Le lacrime degli eroi
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Le lacrime degli eroi

Matteo Nucci

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Le lacrime degli eroi

Matteo Nucci

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Achille, Agamennone, Diomede, Patroclo, Odisseo, Ettore... nell' Iliade e nell' Odissea, gli eroi leggendari che hanno combattuto le battaglie piú dure e vinto i nemici piú agguerriti non temono di mostrarsi in lacrime. Per disperazione, dolore, rabbia, amore, nostalgia, essi piangono a viso aperto. Senza risparmiarsi. Senza mai provare vergogna. Singhiozzano, gridano, tremano, piangono fino a soffrire la fame, piangono per saziarsi del pianto. Perché in quelle lacrime, come racconta Matteo Nucci in un libro che è viaggio, studio e romanzo, risiede il germe di una passione indomabile. Soltanto gli uomini che hanno la forza di non nascondere le proprie debolezze possono vincere il nemico piú odioso: la paura della propria mortalità.

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Information

Publisher
EINAUDI
Year
2013
ISBN
9788858408940

Parte prima
Nostalgia

1. L’ebbrezza della memoria.
Sul promontorio piangeva, seduto, là dove sempre
con lacrime, gemiti e pene straziandosi il cuore,
al mare mai stanco guardava, lasciando scorrere lacrime.
Quando compare per la prima volta nel poema che porta il nome delle sue avventure, Odisseo è in lacrime. Passa il tempo cosí, da otto anni, su uno scoglio di fronte al mare, poco lontano dalla casa in cui Calipso, bellissima e divina, gli promette il piú mirabile dei doni: l’immortalità. Nessun mortale saprebbe respingere la tentazione. Ma, ogni mattina, Odisseo – che il sole splenda sulla natura rigogliosa di Ogigia o l’inverno ne abbia ghiacciato i sentieri – abbandona il letto della ninfa, va a sedersi sulla roccia e guarda lontano, dimenticando la proposta di eternità. Cosa può contenere di altrettanto immenso, il mare? Cosa sogna, l’eroe? Cosa può renderlo a tal punto ebbro da rifiutare una prospettiva priva di morte pur di continuare a sciogliersi in pianto?
Moltissimi anni dopo Omero, almeno tredici secoli piú tardi, l’ultimo poeta epico della tradizione ellenica, Nonno di Panopoli, avrebbe raccontato a modo suo la storia.
Tutto comincia quando Dioniso s’innamora di Ampelo, un giovane cresciuto giocando ai piedi dei monti frigi, bello di una bellezza disarmante, la voce di miele, lo sguardo lucente, il corpo che sa di primavera. Piú bello di Ganimede, il coppiere troiano rapito da Zeus in forma d’aquila, Ampelo seduce Dioniso allo sfinimento. Amore, ammirazione e gelosia s’intrecciano nell’animo del dio a un insostenibile senso di mancanza, che diventa subito paura. Il dio del riso, il dio che non conosce la sofferenza viene sopraffatto dal timore di perdere il suo amore. Una strana forma di sofferenza comincia a infettarlo. Le preoccupazioni per legare a sé Ampelo si moltiplicano e lo spingono a dare al ragazzo suggerimenti per evitare i peggiori pericoli. «Guardati solo dalle corna del toro crudele» gli dice, un giorno, nella piú profetica delle ammonizioni. E puntualmente Ampelo si lascia convincere da Ate, divina personificazione dell’errore, a carezzare un toro, a circondarne il collo con ghirlande di anemoni, gigli e narcisi, a ricoprirne le corna con del fango biondo, per poi cavalcarlo. Quel che accade, mentre Dioniso è lontano, è scontato: il toro viene preso dalla furia, rovescia nel vuoto il ragazzo sconvolto dal terrore. Nella terribile caduta, Ampelo si rompe l’osso del collo e rimane in balia della violenza taurina: le corna dell’animale lo trafiggono e lo uccidono.
Davanti al corpo senza vita di Ampelo, il dio che non sa piangere piange. Ammirando la bellezza del suo amore il dio che non sa soffrire impara a soffrire. Perché sul corpo senza vita, il dio cerca la vita. Rose, gigli, anemoni tra i capelli. Ambrosia sulle ferite. Le lacrime scorrono a fiumi. Ampelo «morendo ha lasciato il dolore a Dioniso che ignora il dolore». Il dolore piú grande e inconsolabile, perché per quante ricchezze si potranno offrire a Ade, dio degli Inferi, Ampelo non tornerà alla vita. La nostalgia, il dolore per un ritorno impossibile, il dolore per la memoria che non riesce a portare indietro Ampelo, sconvolgono Dioniso. Eros tenta di consolarlo invitandolo a innamorarsi di nuovo, gli racconta storie di morte e rinascita, ma nessun rimedio esiste per quella immane sofferenza, perché nessuna rinascita sembra piú possibile. Finché le lacrime del dio del riso, assieme al sangue dell’amato morto, si trasformano in una bevanda, un dolce nettare capace di confondere la memoria, di sovvertirla, inquinarla e riplasmarla. Ampelo, portando il dolore al dio che non può provare dolore, diventa la vite che porta agli uomini l’ebbrezza. Il vino, gocce di miele, inonda di gioia le quattro parti del cosmo. Dioniso ritrova la felicità. Versa il vino, la bevanda sacra, e le sue dita bianche si bagnano, si fanno rosse. Usa come coppa un corno ricurvo di toro, gusta la dolce rugiada e grida al mondo la sua felicità, il suo ebbro riso, l’ebbrezza con cui ha sconfitto la nostalgia e la morte, con cui ha ripreso in mano la potenza della memoria.
2. Mnemosyne.
Una madre è la divinità che domina gli esemplari piú antichi della letteratura occidentale. E poiché è una madre, Omero sceglie di raccontarla solo attraverso le figlie. Non troveremo mai, nell’Iliade e nell’Odissea, il nome di Mnemosyne. Nulla sapremo della figlia di Urano e Gea, una delle Titanidi, sedotta da Zeus e amata per nove notti di seguito. Né, mai, troveremo, fra i tanti, un elenco che ci riporti i nomi delle sue nove figlie. Alla fine dell’Odissea, verremo ricompensati con questo verso: «Le nove Muse, tutte, alternandosi con la voce bellissima» (XXIV, 60). E sarà l’unica concessione alle nove notti d’amore che Mnemosyne visse con Zeus. Per il resto, Omero invocherà piú volte la Musa o le Muse, indistintamente. Perché quel che importa di essa o di esse è la madre mai nominata: Mnemosyne, Memoria.
Tutto è memoria, nei poemi epici. Tutto è memoria nella letteratura. Uno dei piú straordinari, fra i romanzieri apparsi negli ultimi anni, lo ha confermato con apparente nonchalance. «Per scrivere romanzi non c’è bisogno d’immaginazione – ha sostenuto Roberto Bolaño – ma soltanto di memoria. I romanzi si scrivono intrecciando ricordi». Nient’altro che Mnemosyne.
«Canta, o dea, l’ira d’Achille Pelide». «L’uomo ricco d’astuzie raccontami, o Musa».
Il primo verso dei due poemi piú antichi lo ha stabilito con solennità. Perché tutto, davvero tutto, tremila anni fa, era memoria.
3. Mnemosyne nella composizione dei poemi.
Sappiamo ormai, con sufficiente approssimazione, come stessero le cose. La cosiddetta «questione omerica» probabilmente non troverà mai una risposta definitiva. Del resto fu aperta già dagli antichi, che si chiedevano chi fosse Omero, da dove venisse, come avesse potuto creare tanta bellezza e al tempo stesso incorrere in tanti errori e incongruenze. Già gli antichi, poi, si avventurarono a tal punto sui picchi rischiosi della sovrainterpretazione che ci fu chi volle ironizzare su tutta la faccenda. Nel II secolo d. C. Luciano, un letterato di Samosata (l’odierna Samsat nella Turchia meridionale al confine con la Siria), arrivò a scrivere di un immaginifico incontro con Omero. «Mi rispose che neppure lui ignorava che alcuni lo consideravano di Chio, altri di Smirne, molti di Colofone, ma dal canto suo sosteneva di essere babilonese e che dai suoi concittadini non era chiamato Omero ma Tigrane: aveva cambiato nome in seguito, quando era tenuto in ostaggio presso i Greci». Si prese gioco di chiunque, Luciano, dai grammatici piú raffinati agli uomini dal senso comune. «Gli chiesi perché mai avesse cominciato dall’ira. Rispose che gli era venuto cosí, senza pensarci. E volli chiedergli anche dell’altra questione, se avesse scritto l’Odissea prima dell’Iliade, come molti affermano. Rispose di no. Che non era cieco, poi, cosa che di lui dicono, me n’ero accorto subito: ci vedeva e cosí non ci fu bisogno di domandarglielo». Luciano non arrivò a ironizzare sulla presunta inesistenza di Omero, come ormai siamo abituati a fare, da quando il sospetto si è insinuato su qualunque cosa riguardi il poeta. Del resto agli antichi non premeva cosí tanto capire come fossero nati i poemi. Ricostruire il contesto storico delle origini, vista l’enorme distanza culturale, fu quello di cui si occuparono i moderni, da Vico in poi. Tanto che seguire i percorsi della «questione omerica» oggi significa seguire una storia a sé stante, con grandi colpi di genio che da soli valgono una vita di studi. E una certezza: la risposta ultima, senza mettere in conto inimmaginabili novità, non sarà mai data.
Una cosa sola è chiara a tutti. Sui poemi di Omero (o di chi per lui) dominò incontrastata un’attitudine che oggi, abituati a scrivere e leggere, abbiamo in gran parte tralasciato: un’attitudine mnemonica totalizzante. I poemi omerici infatti affondano le loro radici in un periodo in cui la scrittura non esisteva. Le storie che ne avrebbero costituito l’ossatura furono composte oralmente da aedi, ossia cantori, capaci di improvvisare e soprattutto ricordare. Cantori di professione come ne incontriamo perfettamente raffigurati nell’Odissea. Uomini che devono tutto a una prodigiosa memoria, che si affidano a essa e che creano continuamente innumerevoli versi e ne ricordano altrettanti, muovendosi non tanto sulle parole, quanto su interi blocchi di parole riutilizzati piú volte e in piú luoghi, le cosiddette «formule», unità di parole che si ripetono con costanza, in diversi contesti. Le storie che gli aedi crearono, reinterpretarono, riplasmarono, avrebbero poi trovato una superiore unità solo con la scrittura. Ecco che forse comparve un Omero, un poeta dalle capacità piú spiccate, abile nel mettere assieme, cucire le trame, fondare in un’estesissima unità le storie che la tradizione gli aveva servito.
Qui gli studiosi discordano e continueranno sempre a farlo. E tuttavia è certo che quando la scrittura comparve in Grecia, ossia attorno all’800 a. C., i poeti ebbero la possibilità di fissare le loro creazioni, e ci furono sicuramente aedi che dettarono la loro versione e uno di questi forse lo fece per entrambi i poemi o per uno di essi e magari il suo nome era proprio Omero. Finché nel VI secolo a. C., fuori da ogni dubbio ragionevole, Iliade e Odissea divennero poemi canonizzati in una versione scritta sotto Pisistrato, nella città che sarebbe diventata la culla della democrazia, Atene, perché se ne potesse offrire un canto ordinato durante le feste panatenaiche. Dal tempo degli aedi si passò quindi al tempo dei rapsodi, conoscitori del testo scritto dei poemi, specialisti nella recitazione di Omero e spesso anche nell’interpretazione di contenuto e forma dei suoi esametri. Il potere della memoria non era scomparso. Aveva solo cambiato segno. Capaci di una conoscenza capillare dell’opera, i rapsodi la divulgarono per uditori che continuarono ad averne una conoscenza soltanto orale. È la fase della cosiddetta «auralità». Non piú la completa oralità. Non piú composizione orale, conoscenza orale, ricezione orale. Orale resta soltanto la ricezione e in parte la conoscenza. Lo scritto ha cambiato la posta in gioco. L’avrebbe cambiata definitivamente in epoca ellenistica, quando dei poemi si sarebbero diffuse anche conoscenza e ricezione scritte.
4. Mnemosyne, identificazione e lacrime.
Eppure il dominio della Memoria non era destinato a finire. Perché Mnemosyne è ovunque nei poemi omerici. Anche per noi che oggi li leggiamo con una consapevolezza e un senso estetico irrimediabilmente diversi dagli antichi. Forse qualcuno li conosce interamente a memoria, ancora oggi, certo. Ma non è lí la questione. Perché Omero o chi per lui, sia stato uno solo o molti, sia stato cieco o meno, di Chio o di Eubea, come alcuni oggi sostengono con buoni argomenti, quell’entità forse individuale che comunque sia chiamiamo e chiameremo Omero, non esaltò la madre delle Muse solo per la forza richiesta nel ricordare il verso, il canto, la trama. Ma per immaginare, per raccontare storie, per creare «menzogne simili al vero» (XIX, 203) come avrebbe scritto in un verso alla fine dell’Odissea, un verso tanto centrale che lo stesso Esiodo lo avrebbe ripreso nel celebre proemio della sua Teogonia (27). Per fare insomma quello che ancora oggi noi facciamo e continueremo a fare, quello di cui ha parlato Bolaño pochi anni fa.
La Musa ispira il canto, fortifica e vitalizza la memoria del cantore, lo spinge a ricordare il verso, la storia e la musica da pizzicare sulla cetra. Ma la memoria non si esaurisce nel cantore stesso, che sia il poeta, l’aedo o il rapsodo. La memoria fluisce attraverso il canto in chi ascolta. La storia spinge a ricordare, spinge all’immedesimazione dello spettatore, come oggi del lettore. E solo chi ricorda partecipa, solo chi trasalendo torna indietro in un luogo che ha vissuto o crede di aver vissuto o sente di poter vivere. Immedesimazione significa ricordo e chi ricorda il passato è chi conosce il futuro. È per questo che memoria è tutto in letteratura. E che memoria è tutto nei primi esemplari della nostra letteratura.
Quello a cui questa memoria dà luogo, nell’immedesimazione perfetta, è il pianto.
Omero lo racconta in maniera esemplare nell’Odissea quando descrive il suo stesso mestiere. Due sono gli aedi messi in scena nel poema. Uno ha nome Femio e canta a Itaca, nella casa di Odisseo mentre l’eroe ne è lontano. Canta «costretto» dagli uomini che vogliono sposare la regina da molti anni sola e le storie che canta riguardano spesso proprio «il ritorno degli Achei | che penoso a loro inflisse da Troia Pallade Atena» (I 326-327). Tra chi ascolta, invisibile agli altri, sulle scale che portano alla sua stanza, c’è «la saggia Penelope» che quando sente cantare la tragedia del ritorno, scoppia in lacrime. «Femio, molti altri canti tu sai, affascinatori degli uomini, | fatti d’eroi, di numi, che gli aedi glorificano: | uno di quelli canta a costoro, sedendo, e in silenzio | essi bevano il vino. Ma smetti questo cantare | straziante, che sempre in petto il mio cuore | spezza, perché a me soprattutto venne pazzo dolore, | cosí cara testa rimpiango, sempre pensando a quell’uomo» (I, 337-343). Il ricordo magnifico del passato genera immedesimazione, trasalimento e dolore. Un dolore che apparentemente non fa conoscere nulla, non apre la vista su nessun futuro. Ma Penelope è un caso particolare. E Femio non è Omero.
Omero è piuttosto Demodoco, l’altro aedo rappresentato nell’Odissea, il cantore cieco su cui probabilmente si formò la leggenda di un Omero altrettanto cieco. Demodoco è l’aedo che canta alla corte di Alcinoo, nell’isola dei Feaci, dove Odisseo sbarca naufrago e solitario, poco prima di ritornare finalmente a Itaca. Le pagine che Omero ha dedicato a questo aedo e ai suoi canti sono tra le vette della letteratura di ogni tempo. Metaletteratura piuttosto. Perché qui assistiamo a un cantore che mette in scena un cantore nell’atto di cantare le gesta che lui stesso ha cantato altrove. Un libro sul libro all’interno dello stesso libro. Demodoco, infatti, canta di Achille, Agamennone e Odisseo mentre Odisseo, che è lí ma nessuno sa che è lui, ascolta. E poiché l’identificazione è totale, scoppia a piangere. «Questo cantava il cantore glorioso; e Odisseo | il gran manto purpureo afferrando con le mani gagliarde, | lo tirò sulla testa, la bella fronte nascose, | ché dei Feaci aveva pudore a versar lacrime sotto le ciglia» (VIII, 83-86). Non essere riconosciuto. Questo preme a Odisseo mentre piange ascoltando il canto di Demodoco e ricordando se stesso con Achille e Agamennone. Le lacrime svelerebbero infatti la totale identificazione dell’eroe.
Forse anche in questo caso si potrebbe obiettare che, come nel caso limite di Penelope, Odisseo immedesimato in Odisseo è un caso estremo, non abbastanza chiarificatore. E allora Omero ci serve l’ultimo esempio, quello di aedi ispirati dalle nove Muse al punto da essere completamente identificati in esse. L’occasione è quella dei canti in onore di Achille morto a Troia, canti ricordati alla fine dell’Odissea dall’ombra di Agamennone quando incontra l’ombra di Achille nell’Oltretomba. «Le nove Muse, tutte, alternandosi con la voce bellissima, | il compianto cantavano: e allora nessuno potevi veder senza lacrime | fra gli Argivi: tanto li commuoveva la Musa armoniosa» (XXIV, 60-62). Ricordo dell’eroe scomparso, la memoria coinvolge chiunque, spingendo al pianto per diciassette giorni, fino alla cremazione. Le lacrime sanciscono la potenza del canto.
Che il potere della memoria consista in questa spinta all’identificazione di chi ascolta con le gesta cantate, un’identificazione che al suo culmine diventa lacrime, lo conferma infine uno spettatore esterno ai poemi stessi, che dei poemi e della loro forza registra il meccanismo con spirito analitico e critico, guardando al patimento che tiene insieme il poeta, il cantore/rapsodo e l’ascoltatore in un gioco della memoria addirittura stravolgente. Si tratta del piú grande estimatore di Omero, ossia il suo principale nemico: Platone. In un breve dialogo giovanile in cui mette in scena il suo maestro Socrate, dipingendolo nel piú caratteristico incedere dialogico, Platone decide di mettere in crisi la competenza propria di un modello esemplare di rapsodo, un certo Ione, al tempo celeberrimo. Originario di Efeso, Asia Minore, attuale Turchia dalle parti di Smirne oggi Izmir, Ione è appena arrivato da Epidauro dove ha vinto il primo premio dell’agone tenuto durante le feste in onore di Asclepio. Ora è ad Atene e si prepara a competere alle Panatenaiche. Socrate con la sua abituale ironia ne tesse le lodi e lo incensa e quasi lo adula. Ma basta poco perché le sue domande comincino a destabilizzarne le certezze, mettendo in luce come l’arte del rapsodo sia priva di competenza. Quanto Ione canta, mandando a memoria Omero, non è affatto ciò che egli conosce. Competenti, nei vari mestieri cantati da Omero, sono semmai coloro i quali in quei mestieri possono dirsi specialisti. Non il rapsodo. Vediamo qui in opera una delle classiche strategie dialettiche del primo Socrate platonico. Essa però, oltre a manifestare il metodo e il fine di Platone, ci racconta parecchio sull’arte del rapsodo. Nel momento in cui quest’arte viene descritta nella maniera piú chiara, Ione infatti ci spiega che la sua potenza di rapsodo affonda le radici nella capacità di identificazione con il dolore e la nostalgia degli eroi, tale da spingere lo stesso rapsodo alle lacrime. Si sta parlando di una capacità che nulla ha a che vedere con la ragione e che è semmai ispirata dal dio. Una capacità che peraltro porta gli stessi spettatori a provare quel che prova il cantore prima e il rapsodo poi, entrambi immaginando, ricordando e identificandosi nell’eroe.
Ne deriva una catena di contagio, dal dio al pubblico, una catena di contagio emotivo, esemplificata perfettamente nelle lacrime. Il racconto di Platone si conclude con parole restate famose: «E quindi sai che lo spettatore è l’ultimo di quegli anelli di cui ti parlavo prima, quegli anelli di ferro che assumono il proprio potere gli uni dagli altri a partire dalla pietra di Eraclea, il magnete. L’anello in mezzo sei tu, rapsodo e attore, mentre il primo anello è lo stesso poeta. Il dio, attraverso tutti questi anelli, trascina l’anima degli uomini dove vuole, trasmettendo il potere dagli uni agli altri. E allo stesso modo che da quella pietra, il magnete, pende una lunga catena di coreuti, maestri, maestrini, obliquamente attaccati agli anelli sospesi alla Musa». Quel che preme a Platone, in questo caso, è dimostrare che in gioco non c’è alcuna capacità di tipo razionale, ma semmai una divina ispirazione. Il sussultare dell’anima, la lingua che si scioglie, le lacrime che sgorgano. Nel rapsodo, come nel poeta e infine in chi vive la poesia ascoltando il rapsodo, agisce la forza divina che tutti gli anelli tiene avvinti, proprio come il magnete trasmette la sua forza agli anelli di ferro che l’un l’altro si tengono quasi incollati. Niente di razionale. Qualcosa di simile, semmai, al furore coribantico che prende i seguaci di Cibele e che li rende invasati proprio attraverso la musica, il canto e la danza sfrenata. Fuori dalla critica di Platone (che già ora comincia a tentare di sostituire la paideia omerica con un modello educativo diverso), frutto di considerazioni piú adeguate e il piú possibile razionali, sta la descrizione illuminante della potenza invincibile del poeta, nella fattispecie Omero o i cantori omerici, gli aedi, eppoi i rapsodi che quei canti continuano a portare in giro per l’Ellade. Le lacrime ne sono il segno distintivo piú caratteristico.
5. Odissea, poema della memoria.
«È chiaro da molti altri indizi che la composizione dell’Odissea venne per seconda, ma anche da questo: egli ha raccontato in alcuni episodi dell’Odissea il seguito di accadimenti dell’Iliade. […] Perciò nell’Odissea Omero può essere paragonato al sole che tramonta. È ancora ugualmente grande ma meno ardente». A scrivere queste parole è un uomo di cui non conosciamo piú il nome. Alcuni sostengono si chiamasse Dionisio o Longino, altri ancora Ermagora o Teone. Ma poiché non c’è mai stato accordo sull’identità dell’autore mentre il trattato che compose sarebbe stato ricordato nei secoli con il titolo Del Sublime, la sua memoria è stata tramandata cosí: Anonimo del Sublime. Quel che l’anonimo autore scrisse, infatti – era il I secolo d. C. – è passato alla storia come uno dei trattati piú rilevanti di critica letteraria antica. I motivi di tanta celebrità sono parecchi e tra questi certo svetta il giudizio sui poemi omerici. Non solo per l’intelligenza e l’autorevolezza, ma anche per quell’idea circa la successione compositiva di Iliade e Odissea cosí potente che nessuno piú ha potuto ignorarla. Dovunque, ancora oggi, in qualsiasi manuale introduttivo e in qualunque studio scientifico che voglia prendere in analisi l’opera di Omero nella sua unità, troveremo prima l’Iliade eppoi l’Odissea. Neppure chi è certo che non poté mai esistere un solo Omero, né che le stesse mani (o meglio: lo stesso canto e la stessa memoria) fossero all’opera per entrambi i casi, nessuno mette in discussione il principio in base al quale, ormai canonicamente, si prende in considerazione prima l’Iliade, e solo dopo l’Odissea. Del resto, se anche non si volesse sottoporre a rigorose analisi la composizione, a considerare soltanto i fatti narrati, non c’è alcun dubbio che prima viene la narrazione della guerra di Troia e solo dopo viene la narrazione del ritorno. Nessun motivo, allora, per ridiscutere un canone ormai saldo. Se non in base alla preminenza della memoria.
La memoria infatti sovverte qualunque aspettativa. Chi ricorda spesso ricorda a ritroso. Partendo da ciò che è piú vicino per risalire a ciò che è piú lontano. Le Muse ci aiutano, ancora oggi, quotidianamente cosí: cominciamo a raccontare e a intrecciare ricordi. Dai ricordi si sviluppano altri ricordi. Il passato si chiarisce a partire dal presente. E proprio chiarendo sempre piú il passato s’incomincia a intravedere il ...

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