Populismo 2.0
eBook - ePub

Populismo 2.0

Marco Revelli

Share book
  1. 136 pages
  2. Italian
  3. ePUB (mobile friendly)
  4. Available on iOS & Android
eBook - ePub

Populismo 2.0

Marco Revelli

Book details
Book preview
Table of contents
Citations

About This Book

Il populismo si è manifestato in forme molto diverse nel corso della storia, tra la fine dell'Ottocento e l'intero secolo breve; e anche oggi, la nuova disseminazione populista in Europa e negli Stati Uniti presenta differenze interne notevolissime, quelle che passano ad esempio tra la vittoria di Donald Trump e l'ascesa di Marine Le Pen. Ma un denominatore comune c'è: il populismo è sempre indicatore di un deficit di democrazia, cioè di «rappresentanza ». Un deficit «infantile», per cosí dire, per i populismi delle origini, sintomo di una democrazia non ancora compiuta; e un deficit «senile», quando cresce il numero di cittadini che non se ne sentono piú «coperti». Il populismo attuale - questa la tesi centrale del libro - è del secondo tipo: rappresenta una sorta di «malattia senile della democrazia». Il sintomo di una crisi di rappresentanza che si estende alla forma democratica stessa. È il segno piú preoccupante del rapido impoverimento delle classi medie occidentali sotto il peso della crisi economica; ma anche della sconfitta storica del lavoro - e delle sinistre che lo rappresentarono - nel cambio di paradigma socio-produttivo che ha accompagnato il passaggio di secolo.

Frequently asked questions

How do I cancel my subscription?
Simply head over to the account section in settings and click on “Cancel Subscription” - it’s as simple as that. After you cancel, your membership will stay active for the remainder of the time you’ve paid for. Learn more here.
Can/how do I download books?
At the moment all of our mobile-responsive ePub books are available to download via the app. Most of our PDFs are also available to download and we're working on making the final remaining ones downloadable now. Learn more here.
What is the difference between the pricing plans?
Both plans give you full access to the library and all of Perlego’s features. The only differences are the price and subscription period: With the annual plan you’ll save around 30% compared to 12 months on the monthly plan.
What is Perlego?
We are an online textbook subscription service, where you can get access to an entire online library for less than the price of a single book per month. With over 1 million books across 1000+ topics, we’ve got you covered! Learn more here.
Do you support text-to-speech?
Look out for the read-aloud symbol on your next book to see if you can listen to it. The read-aloud tool reads text aloud for you, highlighting the text as it is being read. You can pause it, speed it up and slow it down. Learn more here.
Is Populismo 2.0 an online PDF/ePUB?
Yes, you can access Populismo 2.0 by Marco Revelli in PDF and/or ePUB format, as well as other popular books in Politica e relazioni internazionali & Politica comparata. We have over one million books available in our catalogue for you to explore.

Information

Publisher
EINAUDI
Year
2017
ISBN
9788858425374
Capitolo quarto

The apprentice

Può apparire bizzarro, e persino incredibile, ma è la medesima geografia elettorale a riaffiorare, un secolo e un quarto piú tardi, alla fine del 2016, in quello che è stato considerato come il piú sconcertante e trasgressivo – imprevisto e imprevedibile – voto presidenziale americano.

Lo shock.

La sera dell’8 novembre, in quelle sei ore che sconvolsero il mondo in cui, preparandoci a guardare la superficie tranquilla di un lago, vi abbiamo invece visto emergere l’immagine sconvolgente del mostro di Loch Ness, abbiamo anche sperimentato il crollo di molti miti del nostro tempo. Quello dell’onnipotenza degli establishment. Quello dell’onniscienza dei sondaggisti e del giornalismo informato. Quello dell’incontrastata capacità di condizionamento da parte del sistema dei media. Ed è difficile dimenticare lo sguardo dei piú popolari anchormen delle principali reti televisive globali farsi vitreo e perdersi sconcertato nel vuoto, come quello dei broker delle Borse mondiali nei peggiori «martedí neri» della storia. L’agitazione incontrollata di John King, sulla Cnn, davanti al suo magico touch screen a parete quando i colori degli Stati assegnati hanno incominciato ad andare fuori controllo e ha dovuto ammettere sconsolato che nessuna delle notizie a cui i sondaggi l’avevano preparato si confermava. O le frasi disperate di Stephen Colbert, star della Cbs, quando alla fine di una serata sulla graticola, con Donald Trump ormai irraggiungibile, si è chiesto e ha chiesto all’America: «Ci sono mai stati momenti piú folli di quello che sta avvenendo proprio ora? O questo non è che l’ultimo frutto dell’albero della follia?», mentre il giornalista Mark Alperin che stava al suo fianco aggiungeva, apocalittico, che «al di fuori della Guerra civile, della Seconda guerra mondiale e includendo l’11 settembre, questo potrebbe essere il piú catastrofico evento che il Paese ha mai visto»1… Era come se – cosí commenterà il «New York Times» – «un asteroide avesse colpito», studio dopo studio, l’intero sistema televisivo…2.
In un mondo stupefatto e costernato – «percosso e attonito» direbbe il poeta – sarà quello l’atteggiamento prevalente di tutti i principali quotidiani occidentali, come se appunto l’impossibile si fosse d’improvviso materializzato. E ci si trovasse a vivere in una realtà sconosciuta. L’inglese «Daily Mirror» aprirà con l’immagine a tutta pagina della Statua della Libertà, le mani sul viso in segno di orrore, e la frase: «Che cosa hanno fatto!» (Dear God, America what have you done? è anche il titolo del «Telegraph», mentre sui social circola in forma virale l’immagine dei volti dei quattro presidenti del Mount Rushmore con un’espressione di assoluta angoscia). Il france-se «Libération» titolerà Trumpocalypse e «Le Figaro» L’ouragan, mentre l’ambasciatore di Hollande a Washington, Gérard Araud, una star del web, emetterà un tweet assai poco diplomatico – «Après Brexit et cette élection, tout est désormais possible. Un monde s’effondre devant nos yeux. Un vertige» –, che circolerà per un po’ prima di essere ritirato. Il «Daily Telegraph» si limiterà a un piú compassato, ma non meno inequivocabile, Trump’s american revolution, ma il newyorkese «Daily News» sparerà in sovrimpressione all’immagine della Casa Bianca la scritta a caratteri cubitali House of Horrors! Segno che lo shock è stato grande. Almeno quanto la sorpresa.
Ma forse non era del tutto impossibile capire che qualcosa del genere avrebbe potuto succedere. Che quello che è accaduto non è stato un fulmine a ciel sereno. Sarebbe stato probabilmente sufficiente non limitare il proprio sguardo alla sola superficie del Paese e dei fenomeni. Non fidarsi – e affidarsi – solo al racconto (alla narrative) che va per la maggiore nei punti alti del tessuto connettivo della nazione, quelli dove la vita si condensa e si accelera, e porre maggiormente l’orecchio al suolo, dove l’America profonda fa sentire i propri brontolii. E allo stesso modo capire che un Paese complesso come quello non ha un solo tempo sincronizzato e uniforme, muove a differenti velocità, e accanto alla vertigine temporale del world trade e della società globalizzata ci sono altre temporalità, che resistono e vanno in direzione ostinata e contraria. Lunghe durate, che la velocità di superficie può marginalizzare, ma che sopravvivono e riemergono – carsicamente, appunto – in comportamenti individuali e collettivi. La grande macchia rossa che segna i territori conquistati da Trump porta, appunto, il segno di una lunga durata. Accanto a quello di nuove sofferenze.

Mappe (antiche e nuove).

Fin dalla notte dell’8 novembre un buon numero di network globali misero a disposizione dei navigatori del web mappe interattive, sulle quali era possibile vedere in tempo reale – come sul wall touch screen di John King e della Cnn – formarsi la geografia del voto. Il «Guardian», in particolare, ne offrí una di straordinario interesse, dove era possibile non solo seguire l’assegnazione degli Stati, ma anche lo spoglio delle contee passando con un semplice colpo di zoom da uno sguardo lontano a uno piú ravvicinato, e osservando infine, a risultati acquisiti, lo spettacolo cromatico ai diversi livelli.
Non poté sfuggire allora, fin dalle prime battute, la striscia irrimediabilmente rossa – d’un rosso vivo, senza screziature – che correva verticalmente, da sud a nord, dal Texas al North Dakota, là dove si stendono appunto i Great Plains, nelle stesse aree in cui molti, molti decenni prima – un intero eone potremmo dire – il People’s Party aveva impresso il proprio colore. In sette dei nove Stati in cui James Weaver allora era arrivato primo o secondo, Trump stravince, con distacchi abissali (lí si concentra «the reddest of the red», come osserveranno a caldo i giornalisti della Cnbc)3: prende il Wyoming con il 70%, il Nord e il Sud Dakota rispettivamente con il 64% e il 61%, il Nebraska con il 60%, l’Idaho con il 59% , il Kansas con il 57%. Mancano solo, del bottino di Weaver, il Nevada e il Colorado. Ma se si fa lo zoom sul primo, ad esempio, ci si accorge subito che l’assegnazione dello Stato alla Clinton si deve al suo successo in una sola delle 16 contee, la piú popolosa, Las Vegas4, mentre tutte le altre sono andate, con ampi distacchi, a Trump. cosicché quel territorio che «dall’alto», a livello di Stato, appariva monocromatico e azzurro, vira al rosso se osservato «a livello del suolo» o, appunto, di contea. E non diversamente accade in Colorado, soprattutto nelle sue aree orientali.
Ma il gioco della mutazione cromatica non vale solo per i singoli Stati (o per i casi limite). Può essere utilmente fatto anche sull’intero quadro nazionale, operando sulla mappa interattiva nel suo insieme. Si potrà allora assistere allo spettacolo, di per sé sconcertante, di una tavola di colori ancora relativamente mossa, con significative porzioni di blu incastrate qua e là, che d’improvviso s’arrossa man mano che diventano visibili, nel dettaglio, i singoli tasselli «occupati dalle truppe di Trump», fino a farsi apparentemente omogenea nelle grandi aree centrali, con solo le due fasce costiere orientale e occidentale uniformemente colorate di blu. E questo perché Trump si è aggiudicato – fatto di per sé clamoroso – ben 2623 contee delle 3142 in palio (un record assoluto) mentre alla Clinton non ne sono rimaste che 487. Cosa che è stata utilizzata in modo truffaldino da parte della destra radicale per accreditare la falsa idea che Trump avesse ottenuto una generale landslide – un plebiscito – nel voto popolare, occultando il fatto che le aree «di Trump» erano quelle piú rarefatte come popolazione e quelle «di Hillary» le piú densamente popolate5, cosicché il conteggio finale farà segnare un vantaggio di 65 844 610 voti a Hillary Clinton contro 62 979 636.

Due Americhe.

Come che sia, liberato il campo dalle piú evidenti manipolazioni e dalle speculazioni interessate, resta comunque il fatto, di per sé stupefacente, dell’emergere prepotente, plastico, dal voto di novembre, di un Paese nettamente diviso. Per certi versi di due Paesi, o due Nazioni, anche territorialmente separate: le Two Americas, di cui parla il «New York Times», corredando anche in questo caso il proprio servizio di eloquenti mappe6. La Trump’s America, territorialmente immensa, distesa a occupare l’85% del territorio, tre milioni di miglia quadrate (in cui però abitano solo 146 milioni di persone, il 46% della popolazione totale degli Stati Uniti); e la Clinton’s America, incredibilmente densa e concentrata, ristrettissima in termini spaziali, appena il 15% del territorio, 530 000 miglia quadrate, ma popolatissima (174 milioni di abitanti, quasi trenta milioni in piú rispetto all’altra, il 54% della popolazione americana).
Due mondi antropologicamente, economicamente, socialmente e culturalmente estranei, la cui differenza sembra rianimare un cleavage – una linea di frattura – che i politologi avevano usato ampiamente nel descrivere il processo di State building (e in parte anche di Nation building), cioè di formazione dei moderni Stati nazionali, e che sembrava andato relativamente in disuso nella modernità matura: il cleavage Centro / periferia, o città / campagna7. L’America di Trump è l’America rurale delle case sparse e delle farms perdute nelle praterie, quella dei villaggi semispopolati e delle cittadine di provincia sempre piú sconnesse dalle rispettive capitali, l’America delle periferie, di tutte le periferie perdute e sperdute rispetto ai propri centri. L’America di Hillary è invece l’America metropolitana, delle grandi e soprattutto grandissime città, anzi, dei distretti centrali delle metropoli. L’America del centro dei Centri, dove ha fatto segnare distacchi abissali, come nel district of Columbia, vinto 93% a 4% (con 89 punti di distacco), o nel Bronx (89 a 10) e a Manhattan (87 a 10) o, sulla costa opposta, a San Francisco (85 a 10) e a Los Angeles (71 a 23)… Le statistiche ci dicono che negli urban cores (68 contee in tutto, ma pesantissime) Hillary ha trionfato con un margine medio di distacco di 72 punti percentuali. All’opposto, Trump ha monopolizzato il voto rural (1299 contee) con un vantaggio medio di 86 punti e quello delle very small e delle small cities (637 e 356 contee) con vantaggi di 73 e di 70 punti, prendendosi anche le medium sized cities e i suburbs con distacchi intorno ai 50 punti8.
Non era sempre stato cosí. L’America non era sempre stata tanto polarizzata, quantomeno nel corso del «secolo breve». Basta uno sguardo alla cartografia comparata longitudinalmente (cioè secondo una sequenza cronologica)9 per vedere che ancora all’inizio degli anni Novanta la tavola dei colori appariva relativamente mescolata, con i puntini blu e quelli rossi frammischiati tra loro e un po’ ovunque ampi spazi bianchi (quelli dove i due contendenti sono in equilibrio). L’altro Clinton, Bill, è l’ultimo candidato democratico ad aver pareggiato il conto delle contee vinte, nel 1992, quando se ne aggiudicò circa 1500, piú o meno quante Bush padre. Al Gore, nel 2000, era già sceso...

Table of contents