Populismo 2.0
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Populismo 2.0

Marco Revelli

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Il populismo si Ăš manifestato in forme molto diverse nel corso della storia, tra la fine dell'Ottocento e l'intero secolo breve; e anche oggi, la nuova disseminazione populista in Europa e negli Stati Uniti presenta differenze interne notevolissime, quelle che passano ad esempio tra la vittoria di Donald Trump e l'ascesa di Marine Le Pen. Ma un denominatore comune c'Ăš: il populismo Ăš sempre indicatore di un deficit di democrazia, cioĂš di «rappresentanza ». Un deficit «infantile», per cosĂ­ dire, per i populismi delle origini, sintomo di una democrazia non ancora compiuta; e un deficit «senile», quando cresce il numero di cittadini che non se ne sentono piĂș «coperti». Il populismo attuale - questa la tesi centrale del libro - Ăš del secondo tipo: rappresenta una sorta di «malattia senile della democrazia». Il sintomo di una crisi di rappresentanza che si estende alla forma democratica stessa. È il segno piĂș preoccupante del rapido impoverimento delle classi medie occidentali sotto il peso della crisi economica; ma anche della sconfitta storica del lavoro - e delle sinistre che lo rappresentarono - nel cambio di paradigma socio-produttivo che ha accompagnato il passaggio di secolo.

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Informations

Éditeur
EINAUDI
Année
2017
ISBN
9788858425374
Capitolo quarto

The apprentice

PuĂČ apparire bizzarro, e persino incredibile, ma Ăš la medesima geografia elettorale a riaffiorare, un secolo e un quarto piĂș tardi, alla fine del 2016, in quello che Ăš stato considerato come il piĂș sconcertante e trasgressivo – imprevisto e imprevedibile – voto presidenziale americano.

Lo shock.

La sera dell’8 novembre, in quelle sei ore che sconvolsero il mondo in cui, preparandoci a guardare la superficie tranquilla di un lago, vi abbiamo invece visto emergere l’immagine sconvolgente del mostro di Loch Ness, abbiamo anche sperimentato il crollo di molti miti del nostro tempo. Quello dell’onnipotenza degli establishment. Quello dell’onniscienza dei sondaggisti e del giornalismo informato. Quello dell’incontrastata capacitĂ  di condizionamento da parte del sistema dei media. Ed Ăš difficile dimenticare lo sguardo dei piĂș popolari anchormen delle principali reti televisive globali farsi vitreo e perdersi sconcertato nel vuoto, come quello dei broker delle Borse mondiali nei peggiori «martedĂ­ neri» della storia. L’agitazione incontrollata di John King, sulla Cnn, davanti al suo magico touch screen a parete quando i colori degli Stati assegnati hanno incominciato ad andare fuori controllo e ha dovuto ammettere sconsolato che nessuna delle notizie a cui i sondaggi l’avevano preparato si confermava. O le frasi disperate di Stephen Colbert, star della Cbs, quando alla fine di una serata sulla graticola, con Donald Trump ormai irraggiungibile, si Ăš chiesto e ha chiesto all’America: «Ci sono mai stati momenti piĂș folli di quello che sta avvenendo proprio ora? O questo non Ăš che l’ultimo frutto dell’albero della follia?», mentre il giornalista Mark Alperin che stava al suo fianco aggiungeva, apocalittico, che «al di fuori della Guerra civile, della Seconda guerra mondiale e includendo l’11 settembre, questo potrebbe essere il piĂș catastrofico evento che il Paese ha mai visto»1
 Era come se – cosĂ­ commenterĂ  il «New York Times» – «un asteroide avesse colpito», studio dopo studio, l’intero sistema televisivo
2.
In un mondo stupefatto e costernato – «percosso e attonito» direbbe il poeta – sarĂ  quello l’atteggiamento prevalente di tutti i principali quotidiani occidentali, come se appunto l’impossibile si fosse d’improvviso materializzato. E ci si trovasse a vivere in una realtĂ  sconosciuta. L’inglese «Daily Mirror» aprirĂ  con l’immagine a tutta pagina della Statua della LibertĂ , le mani sul viso in segno di orrore, e la frase: «Che cosa hanno fatto!» (Dear God, America what have you done? Ăš anche il titolo del «Telegraph», mentre sui social circola in forma virale l’immagine dei volti dei quattro presidenti del Mount Rushmore con un’espressione di assoluta angoscia). Il france-se «LibĂ©ration» titolerĂ  Trumpocalypse e «Le Figaro» L’ouragan, mentre l’ambasciatore di Hollande a Washington, GĂ©rard Araud, una star del web, emetterĂ  un tweet assai poco diplomatico – «AprĂšs Brexit et cette Ă©lection, tout est dĂ©sormais possible. Un monde s’effondre devant nos yeux. Un vertige» –, che circolerĂ  per un po’ prima di essere ritirato. Il «Daily Telegraph» si limiterĂ  a un piĂș compassato, ma non meno inequivocabile, Trump’s american revolution, ma il newyorkese «Daily News» sparerĂ  in sovrimpressione all’immagine della Casa Bianca la scritta a caratteri cubitali House of Horrors! Segno che lo shock Ăš stato grande. Almeno quanto la sorpresa.
Ma forse non era del tutto impossibile capire che qualcosa del genere avrebbe potuto succedere. Che quello che Ăš accaduto non Ăš stato un fulmine a ciel sereno. Sarebbe stato probabilmente sufficiente non limitare il proprio sguardo alla sola superficie del Paese e dei fenomeni. Non fidarsi – e affidarsi – solo al racconto (alla narrative) che va per la maggiore nei punti alti del tessuto connettivo della nazione, quelli dove la vita si condensa e si accelera, e porre maggiormente l’orecchio al suolo, dove l’America profonda fa sentire i propri brontolii. E allo stesso modo capire che un Paese complesso come quello non ha un solo tempo sincronizzato e uniforme, muove a differenti velocitĂ , e accanto alla vertigine temporale del world trade e della societĂ  globalizzata ci sono altre temporalitĂ , che resistono e vanno in direzione ostinata e contraria. Lunghe durate, che la velocitĂ  di superficie puĂČ marginalizzare, ma che sopravvivono e riemergono – carsicamente, appunto – in comportamenti individuali e collettivi. La grande macchia rossa che segna i territori conquistati da Trump porta, appunto, il segno di una lunga durata. Accanto a quello di nuove sofferenze.

Mappe (antiche e nuove).

Fin dalla notte dell’8 novembre un buon numero di network globali misero a disposizione dei navigatori del web mappe interattive, sulle quali era possibile vedere in tempo reale – come sul wall touch screen di John King e della Cnn – formarsi la geografia del voto. Il «Guardian», in particolare, ne offrĂ­ una di straordinario interesse, dove era possibile non solo seguire l’assegnazione degli Stati, ma anche lo spoglio delle contee passando con un semplice colpo di zoom da uno sguardo lontano a uno piĂș ravvicinato, e osservando infine, a risultati acquisiti, lo spettacolo cromatico ai diversi livelli.
Non potĂ© sfuggire allora, fin dalle prime battute, la striscia irrimediabilmente rossa – d’un rosso vivo, senza screziature – che correva verticalmente, da sud a nord, dal Texas al North Dakota, lĂ  dove si stendono appunto i Great Plains, nelle stesse aree in cui molti, molti decenni prima – un intero eone potremmo dire – il People’s Party aveva impresso il proprio colore. In sette dei nove Stati in cui James Weaver allora era arrivato primo o secondo, Trump stravince, con distacchi abissali (lĂ­ si concentra «the reddest of the red», come osserveranno a caldo i giornalisti della Cnbc)3: prende il Wyoming con il 70%, il Nord e il Sud Dakota rispettivamente con il 64% e il 61%, il Nebraska con il 60%, l’Idaho con il 59% , il Kansas con il 57%. Mancano solo, del bottino di Weaver, il Nevada e il Colorado. Ma se si fa lo zoom sul primo, ad esempio, ci si accorge subito che l’assegnazione dello Stato alla Clinton si deve al suo successo in una sola delle 16 contee, la piĂș popolosa, Las Vegas4, mentre tutte le altre sono andate, con ampi distacchi, a Trump. cosicchĂ© quel territorio che «dall’alto», a livello di Stato, appariva monocromatico e azzurro, vira al rosso se osservato «a livello del suolo» o, appunto, di contea. E non diversamente accade in Colorado, soprattutto nelle sue aree orientali.
Ma il gioco della mutazione cromatica non vale solo per i singoli Stati (o per i casi limite). PuĂČ essere utilmente fatto anche sull’intero quadro nazionale, operando sulla mappa interattiva nel suo insieme. Si potrĂ  allora assistere allo spettacolo, di per sĂ© sconcertante, di una tavola di colori ancora relativamente mossa, con significative porzioni di blu incastrate qua e lĂ , che d’improvviso s’arrossa man mano che diventano visibili, nel dettaglio, i singoli tasselli «occupati dalle truppe di Trump», fino a farsi apparentemente omogenea nelle grandi aree centrali, con solo le due fasce costiere orientale e occidentale uniformemente colorate di blu. E questo perchĂ© Trump si Ăš aggiudicato – fatto di per sĂ© clamoroso – ben 2623 contee delle 3142 in palio (un record assoluto) mentre alla Clinton non ne sono rimaste che 487. Cosa che Ăš stata utilizzata in modo truffaldino da parte della destra radicale per accreditare la falsa idea che Trump avesse ottenuto una generale landslide – un plebiscito – nel voto popolare, occultando il fatto che le aree «di Trump» erano quelle piĂș rarefatte come popolazione e quelle «di Hillary» le piĂș densamente popolate5, cosicchĂ© il conteggio finale farĂ  segnare un vantaggio di 65 844 610 voti a Hillary Clinton contro 62 979 636.

Due Americhe.

Come che sia, liberato il campo dalle piĂș evidenti manipolazioni e dalle speculazioni interessate, resta comunque il fatto, di per sĂ© stupefacente, dell’emergere prepotente, plastico, dal voto di novembre, di un Paese nettamente diviso. Per certi versi di due Paesi, o due Nazioni, anche territorialmente separate: le Two Americas, di cui parla il «New York Times», corredando anche in questo caso il proprio servizio di eloquenti mappe6. La Trump’s America, territorialmente immensa, distesa a occupare l’85% del territorio, tre milioni di miglia quadrate (in cui perĂČ abitano solo 146 milioni di persone, il 46% della popolazione totale degli Stati Uniti); e la Clinton’s America, incredibilmente densa e concentrata, ristrettissima in termini spaziali, appena il 15% del territorio, 530 000 miglia quadrate, ma popolatissima (174 milioni di abitanti, quasi trenta milioni in piĂș rispetto all’altra, il 54% della popolazione americana).
Due mondi antropologicamente, economicamente, socialmente e culturalmente estranei, la cui differenza sembra rianimare un cleavage – una linea di frattura – che i politologi avevano usato ampiamente nel descrivere il processo di State building (e in parte anche di Nation building), cioĂš di formazione dei moderni Stati nazionali, e che sembrava andato relativamente in disuso nella modernitĂ  matura: il cleavage Centro / periferia, o cittĂ  / campagna7. L’America di Trump Ăš l’America rurale delle case sparse e delle farms perdute nelle praterie, quella dei villaggi semispopolati e delle cittadine di provincia sempre piĂș sconnesse dalle rispettive capitali, l’America delle periferie, di tutte le periferie perdute e sperdute rispetto ai propri centri. L’America di Hillary Ăš invece l’America metropolitana, delle grandi e soprattutto grandissime cittĂ , anzi, dei distretti centrali delle metropoli. L’America del centro dei Centri, dove ha fatto segnare distacchi abissali, come nel district of Columbia, vinto 93% a 4% (con 89 punti di distacco), o nel Bronx (89 a 10) e a Manhattan (87 a 10) o, sulla costa opposta, a San Francisco (85 a 10) e a Los Angeles (71 a 23)
 Le statistiche ci dicono che negli urban cores (68 contee in tutto, ma pesantissime) Hillary ha trionfato con un margine medio di distacco di 72 punti percentuali. All’opposto, Trump ha monopolizzato il voto rural (1299 contee) con un vantaggio medio di 86 punti e quello delle very small e delle small cities (637 e 356 contee) con vantaggi di 73 e di 70 punti, prendendosi anche le medium sized cities e i suburbs con distacchi intorno ai 50 punti8.
Non era sempre stato cosĂ­. L’America non era sempre stata tanto polarizzata, quantomeno nel corso del «secolo breve». Basta uno sguardo alla cartografia comparata longitudinalmente (cioĂš secondo una sequenza cronologica)9 per vedere che ancora all’inizio degli anni Novanta la tavola dei colori appariva relativamente mescolata, con i puntini blu e quelli rossi frammischiati tra loro e un po’ ovunque ampi spazi bianchi (quelli dove i due contendenti sono in equilibrio). L’altro Clinton, Bill, Ăš l’ultimo candidato democratico ad aver pareggiato il conto delle contee vinte, nel 1992, quando se ne aggiudicĂČ circa 1500, piĂș o meno quante Bush padre. Al Gore, nel 2000, era giĂ  sceso...

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