorme congegno dei benefici» che puĂČ ricavarne. PerchĂ© la rapina riesca, Ăš necessario confondere le acque, occupare lo Stato in modo che i cittadini «lo sentano come nemico», considerando «quel che appartiene allo Stato come cosa di cui profittare senza scrupoli». Intanto i governanti, che dovrebbero essere «i custodi della nazione», accumulano catastrofi, che ogni volta vengono perĂČ Â«attribuite quasi a fenomeni naturali, a impensati colpi del destino, rimanendo estranea ogni responsabilitĂ individuale». I problemi veri del Paese e le sue alte potenzialitĂ escono dallâorizzonte della politica, la politica indugia in quella che con parola di suo conio Alvaro chiama inaderenza. Una nuvola di cinismo e di trucchi verbali oscura i nostri bisogni evocando dal nulla lâectoplasma di una dimensione fittizia, non aderente al vero, ma presentata come la sola realtĂ . «Una manifestazione di potere creativo e di volontĂ unanime potrebbe salvare questo nostro Paese», conclude Alvaro. O «ancora una volta aspetteremo che la salvezza ci venga da fuori? LâItalia rinunzia?»
Ă meglio resistere alla tentazione di calare tal quale la spietata diagnosi di Alvaro sugli scenari dellâItalia di oggi. Moltissimo da allora Ăš cambiato: resta tuttavia drammatico il divorzio fra le potenzialitĂ di un popolo ricco di fermenti, di competenze, di idee, e la stagnazione di una politica non solo prigioniera dei propri rituali di autoperpetuazione, ma anche ostaggio di una casta di profittatori che in comune con quella dipinta da Alvaro ha piĂș dâun tratto. Nello scontro fra il pubblico interesse (o lâutilitĂ sociale) dei cittadini e il tornaconto di chi vuol piegare il Paese al profitto dei pochi, la Costituzione Ăš ancor oggi il massimo manifesto di unâetica e di una politica del bene comune. PerciĂČ essa Ăš, anche, un terreno di battaglia, lâoggetto di continui attacchi volti a depotenziarla, erodendola con un pulviscolo di modifiche o svalutandola nel suo insieme2. La nostra Costituzione nacque da quel misto di speranze e di timori che ispirĂČ le pagine di Alvaro e che si avverte anche nelle discussioni tra i Costituenti, serrate ma sempre saldamente orientate sul bene comune. PerciĂČ in essa libertĂ , lavoro, uguaglianza, cultura, democrazia convergono entro un disegno coerente, tracciano una strada di valori, un progetto politico. Oggi Ăš giusto, anzi indispensabile, rilanciare con forza la domanda di Alvaro: se dovessimo dimenticare o stravolgere la Costituzione, che cosa andrebbe perso, per il Paese e per i cittadini? Se dovesse restare senza piĂș la sua Costituzione, a che cosa lâItalia rinunzia?
Tre sono i principali fronti dâattacco dei nemici della Costituzione: potremmo chiamarli lâargomento dellâetĂ , quello dellâutopia e quello del compromesso. LâetĂ : voci interessate, prezzolate o distratte indugiano a definire la Costituzione (come Ăš stato scritto) âun orologio dâantiquariatoâ, forse prezioso ma certo da mettere in soffitta, e proprio perchĂ© ha piĂș di sessantâanni. Molti di costoro sono gli stessi che non perdono occasione per proclamare incondizionata ammirazione per gli Stati Uniti, indicandoli a modello di democrazia; dovrebbero dunque sapere che la Costituzione americana ha piĂș di duecento anni ed Ăš considerata quasi come un testo sacro, da interpretare senza alterarne il dettato. Non Ăš sullâetĂ che si misura lâefficacia di una Costituzione, ma sulla sua coerenza e lungimiranza, sulla capacitĂ di prevedere, di indicare valori e traguardi. Sulla fedeltĂ dei cittadini agli ideali e ai progetti da cui essa nacque.
PiĂș insidioso Ăš lââargomento dellâutopiaâ. Esso si fonda sulla distinzione delle norme costituzionali in programmatiche e precettive. Solo le norme precettive avrebbero valore, in quanto costitutive di diritti. Le norme programmatiche, al contrario, si limiterebbero ad additare remoti obiettivi, senza alcun valore prescrittivo e senza configurare diritti per i cittadini. Conseguenza: tutta la prima parte della Costituzione, essendo âprogrammaticaâ, non comporterebbe alcuna conseguenza sulle leggi e sullâordinamento. Sarebbe, insomma, la generica descrizione di un ideale, una sorta di utopia vagheggiata, non la fissazione di un fine raggiungibile; lâintera impalcatura che abbiamo provato a ripercorrere, fondata su libertĂ , uguaglianza, giustizia sociale, democrazia, si ridurrebbe a una sognante e vana dichiarazione dâintenti. Per esempio, il diritto al lavoro dellâart. 4 sarebbe una lontana finalitĂ politico-sociale, che non comporta per i cittadini alcun vero diritto. Ma la Corte costituzionale, sin dalla sua prima seduta sotto il suo primo presidente Enrico De Nicola, ha chiaramente affermato che le norme âprogrammaticheâ «fissano principĂź fondamentali, che si riverberano sullâintera legislazione», hanno «concretezza che non puĂČ non vincolare immediatamente il legislatore, ripercuotersi sulla interpretazione della legislazione precedente e sulla perdurante efficacia di alcune parti di questa». PerciĂČ Â«la distinzione fra norme precettive e norme programmatiche non Ăš decisiva nei giudizi di legittimitĂ costituzionale» (sentenza n. 1, 5 giugno 1956). Anzi, le norme dette âprogrammaticheâ, poichĂ© la Costituzione Ăš sovraordinata a qualsiasi legge, vanno intese come immediatamente precettive rispetto al potere legislativo, devono (o dovrebbero) fissarne i fini e guidarne gli indirizzi secondo vincoli irrinunciabili.
Va infine citato lââargomento del compromessoâ, secondo il quale la Costituzione sarebbe da considerarsi obsoleta perchĂ© frutto di un compromesso fra le visioni diverse rappresentate nella Costituente (solidarismo cristiano, marxismo, ispirazione mazziniana, liberalismo), e non piĂș presenti in quella forma nellâorizzonte politico italiano di oggi. Questa concezione Ăš opposta a quella dei Costituenti, i cui intensi dibattiti non ebbero per obiettivo la topografia contingente dei partiti di allora, bensĂ lâItalia, i cittadini, la concreta articolazione di un futuro possibile. Per dirla con Calamandrei, «la Costituzione devâessere presbite, deve vedere lontano, non essere miope. Non Ăš un gretto compromesso tra partiti, che restringa il nostro campo visivo alle previsioni elettorali dellâimmediato domani», Ăš anzi «un progetto politico, diventato legge, che Ăš obbligo realizzare». Secondo Calamandrei,
se la Costituzione si volesse considerare come una sinfonia, le si adatterebbe una denominazione di Schubert, Lâincompiuta. Soltanto in parte Ăš una realtĂ . In parte Ăš ancora un programma, un ideale, una speranza, un impegno di lavoro da compiere. Realizzare tutto questo deve essere il nostro programma comune (1955).
Ă una strada concreta, una direzione verso la quale abbiamo camminato ancora troppo poco. O forse abbiamo cominciato a camminare a ritroso, in direzione opposta?
Questi tre âargomentiâ hanno un denominatore comune: vedono nella Costituzione un testo effimero, soggetto al soffiare dâogni vento. Se cambiano le maggioranze (alcuni credono), cambia la Costituzione. Si parla di invecchiamento, di precettivitĂ o meno delle norme, della costellazione di consensi da cui la Carta nacque. Si parla insomma di tutto, fuorchĂ© dei suoi contenuti, della loro coerenza, della loro adeguatezza o meno alle sfide del presente e del futuro. Per esempio, a rappresentare lâetica del bene comune, a tradurla in traguardo politico. In questa riduzione dalla lungimiranza âpresbiteâ di Calamandrei alla miseranda miopia di un presente sempre mutevole, in questo svilimento di un alto orizzonte di diritti, affermati in nome del Diritto, che si vorrebbero rinsecchiti in astratta utopia, possiamo leggere un perfetto esempio di quel che Alvaro chiamava inaderenza. Vi sono professionisti della politica, opinion makers, giuristi che guardano alla periferia della Costituzione, alla sua cornice, ma non alla mappa dei contenuti, non allâarchitettura dei valori, non alla sua aderenza alle aspirazioni dei cittadini.
«antipolitica»
Questo divorzio dalla realtĂ del Paese non riguarda solo la Costituzione, ma lâattivitĂ dei parlamenti e dei governi, la confezione delle leggi, lâacquiescenza diffusa al potere del denaro e di chi lo accumula, la rete delle complicitĂ , i processi decisionali, la redistribuzione delle risorse pubbliche a vantaggio di pochi detentori di capitali, ma a scapito dei servizi e del lavoro, dunque dei cittadini. Riguarda, insomma, una gestione autoreferenziale del potere politico e delle istituzioni mirata non al bene comune, bensĂ alla perpetuazione del sistema e alla sopravvivenza di chi lo rappresenta. Riguarda una minuta trama di leggi, norme, decreti, prassi di governo e sottogoverno che in crescente inaderenza alle esigenze del Paese ha creato la deriva che viviamo, contraria allo spirito e alla lettera della Costituzione. I suoi nemici sono gli artefici della degenerazione della vita pubblica, che per giunta conferiscono a se stessi, escludendone chiunque altro, la preziosa etichetta di âpoliticaâ, tacciando di âantipoliticaâ chiunque Ăš fuori dal loro cerchio magico, a cominciare dai âmovimentiâ e dalle associazioni di cittadini. Il presupposto Ăš che per âpoliticaâ si debba intendere il chiuso sistema dei partiti, o meglio dei loro apparati, e del loro comporsi e disfarsi in una variabile geografia del potere.
Lo scontro fra le regole del gioco dei professionisti della politica e la crescente opposizione dei cittadini Ăš in atto oggi in tutto il mondo, ed Ăš rispetto a questa dimensione âglobaleâ, ma nellâorizzonte âlocaleâ del nostro Paese, che dovremmo chiederci che cosa intendiamo per âpoliticaâ. In una delle piĂș note definizioni contemporanee, quella di Giovanni Sartori, la politica Ăš «la sfera delle decisioni collettive sovrane», che nei termini della nostra Costituzione spettano al popolo. In questa e in ogni altra definizione risuona la genealogia greca del termine: politikĂ© Ăš un aggettivo (da polis, âcittĂ â o âcomunitĂ di cittadiniâ), che presuppone il sostantivo episteme (âscienzaâ). La âscienza politicaâ Ăš fra quelle che Aristotele classifica come scienze pratiche, e deve avere per fine «il viver bene, con compiutezza e indipendenza, una vita bella e felice»3; anzi, «sarĂ compito del buon legislatore fare in modo che la cittĂ , la stirpe umana o qualsiasi altra comunitĂ possano condividere una vita buona e tutta la felicitĂ per loro possibile»4.
Politica Ăš dunque allâorigine, e deve essere ancora, il pubblico discorso fra cittadini, che ha per oggetto la polis, cioĂš la comunitĂ dei cittadini, come fine la pubblica utilitĂ (o felicitĂ ), come strumento il governo. Se adottiamo questa definizione di âpoliticaâ, diventa subito chiaro che radice e sede di ogni âantipoliticaâ sono gli agenti regolatori delle sfere vitali di una comunitĂ (economia, societĂ , etica) che sfuggono alle regole della democrazia. âAntipoliticaâ Ăš il predominio di chi sovrasta e calpesta la sovranitĂ popolare, predicando lâimpersonale e soprannaturale supremazia dei mercati e asservendo a essa non solo i governi nazionali e le istituzioni europee, ma anche ogni istanza di giustizia, di libertĂ , di eguaglianza. Sulla scala italiana, âantipoliticaâ, Ăš lâinaderenza dei politici di mestiere ai problemi del Paese, il loro divorzio dai cittadini, la loro ottusa difesa dei propri privilegi. C...