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Le lacrime degli eroi
Matteo Nucci
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Le lacrime degli eroi
Matteo Nucci
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Achille, Agamennone, Diomede, Patroclo, Odisseo, Ettore... nell' Iliade e nell' Odissea, gli eroi leggendari che hanno combattuto le battaglie piĂș dure e vinto i nemici piĂș agguerriti non temono di mostrarsi in lacrime. Per disperazione, dolore, rabbia, amore, nostalgia, essi piangono a viso aperto. Senza risparmiarsi. Senza mai provare vergogna. Singhiozzano, gridano, tremano, piangono fino a soffrire la fame, piangono per saziarsi del pianto. PerchĂ© in quelle lacrime, come racconta Matteo Nucci in un libro che Ăš viaggio, studio e romanzo, risiede il germe di una passione indomabile. Soltanto gli uomini che hanno la forza di non nascondere le proprie debolezze possono vincere il nemico piĂș odioso: la paura della propria mortalitĂ .
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Information
Thema
LetteraturaThema
Letteratura storicaParte prima
Nostalgia
1. Lâebbrezza della memoria.
Sul promontorio piangeva, seduto, lĂ dove sempre
con lacrime, gemiti e pene straziandosi il cuore,
al mare mai stanco guardava, lasciando scorrere lacrime.
Quando compare per la prima volta nel poema che porta il nome delle sue avventure, Odisseo Ăš in lacrime. Passa il tempo cosĂ, da otto anni, su uno scoglio di fronte al mare, poco lontano dalla casa in cui Calipso, bellissima e divina, gli promette il piĂș mirabile dei doni: lâimmortalitĂ . Nessun mortale saprebbe respingere la tentazione. Ma, ogni mattina, Odisseo â che il sole splenda sulla natura rigogliosa di Ogigia o lâinverno ne abbia ghiacciato i sentieri â abbandona il letto della ninfa, va a sedersi sulla roccia e guarda lontano, dimenticando la proposta di eternitĂ . Cosa puĂČ contenere di altrettanto immenso, il mare? Cosa sogna, lâeroe? Cosa puĂČ renderlo a tal punto ebbro da rifiutare una prospettiva priva di morte pur di continuare a sciogliersi in pianto?
Moltissimi anni dopo Omero, almeno tredici secoli piĂș tardi, lâultimo poeta epico della tradizione ellenica, Nonno di Panopoli, avrebbe raccontato a modo suo la storia.
Tutto comincia quando Dioniso sâinnamora di Ampelo, un giovane cresciuto giocando ai piedi dei monti frigi, bello di una bellezza disarmante, la voce di miele, lo sguardo lucente, il corpo che sa di primavera. PiĂș bello di Ganimede, il coppiere troiano rapito da Zeus in forma dâaquila, Ampelo seduce Dioniso allo sfinimento. Amore, ammirazione e gelosia sâintrecciano nellâanimo del dio a un insostenibile senso di mancanza, che diventa subito paura. Il dio del riso, il dio che non conosce la sofferenza viene sopraffatto dal timore di perdere il suo amore. Una strana forma di sofferenza comincia a infettarlo. Le preoccupazioni per legare a sĂ© Ampelo si moltiplicano e lo spingono a dare al ragazzo suggerimenti per evitare i peggiori pericoli. «Guardati solo dalle corna del toro crudele» gli dice, un giorno, nella piĂș profetica delle ammonizioni. E puntualmente Ampelo si lascia convincere da Ate, divina personificazione dellâerrore, a carezzare un toro, a circondarne il collo con ghirlande di anemoni, gigli e narcisi, a ricoprirne le corna con del fango biondo, per poi cavalcarlo. Quel che accade, mentre Dioniso Ăš lontano, Ăš scontato: il toro viene preso dalla furia, rovescia nel vuoto il ragazzo sconvolto dal terrore. Nella terribile caduta, Ampelo si rompe lâosso del collo e rimane in balia della violenza taurina: le corna dellâanimale lo trafiggono e lo uccidono.
Davanti al corpo senza vita di Ampelo, il dio che non sa piangere piange. Ammirando la bellezza del suo amore il dio che non sa soffrire impara a soffrire. PerchĂ© sul corpo senza vita, il dio cerca la vita. Rose, gigli, anemoni tra i capelli. Ambrosia sulle ferite. Le lacrime scorrono a fiumi. Ampelo «morendo ha lasciato il dolore a Dioniso che ignora il dolore». Il dolore piĂș grande e inconsolabile, perchĂ© per quante ricchezze si potranno offrire a Ade, dio degli Inferi, Ampelo non tornerĂ alla vita. La nostalgia, il dolore per un ritorno impossibile, il dolore per la memoria che non riesce a portare indietro Ampelo, sconvolgono Dioniso. Eros tenta di consolarlo invitandolo a innamorarsi di nuovo, gli racconta storie di morte e rinascita, ma nessun rimedio esiste per quella immane sofferenza, perchĂ© nessuna rinascita sembra piĂș possibile. FinchĂ© le lacrime del dio del riso, assieme al sangue dellâamato morto, si trasformano in una bevanda, un dolce nettare capace di confondere la memoria, di sovvertirla, inquinarla e riplasmarla. Ampelo, portando il dolore al dio che non puĂČ provare dolore, diventa la vite che porta agli uomini lâebbrezza. Il vino, gocce di miele, inonda di gioia le quattro parti del cosmo. Dioniso ritrova la felicitĂ . Versa il vino, la bevanda sacra, e le sue dita bianche si bagnano, si fanno rosse. Usa come coppa un corno ricurvo di toro, gusta la dolce rugiada e grida al mondo la sua felicitĂ , il suo ebbro riso, lâebbrezza con cui ha sconfitto la nostalgia e la morte, con cui ha ripreso in mano la potenza della memoria.
2. Mnemosyne.
Una madre Ăš la divinitĂ che domina gli esemplari piĂș antichi della letteratura occidentale. E poichĂ© Ăš una madre, Omero sceglie di raccontarla solo attraverso le figlie. Non troveremo mai, nellâIliade e nellâOdissea, il nome di Mnemosyne. Nulla sapremo della figlia di Urano e Gea, una delle Titanidi, sedotta da Zeus e amata per nove notti di seguito. NĂ©, mai, troveremo, fra i tanti, un elenco che ci riporti i nomi delle sue nove figlie. Alla fine dellâOdissea, verremo ricompensati con questo verso: «Le nove Muse, tutte, alternandosi con la voce bellissima» (XXIV, 60). E sarĂ lâunica concessione alle nove notti dâamore che Mnemosyne visse con Zeus. Per il resto, Omero invocherĂ piĂș volte la Musa o le Muse, indistintamente. PerchĂ© quel che importa di essa o di esse Ăš la madre mai nominata: Mnemosyne, Memoria.
Tutto Ăš memoria, nei poemi epici. Tutto Ăš memoria nella letteratura. Uno dei piĂș straordinari, fra i romanzieri apparsi negli ultimi anni, lo ha confermato con apparente nonchalance. «Per scrivere romanzi non câĂš bisogno dâimmaginazione â ha sostenuto Roberto Bolaño â ma soltanto di memoria. I romanzi si scrivono intrecciando ricordi». Nientâaltro che Mnemosyne.
«Canta, o dea, lâira dâAchille Pelide». «Lâuomo ricco dâastuzie raccontami, o Musa».
Il primo verso dei due poemi piĂș antichi lo ha stabilito con solennitĂ . PerchĂ© tutto, davvero tutto, tremila anni fa, era memoria.
3. Mnemosyne nella composizione dei poemi.
Sappiamo ormai, con sufficiente approssimazione, come stessero le cose. La cosiddetta «questione omerica» probabilmente non troverĂ mai una risposta definitiva. Del resto fu aperta giĂ dagli antichi, che si chiedevano chi fosse Omero, da dove venisse, come avesse potuto creare tanta bellezza e al tempo stesso incorrere in tanti errori e incongruenze. GiĂ gli antichi, poi, si avventurarono a tal punto sui picchi rischiosi della sovrainterpretazione che ci fu chi volle ironizzare su tutta la faccenda. Nel II secolo d. C. Luciano, un letterato di Samosata (lâodierna Samsat nella Turchia meridionale al confine con la Siria), arrivĂČ a scrivere di un immaginifico incontro con Omero. «Mi rispose che neppure lui ignorava che alcuni lo consideravano di Chio, altri di Smirne, molti di Colofone, ma dal canto suo sosteneva di essere babilonese e che dai suoi concittadini non era chiamato Omero ma Tigrane: aveva cambiato nome in seguito, quando era tenuto in ostaggio presso i Greci». Si prese gioco di chiunque, Luciano, dai grammatici piĂș raffinati agli uomini dal senso comune. «Gli chiesi perchĂ© mai avesse cominciato dallâira. Rispose che gli era venuto cosĂ, senza pensarci. E volli chiedergli anche dellâaltra questione, se avesse scritto lâOdissea prima dellâIliade, come molti affermano. Rispose di no. Che non era cieco, poi, cosa che di lui dicono, me nâero accorto subito: ci vedeva e cosĂ non ci fu bisogno di domandarglielo». Luciano non arrivĂČ a ironizzare sulla presunta inesistenza di Omero, come ormai siamo abituati a fare, da quando il sospetto si Ăš insinuato su qualunque cosa riguardi il poeta. Del resto agli antichi non premeva cosĂ tanto capire come fossero nati i poemi. Ricostruire il contesto storico delle origini, vista lâenorme distanza culturale, fu quello di cui si occuparono i moderni, da Vico in poi. Tanto che seguire i percorsi della «questione omerica» oggi significa seguire una storia a sĂ© stante, con grandi colpi di genio che da soli valgono una vita di studi. E una certezza: la risposta ultima, senza mettere in conto inimmaginabili novitĂ , non sarĂ mai data.
Una cosa sola Ăš chiara a tutti. Sui poemi di Omero (o di chi per lui) dominĂČ incontrastata unâattitudine che oggi, abituati a scrivere e leggere, abbiamo in gran parte tralasciato: unâattitudine mnemonica totalizzante. I poemi omerici infatti affondano le loro radici in un periodo in cui la scrittura non esisteva. Le storie che ne avrebbero costituito lâossatura furono composte oralmente da aedi, ossia cantori, capaci di improvvisare e soprattutto ricordare. Cantori di professione come ne incontriamo perfettamente raffigurati nellâOdissea. Uomini che devono tutto a una prodigiosa memoria, che si affidano a essa e che creano continuamente innumerevoli versi e ne ricordano altrettanti, muovendosi non tanto sulle parole, quanto su interi blocchi di parole riutilizzati piĂș volte e in piĂș luoghi, le cosiddette «formule», unitĂ di parole che si ripetono con costanza, in diversi contesti. Le storie che gli aedi crearono, reinterpretarono, riplasmarono, avrebbero poi trovato una superiore unitĂ solo con la scrittura. Ecco che forse comparve un Omero, un poeta dalle capacitĂ piĂș spiccate, abile nel mettere assieme, cucire le trame, fondare in unâestesissima unitĂ le storie che la tradizione gli aveva servito.
Qui gli studiosi discordano e continueranno sempre a farlo. E tuttavia Ăš certo che quando la scrittura comparve in Grecia, ossia attorno allâ800 a. C., i poeti ebbero la possibilitĂ di fissare le loro creazioni, e ci furono sicuramente aedi che dettarono la loro versione e uno di questi forse lo fece per entrambi i poemi o per uno di essi e magari il suo nome era proprio Omero. FinchĂ© nel VI secolo a. C., fuori da ogni dubbio ragionevole, Iliade e Odissea divennero poemi canonizzati in una versione scritta sotto Pisistrato, nella cittĂ che sarebbe diventata la culla della democrazia, Atene, perchĂ© se ne potesse offrire un canto ordinato durante le feste panatenaiche. Dal tempo degli aedi si passĂČ quindi al tempo dei rapsodi, conoscitori del testo scritto dei poemi, specialisti nella recitazione di Omero e spesso anche nellâinterpretazione di contenuto e forma dei suoi esametri. Il potere della memoria non era scomparso. Aveva solo cambiato segno. Capaci di una conoscenza capillare dellâopera, i rapsodi la divulgarono per uditori che continuarono ad averne una conoscenza soltanto orale. Ă la fase della cosiddetta «auralità ». Non piĂș la completa oralitĂ . Non piĂș composizione orale, conoscenza orale, ricezione orale. Orale resta soltanto la ricezione e in parte la conoscenza. Lo scritto ha cambiato la posta in gioco. Lâavrebbe cambiata definitivamente in epoca ellenistica, quando dei poemi si sarebbero diffuse anche conoscenza e ricezione scritte.
4. Mnemosyne, identificazione e lacrime.
Eppure il dominio della Memoria non era destinato a finire. PerchĂ© Mnemosyne Ăš ovunque nei poemi omerici. Anche per noi che oggi li leggiamo con una consapevolezza e un senso estetico irrimediabilmente diversi dagli antichi. Forse qualcuno li conosce interamente a memoria, ancora oggi, certo. Ma non Ăš lĂ la questione. PerchĂ© Omero o chi per lui, sia stato uno solo o molti, sia stato cieco o meno, di Chio o di Eubea, come alcuni oggi sostengono con buoni argomenti, quellâentitĂ forse individuale che comunque sia chiamiamo e chiameremo Omero, non esaltĂČ la madre delle Muse solo per la forza richiesta nel ricordare il verso, il canto, la trama. Ma per immaginare, per raccontare storie, per creare «menzogne simili al vero» (XIX, 203) come avrebbe scritto in un verso alla fine dellâOdissea, un verso tanto centrale che lo stesso Esiodo lo avrebbe ripreso nel celebre proemio della sua Teogonia (27). Per fare insomma quello che ancora oggi noi facciamo e continueremo a fare, quello di cui ha parlato Bolaño pochi anni fa.
La Musa ispira il canto, fortifica e vitalizza la memoria del cantore, lo spinge a ricordare il verso, la storia e la musica da pizzicare sulla cetra. Ma la memoria non si esaurisce nel cantore stesso, che sia il poeta, lâaedo o il rapsodo. La memoria fluisce attraverso il canto in chi ascolta. La storia spinge a ricordare, spinge allâimmedesimazione dello spettatore, come oggi del lettore. E solo chi ricorda partecipa, solo chi trasalendo torna indietro in un luogo che ha vissuto o crede di aver vissuto o sente di poter vivere. Immedesimazione significa ricordo e chi ricorda il passato Ăš chi conosce il futuro. Ă per questo che memoria Ăš tutto in letteratura. E che memoria Ăš tutto nei primi esemplari della nostra letteratura.
Quello a cui questa memoria dĂ luogo, nellâimmedesimazione perfetta, Ăš il pianto.
Omero lo racconta in maniera esemplare nellâOdissea quando descrive il suo stesso mestiere. Due sono gli aedi messi in scena nel poema. Uno ha nome Femio e canta a Itaca, nella casa di Odisseo mentre lâeroe ne Ăš lontano. Canta «costretto» dagli uomini che vogliono sposare la regina da molti anni sola e le storie che canta riguardano spesso proprio «il ritorno degli Achei | che penoso a loro inflisse da Troia Pallade Atena» (I 326-327). Tra chi ascolta, invisibile agli altri, sulle scale che portano alla sua stanza, câĂš «la saggia Penelope» che quando sente cantare la tragedia del ritorno, scoppia in lacrime. «Femio, molti altri canti tu sai, affascinatori degli uomini, | fatti dâeroi, di numi, che gli aedi glorificano: | uno di quelli canta a costoro, sedendo, e in silenzio | essi bevano il vino. Ma smetti questo cantare | straziante, che sempre in petto il mio cuore | spezza, perchĂ© a me soprattutto venne pazzo dolore, | cosĂ cara testa rimpiango, sempre pensando a quellâuomo» (I, 337-343). Il ricordo magnifico del passato genera immedesimazione, trasalimento e dolore. Un dolore che apparentemente non fa conoscere nulla, non apre la vista su nessun futuro. Ma Penelope Ăš un caso particolare. E Femio non Ăš Omero.
Omero Ăš piuttosto Demodoco, lâaltro aedo rappresentato nellâOdissea, il cantore cieco su cui probabilmente si formĂČ la leggenda di un Omero altrettanto cieco. Demodoco Ăš lâaedo che canta alla corte di Alcinoo, nellâisola dei Feaci, dove Odisseo sbarca naufrago e solitario, poco prima di ritornare finalmente a Itaca. Le pagine che Omero ha dedicato a questo aedo e ai suoi canti sono tra le vette della letteratura di ogni tempo. Metaletteratura piuttosto. PerchĂ© qui assistiamo a un cantore che mette in scena un cantore nellâatto di cantare le gesta che lui stesso ha cantato altrove. Un libro sul libro allâinterno dello stesso libro. Demodoco, infatti, canta di Achille, Agamennone e Odisseo mentre Odisseo, che Ăš lĂ ma nessuno sa che Ăš lui, ascolta. E poichĂ© lâidentificazione Ăš totale, scoppia a piangere. «Questo cantava il cantore glorioso; e Odisseo | il gran manto purpureo afferrando con le mani gagliarde, | lo tirĂČ sulla testa, la bella fronte nascose, | chĂ© dei Feaci aveva pudore a versar lacrime sotto le ciglia» (VIII, 83-86). Non essere riconosciuto. Questo preme a Odisseo mentre piange ascoltando il canto di Demodoco e ricordando se stesso con Achille e Agamennone. Le lacrime svelerebbero infatti la totale identificazione dellâeroe.
Forse anche in questo caso si potrebbe obiettare che, come nel caso limite di Penelope, Odisseo immedesimato in Odisseo Ăš un caso estremo, non abbastanza chiarificatore. E allora Omero ci serve lâultimo esempio, quello di aedi ispirati dalle nove Muse al punto da essere completamente identificati in esse. Lâoccasione Ăš quella dei canti in onore di Achille morto a Troia, canti ricordati alla fine dellâOdissea dallâombra di Agamennone quando incontra lâombra di Achille nellâOltretomba. «Le nove Muse, tutte, alternandosi con la voce bellissima, | il compianto cantavano: e allora nessuno potevi veder senza lacrime | fra gli Argivi: tanto li commuoveva la Musa armoniosa» (XXIV, 60-62). Ricordo dellâeroe scomparso, la memoria coinvolge chiunque, spingendo al pianto per diciassette giorni, fino alla cremazione. Le lacrime sanciscono la potenza del canto.
Che il potere della memoria consista in questa spinta allâidentificazione di chi ascolta con le gesta cantate, unâidentificazione che al suo culmine diventa lacrime, lo conferma infine uno spettatore esterno ai poemi stessi, che dei poemi e della loro forza registra il meccanismo con spirito analitico e critico, guardando al patimento che tiene insieme il poeta, il cantore/rapsodo e lâascoltatore in un gioco della memoria addirittura stravolgente. Si tratta del piĂș grande estimatore di Omero, ossia il suo principale nemico: Platone. In un breve dialogo giovanile in cui mette in scena il suo maestro Socrate, dipingendolo nel piĂș caratteristico incedere dialogico, Platone decide di mettere in crisi la competenza propria di un modello esemplare di rapsodo, un certo Ione, al tempo celeberrimo. Originario di Efeso, Asia Minore, attuale Turchia dalle parti di Smirne oggi Izmir, Ione Ăš appena arrivato da Epidauro dove ha vinto il primo premio dellâagone tenuto durante le feste in onore di Asclepio. Ora Ăš ad Atene e si prepara a competere alle Panatenaiche. Socrate con la sua abituale ironia ne tesse le lodi e lo incensa e quasi lo adula. Ma basta poco perchĂ© le sue domande comincino a destabilizzarne le certezze, mettendo in luce come lâarte del rapsodo sia priva di competenza. Quanto Ione canta, mandando a memoria Omero, non Ăš affatto ciĂČ che egli conosce. Competenti, nei vari mestieri cantati da Omero, sono semmai coloro i quali in quei mestieri possono dirsi specialisti. Non il rapsodo. Vediamo qui in opera una delle classiche strategie dialettiche del primo Socrate platonico. Essa perĂČ, oltre a manifestare il metodo e il fine di Platone, ci racconta parecchio sullâarte del rapsodo. Nel momento in cui questâarte viene descritta nella maniera piĂș chiara, Ione infatti ci spiega che la sua potenza di rapsodo affonda le radici nella capacitĂ di identificazione con il dolore e la nostalgia degli eroi, tale da spingere lo stesso rapsodo alle lacrime. Si sta parlando di una capacitĂ che nulla ha a che vedere con la ragione e che Ăš semmai ispirata dal dio. Una capacitĂ che peraltro porta gli stessi spettatori a provare quel che prova il cantore prima e il rapsodo poi, entrambi immaginando, ricordando e identificandosi nellâeroe.
Ne deriva una catena di contagio, dal dio al pubblico, una catena di contagio emotivo, esemplificata perfettamente nelle lacrime. Il racconto di Platone si conclude con parole restate famose: «E quindi sai che lo spettatore Ăš lâultimo di quegli anelli di cui ti parlavo prima, quegli anelli di ferro che assumono il proprio potere gli uni dagli altri a partire dalla pietra di Eraclea, il magnete. Lâanello in mezzo sei tu, rapsodo e attore, mentre il primo anello Ăš lo stesso poeta. Il dio, attraverso tutti questi anelli, trascina lâanima degli uomini dove vuole, trasmettendo il potere dagli uni agli altri. E allo stesso modo che da quella pietra, il magnete, pende una lunga catena di coreuti, maestri, maestrini, obliquamente attaccati agli anelli sospesi alla Musa». Quel che preme a Platone, in questo caso, Ăš dimostrare che in gioco non câĂš alcuna capacitĂ di tipo razionale, ma semmai una divina ispirazione. Il sussultare dellâanima, la lingua che si scioglie, le lacrime che sgorgano. Nel rapsodo, come nel poeta e infine in chi vive la poesia ascoltando il rapsodo, agisce la forza divina che tutti gli anelli tiene avvinti, proprio come il magnete trasmette la sua forza agli anelli di ferro che lâun lâaltro si tengono quasi incollati. Niente di razionale. Qualcosa di simile, semmai, al furore coribantico che prende i seguaci di Cibele e che li rende invasati proprio attraverso la musica, il canto e la danza sfrenata. Fuori dalla critica di Platone (che giĂ ora comincia a tentare di sostituire la paideia omerica con un modello educativo diverso), frutto di considerazioni piĂș adeguate e il piĂș possibile razionali, sta la descrizione illuminante della potenza invincibile del poeta, nella fattispecie Omero o i cantori omerici, gli aedi, eppoi i rapsodi che quei canti continuano a portare in giro per lâEllade. Le lacrime ne sono il segno distintivo piĂș caratteristico.
5. Odissea, poema della memoria.
«à chiaro da molti altri indizi che la composizione dellâOdissea venne per seconda, ma anche da questo: egli ha raccontato in alcuni episodi dellâOdissea il seguito di accadimenti dellâIliade. [âŠ] PerciĂČ nellâOdissea Omero puĂČ essere paragonato al sole che tramonta. Ă ancora ugualmente grande ma meno ardente». A scrivere queste parole Ăš un uomo di cui non conosciamo piĂș il nome. Alcuni sostengono si chiamasse Dionisio o Longino, altri ancora Ermagora o Teone. Ma poichĂ© non câĂš mai stato accordo sullâidentitĂ dellâautore mentre il trattato che compose sarebbe stato ricordato nei secoli con il titolo Del Sublime, la sua memoria Ăš stata tramandata cosĂ: Anonimo del Sublime. Quel che lâanonimo autore scrisse, infatti â era il I secolo d. C. â Ăš passato alla storia come uno dei trattati piĂș rilevanti di critica letteraria antica. I motivi di tanta celebritĂ sono parecchi e tra questi certo svetta il giudizio sui poemi omerici. Non solo per lâintelligenza e lâautorevolezza, ma anche per quellâidea circa la successione compositiva di Iliade e Odissea cosĂ potente che nessuno piĂș ha potuto ignorarla. Dovunque, ancora oggi, in qualsiasi manuale introduttivo e in qualunque studio scientifico che voglia prendere in analisi lâopera di Omero nella sua unitĂ , troveremo prima lâIliade eppoi lâOdissea. Neppure chi Ăš certo che non potĂ© mai esistere un solo Omero, nĂ© che le stesse mani (o meglio: lo stesso canto e la stessa memoria) fossero allâopera per entrambi i casi, nessuno mette in discussione il principio in base al quale, ormai canonicamente, si prende in considerazione prima lâIliade, e solo dopo lâOdissea. Del resto, se anche non si volesse sottoporre a rigorose analisi la composizione, a considerare soltanto i fatti narrati, non câĂš alcun dubbio che prima viene la narrazione della guerra di Troia e solo dopo viene la narrazione del ritorno. Nessun motivo, allora, per ridiscutere un canone ormai saldo. Se non in base alla preminenza della memoria.
La memoria infatti sovverte qualunque aspettativa. Chi ricorda spesso ricorda a ritroso. Partendo da ciĂČ che Ăš piĂș vicino per risalire a ciĂČ che Ăš piĂș lontano. Le Muse ci aiutano, ancora oggi, quotidianamente cosĂ: cominciamo a raccontare e a intrecciare ricordi. Dai ricordi si sviluppano altri ricordi. Il passato si chiarisce a partire dal presente. E proprio chiarendo sempre piĂș il passato sâincomincia a intravedere il ...