La Storia
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Elsa Morante

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Elsa Morante

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A La Storia, romanzo pubblicato direttamente in edizione economica nel 1974 e ambientato a Roma durante e dopo l'ultima guerra (1941-47), Elsa Morante ha consegnato la massima esperienza della sua vita. È la sua opera piú letta e, come tutti i libri importanti, anche quella che piú ha fatto discutere. Cesare Garboli, nell'introduzione a questa edizione tascabile, traccia un bilancio critico sul romanzo a piú di vent'anni dalla prima pubblicazione.
Completano il volume la cronologia della vita e delle opere, la bibliografia generale e quella specifica relativa al dibattito su La Storia.

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Information

Publisher
EINAUDI
Year
2013
ISBN
9788858408896

.....1947

Gennaio-Giugno
In Sicilia, i proprietari terrieri rispondono ai contadini e braccianti (in lotta per il diritto di sopravvivere) organizzando una serie di assassinii di dirigenti sindacali.
A Roma, l’Assemblea Costituente conferma (col voto favorevole dei Comunisti) il Concordato fra lo Stato e la Chiesa già stipulato dal Regime fascista col Vaticano.
Col perdurare della guerra civile in Grecia, l’Inghilterra chiede l’intervento degli Stati Uniti a sostegno della reazione monarchica contro la resistenza partigiana. Per l’occasione il Presidente Truman, tenendo un discorso al Congresso, dà lettura di un suo messaggio, nel quale impegna gli Stati Uniti a intervenire non solo in Grecia, ma in qualsiasi paese minacciato dal comunismo, e invita tutte le nazioni a difendersi dal pericolo rosso (dottrina Truman). Questo nuovo indirizzo degli Stati Uniti determina il rovesciamento delle alleanze della Seconda Guerra Mondiale, e l’inizio della guerra fredda fra i due blocchi di qua e di là dalla cortina di ferro.
Per le esigenze immediate e future della guerra fredda, che richiede in primo luogo il controllo sulle nazioni minori, le due Massime Potenze (Stati Uniti e URSS) ricorrono senza indugio ai mezzi di potere piú propri di ciascuna: finanziari da parte degli Stati Uniti, e direttamente coercitivi da parte della Russia staliniana. Attraverso il Piano Marshall gli Stati Uniti intervengono con aiuti economici massicci nelle crisi interne dei paesi del proprio blocco rovinati dalla guerra (compresi l’Italia e la Germania Occidentale); mentre ha inizio, da parte dell’URSS, la sovietizzazione imposta dall’alto ai paesi satelliti, e l’utilizzazione delle loro risorse materiali – già stremate – che vengono trasferite nell’Unione Sovietica.
Urgente ripresa della corsa agli armamenti e, in particolare, corsa all’arrembaggio del segreto atomico, rimasto finora monopolio degli Stati Uniti.
Nei paesi del blocco occidentale, si inaspriscono, all’interno, le tensioni fra i partiti di destra e di centro, e quelli di sinistra.
In Grecia, perdura la guerra civile.
In Cina, controffensiva vittoriosa dell’Armata Rossa. Nel Vietnam, Ho Chi-minh respinge le condizioni di armistizio presentate dai Francesi.
In Sicilia, una pacifica manifestazione contadina si spegne in una strage eseguita proditoriamente da un bandito locale per conto dei proprietari terrieri.
Formazione, in Italia, di un nuovo governo, presieduto da De Gasperi (partito di centro) con l’esclusione dei Comunisti.
Luglio-Settembre
Dopo trent’anni di lotta contro l’Impero Inglese, condotta dal Mahatma Gandhi coi mezzi non violenti della resistenza passiva, l’India ottiene l’indipendenza. Il territorio è diviso in due Stati: India (con prevalenza religiosa degli Indú) e Pakistan (con prevalenza dei Maomettani). Migliaia di profughi delle opposte minoranze religiose cercano rifugio oltre i confini dell’una o dell’altra parte. Ne segue fra Indú e Maomettani un conflitto sanguinoso, che costerà un milione di morti.
Il processo di autoliberazione dei popoli colonizzati (già in corso dai primi decenni del secolo e accelerato dai rivolgimenti politici nel mondo attuale) si trova ormai nella fase decisiva. La disgregazione degli Imperi coloniali è già avvertita dalle Potenze interessate, delle quali alcune (non tutte) si inducono alla resa. Al colonialismo subentrerà allora il neocolonialismo, ossia l’assoggettamento economico delle antiche colonie, mantenuto dalle Potenze con l’acquisizione delle loro fonti di materie prime, la proprietà delle loro industrie, e la trasformazione dei loro territori (necessariamente sottosviluppati) in immensi mercati per i propri prodotti industriali (comprese le armi).
Ottobre-Dicembre
Dalla parte del blocco orientale, fondazione del Cominform (Centro informazioni dei partiti comunisti europei).
Rottura delle trattative di pace fra le Potenze dei blocchi riguardo al problema insoluto della Germania.
Febbrile la corsa all’arrembaggio del segreto atomico statunitense, con attività spionistica fra i due blocchi, caccia alle spie, condanne capitali, ecc.
In Italia, scioperi, scontri e uccisioni nelle varie province.
Negli Stati Uniti, fabbricazione dei primi missili già inaugurati dalla Germania nella Seconda Guerra Mondiale...

... imponderabile in un mondo di pesi...
. . . . . . . .
... dismisura in un mondo di misure...
MARINA CVETAEVA

1.
«Pronto! Chi parla? Qua parla Useppe. Chi parla?»
«Sí, sono io! Qua c’è mamma, che parla, sí. Che mi vuoi dire, Useppe?»
«Pronto! Chi parla? Qui parla Useppe! Chi parla? Pronto!»
«Scusa scusa segnora» (è intervenuta la voce di Lena-Lena) «m’ha fatto chiamare il numero, e adesso non è buono a dire niente!!»
Si sente la risata malrepressa di Lena-Lena, accompagnata da un giulivo abbaiamento di Bella. Poi, dopo un brevissimo borbottio di discussioni di là dal filo, in fretta il microfono viene rimesso a posto.
Sul finire dell’inverno, a casa di Ida era stato impiantato il telefono, e questa era la prima chiamata che essa ne riceveva (aveva confidato il numero telefonico della sua scuola alla portinaia, e a Lena-Lena, raccomandando, però, di chiamare solo per comunicazioni urgenti...). Useppe, specie sul principio, non resisteva alla tentazione di quell’oggetto parlante appeso al muro, anche se poi, nel trattarlo, era maldestro come un selvaggio. Al suo squillo quotidiano (Ida telefonava ogni giorno alle dieci e mezza, durante l’intervallo della lezione) si precipitava, seguíto in corsa da Bella; ma invero, ai saluti di Ida, non sapeva rispondere, al solito, che: «Pronto! Chi parla? Qui parla Useppe! Chi parla?...» ecc. ecc. L’unica che chiamasse quel numero era Ida, e Useppe, da parte sua, non aveva nessun altro da chiamare a Roma. Una volta, lui fece a caso un numero, di due cifre sole, e gli rispose l’Ora Esatta. Era la voce di una signora, e lui seguitava a insistere: «Pronto chi parla?» mentre quella, intignata, si accaniva a ripetergli: «Ore undici e quarantuno!» Un’altra volta, ci fu una chiamata fuori orario, la mattina presto, ma era un tale che aveva sbagliato: e costui, dall’altra parte del filo, dopo avere lui sbagliato, se la prese, chi sa perché, contro Useppe! Finché, col passare dei giorni, Useppe non s’interessò piú a quell’oggetto sgraziato e inconcludente. Alla solita chiamata quotidiana, Ida si sentiva rispondere da una vocina, timida, impaziente e quasi svogliata che diceva «sííí...» («Hai mangiato?» «... sííí!» «Stai bene?» «Síí...») per poi rapidamente concludere: «addio! addio!»
Nel corso dell’inverno, Useppe era stato sempre risparmiato dal grande male. Il giorno dopo quella sua prima caduta del novembre, sua madre, stavolta sola, era corsa a confidarsi dalla dottoressa; e in tale occasione le aveva palesato anche il segreto dei propri malori infantili, da lei finora mai svelato a nessuno, neppure a suo marito: rivedendo e riudendo, al parlarne, in ogni particolare, la gita di sé bambina sull’asinello in compagnia del padre, a Montalto, e la visita del compare medico, che l’aveva fatta ridere col solletico... Ma la dottoressa, con la solita bruscheria, tagliò corto alle sue confessioni intricate dichiarandole autorevolmente: «Nonsignora! Nonsignora! È provato che certe malattie non sono ereditarie! tutt’al piú, si eredita una predisposizione, FORSE; ma questo non è provato. E mi pare chiarissimo, per quanto ne capisco io, che il vostro caso personale era diverso. Là si trattava di comune isteria; mentre qua siamo di fronte a fenomeni d’altra natura» («io l’avevo subito visto», mormorò, mezzo fra sé, a questo punto, «un elemento strano, negli occhi del ragazzo»). In conclusione, la Signorina scrisse per Ida, su un foglietto strappato dal ricettario, l’indirizzo di un Professore specialista, il quale eventualmente avrebbe potuto sottoporre il malatino all’elettroencefalogramma. E súbito l’astrusa parola spaventò Iduzza. Già è noto che tutto quanto apparteneva agli invisibili dominii dell’elettricità le ispirava una diffidenza barbara. Da piccoletta, allo scoppio dei lampi e dei tuoni si nascondeva impaurita (se possibile, correva sotto il mantello di suo padre); e ancora adesso, da vecchia, trepidava a toccare i fili e perfino a girare una lampadina nell’attacco di corrente. Alla lunga parola minacciante, mai sentita prima, i suoi occhi s’ingrandirono, levandosi peritosi sulla laureata, quasi che costei le avesse nominato la sedia elettrica. Ma, intimidita dai modi perentorii della Signorina, non osò dichiararle la propria ignoranza.
Subito dopo, i fatti sopravvenuti di Ninnuzzu la alienarono da ogni altra cura; e in séguito, la progettata visita allo specialista si ritrasse dal campo della sua mente. In realtà, essa paventava la diagnosi di questo Professore sconosciuto come una sentenza di condanna senza appello.
Il deflusso illusorio della malattia di Useppe la incoraggiò in tale inerzia difensiva. Difatti, la sopraffazione innominata che usurpava le forze del pischelletto fino dall’autunno, sembrò trarsi in disparte, quasi esaurita, dopo averlo atterrato una volta: accompagnandolo appena di soppiatto, e a momenti facendosi dimenticare, come avesse deciso che bastava. Quando, alla sera, venuta l’ora di coricarsi, Ida gli porgeva da bere il solito calmante, lui protendeva ghiotto le labbra come un lattante verso la mammella; e presto cadeva in un sonno greve e indisturbato, al quale si abbandonava supino, i pugni stretti e le braccia aperte sul guanciale, immobile per dieci ore e piú. Guarito della piccola morsicatura sulla lingua, non serbava piú nessuna traccia visibile dell’insulto del 16 novembre. Solo, chi lo aveva conosciuto prima, poteva forse notare nei suoi occhi (già troppo belli a detta della Dottoressa) una nuova diversità favolosa, quale forse restava nell’occhio dei primi marinai, dopo la traversata di mari incommensurabili ancora senza nome sulle carte. Useppe, a differenza di costoro, non sapeva niente, né prima né dopo, del proprio viaggio. Ma forse, a sua stessa insaputa, gliene rimaneva nella rètina una immagine capovolta, come si racconta di certi uccellini migranti, i quali di giorno, insieme alla luce solare, vedrebbero tuttora, nella loro ignoranza, anche lo stellato nascosto.
A Ida, simile testimonianza degli occhi di Useppe si manifestava soltanto nel colore. La loro mescolanza di turchino scuro e azzurro chiaro s’era fatta, se possibile, ancora piú innocente, e quasi inesplorabile nella sua doppia profondità. Un giorno, entrata in cucina all’improvviso, essa lo trovò là zitto sullo scalino del fornello, e i loro due sguardi s’incontrarono. Allora, essa vide, all’incontro, negli occhi di Useppe una sorta di cognizione impossibile, puerile, e indicibilmente straziata, che le diceva: «Tu lo sai!» e nient’altro, di là da ogni scambio di domande e risposte logiche.
Al mese di febbraio, Lena-Lena fu messa a lavorare da una riammagliatrice di calze, per cui dovette rinunciare alle sue visite e scappate in Via Bodoni. Ma per guardare Useppe, oramai, c’era Bella, la quale bastava.
Era finito, per Bella, il tempo delle bistecche quotidiane, e dei bagni all’istituto di bellezza, e di tutte le altre distinte comodità già da lei godute all’epoca di Ninnarieddu: il quale usava perfino di spazzolarla e pettinarla, e anche massaggiarla con le proprie mani, di lavarle gli occhi e le orecchie delicatamente con bambagia umida, eccetera. Adesso, per mangiare essa doveva contentarsi, in genere, di pasta e di legumi, con le sole aggiunte di qualche bocconcino extra che Useppe si toglieva per lei dal piatto (senza troppo farsi vedere da Ida). E in quanto alla sua toletta, questa consisteva esclusivamente in una specie di bagni secchi che lei faceva durante le passeggiate secondo un metodo suo proprio, e cioè: rotolandosi dentro al polverone, e poi dandosi delle scrollate spaventose, imitanti una nuvola ciclonica. Però essa preferiva, invero, questo metodo suo personale a quegli altri bagni di lusso, coi saponi di Marsiglia e l’acqua calda, che le erano stati sempre antipatici.
Smaniava invece, e non poco, per doversi adattare dentro il minimo spazio di una o due stanzette, lei che era stata avvezza ai viaggi, alle gite e alla vita di strada, e prima ancora (nella sua esperienza atavica) ai pascoli immensi dell’Asia! Nel corso di quell’inverno carcerario in Via Bodoni, certe giornate addirittura doveva arrangiarsi a fare i propri bisogni su cartacce e pezzi di giornale. Tuttavia, si rassegnava a qualsiasi sacrificio, pur di restare vicino a Useppe notte e giorno.
Anche nel suo nuovo regime di minestre, con la buona volontà essa prestissimo aveva ripreso le sue forme robuste, e la sua muscolatura sana. Il suo candido manto, adesso, appariva piuttosto nericcio, arruffato e pieno di nodi. E sebbene portasse, tuttora, il suo collare argentato con sopra scritto: Bella, da certi ragazzini del vicinato veniva nominata Pelozozzo. La si vedeva spesso indaffarata a grattarsi le pulci, e puzzava assai di cane. Anzi, questa sua puzza s’era attaccata pure a Useppe; tanto che a volte diversi cani gli giravano intorno annusandolo, forse nell’incertezza che lui pure fosse una specie di cucciolo canino.
Costoro (i cani) erano si può dire i soli frequentatori di Useppe. Amici o compagni della sua specie, lui non ne aveva piú nessuno. Col primo ritorno della buona stagione, Bella e Useppe stavano in giro gran parte della giornata; e da principio, nelle sue ore libere, Ida si era sforzata di accompagnarli. Però si era subito accorta dell’impossibilità, con le sue gambine secche e indebolite, di tener dietro a quei due. Al primo minuto di strada, già li aveva persi di vista, trovandosi con uno svantaggio di almeno mezzo chilometro. Non appena sbucati dal portone all’aria aperta, súbito se li vedeva partire in corsa, scorribandando, zompando e scapriolando verso l’ignoto; e ai suoi richiami vociferanti, da lontano Bella in risposta premurosamente le abbaiava: «Tutto bene. Non t’affannare e tòrnatene a casa. A Useppe ci penso io! Sono brava a tenere delle greggi di cento, duecento, trecento quadrupedi! E non mi credi capace di badare a un omettino?»
Per forza, Ida finí con l’affidare del tutto Useppe a Bella. Essa sentiva con certezza che la propria fiducia non era sbagliata: e del resto, che altro avrebbe potuto fare? Le uscite con Bella erano il solo svago del ragazzino. Anche il grammofono, dopo lo scempio famoso del disco swing, era stato messo per sempre da parte a consumarsi nella polvere. Oramai, nel chiuso delle stanzucce, anche Useppe, a somiglianza di Bella, si straniava inquieto come un’anima in pena, tanto che nemmeno alla mattina Ida non osava piú di incarcerarlo dentro casa come soleva già nell’inverno. Per solito, dopo la telefonata quotidiana della madre, i due pronti sortivano: tanto che Bella aveva presto imparato a riconoscere lo squillo dell’apparecchio come un pre-segnale di libera uscita: e all’udirlo si dava a fare dei balzi immensi, accompagnati da evviva fragorosi e da piccoli starnuti di soddisfazione.
Però, puntualmente (quasi tenesse un orologio di precisione dentro il suo testone d’orsa) essa alle ore dei pasti riconduceva Useppe a casa.
Sui primi tempi, i due non si allontanavano troppo da Via Bodoni. Le loro colonne d’Ercole erano da una parte il Lungotevere, poi le pendici dell’Aventino, e piú in là Porta San Paolo (né va taciuto qui che, in ogni caso, Bella scansava i passi di Useppe dal sinistro edificio del Mattatoio, sito là sui nostri paraggi...) Forse, ancora oggi qualche abitante del quartiere Testaccio ricorda di aver visto passare quella coppia: un cane grosso e un ragazzino piccolo, sempre soli e inseparabili. In certi punti d’importanza speciale, per esempio a Piazza dell’Emporio quando ci s’era impiantata una giostra, oppure a Monte Testaccio dove a volte s’accampava una famiglia di zingari, i due si arrestavano, in un doppio palpito irresistibile, per cui si vedeva il ragazzino dondolarsi sulle gambette e il cane agitare febbrilmente la coda. Ma bastava che, dall’altra parte, qualcuno mostrasse d’accorgersi di loro, perché il bambino si ritraesse in fretta, seguíto docilmente dal cane. La primavera già riversava all’aperto una folla di rumori, voci, movimenti. Dalle strade e dalle finestre si chiamavano nomi: «Ettoree! Marisa! Umbè!...» e talora anche: «Nino!...» A questo nome, Useppe accorreva trasfigurato e con gli occhi tremanti, staccandosi da Bella di qualche passo verso una direzione imprecisa. E Bella a sua volta alzava un poco le orecchie, quasi a condividere almeno per un attimo quell’allarme favoloso, per quanto sapesse, invero, la sua assurdità. Difatti essa rinunciava a seguire il bambino, accompagnandolo, ferma in attesa, dal proprio posto, con uno sguardo di perdono e d’esperienza superiore. Poi, come Useppe, quasi immediatamente, ritornava indietro svergognato, lo accoglieva con questo medesimo sguardo. Non erano pochi i Nini e Ninetti viventi nel quartiere; e anche Useppe, in verità, non lo ignorava.
Il bel clima primaverile, assai precoce quell’anno, per tre giorni fu guastato dallo scirocco, che portò ammassi di nubi e acquate polverose, in un’aria sporca e calda che sapeva di deserto. Uno di quei giorni, Useppe ebbe una seconda caduta. La famiglia aveva appena terminato il pasto, e lui, che aveva mangiato poco e di malavoglia, era rimasto in cucina in compagnia di Bella, mentre Ida andava a stendersi sul letto. Di lí a poco Bella incominciò a manifestare un umore agitato e incoerente, come càpita a certi animali quando preavvertono un sisma o altro sovvertimento terrestre. Essa correva incessantemente dalla cucina alla stanza da letto, tanto che Ida, snervata, la cacciò via strillando. Erano le tre del dopopranzo. Dal cortile salivano pochi rumori (una radio e qualche voce dalla parte del deposito biciclette) poi si udí un tuono senza pioggia dal cielo gonfio e sporco, e dalla strada il fischio di una sirena di passaggio. Ma, appena spenti questi suoni, dalla cucina pervenne a Ida un piccolo dialogo sommesso, dove Useppe pareva canterellare delle frasi spezzate, con una vocetta spaurita e balbuziente, e Bella emetteva dei guaiti teneri, fra la sollecitudine e il pànico. Succedeva spesso che i due chiacchierassero insieme, però oggi all’udirli Ida fu scossa da un allarme indefinito, che la fece accorrere...

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