Fuori controllo
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Fuori controllo

Un'antropologia del cambiamento accelerato

Thomas Hylland Eriksen, Chiara Melloni

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Un'antropologia del cambiamento accelerato

Thomas Hylland Eriksen, Chiara Melloni

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Densa, veloce, surriscaldata; contraddistinta da ineguaglianze e iniquità. È l'età dell'Antropocene, il segno indelebile dell'umanità sul pianeta. È la globalizzazione - ma non come la conosciamo. Thomas Hylland Eriksen dà nuova linfa alla discussione intorno alla modernità globalizzata, adottando l'approccio antropologico nell'analisi di tre crisi interconnesse: ambientale, economica e identitaria. Se è vero che queste crisi sono globali per ampiezza, vengono però percepite e subite a livello locale, e sono moltissime le contraddizioni che sorgono tra le forze di standardizzazione dell'età dell'informazione del capitalismo globale e la natura socialmente stratificata delle vite individuali. Se il globale è di fatto ingovernabile, una possibile forma di opposizione consisterà per l'autore nell'individuare tattiche e interventi legati a congiunture e contesti locali: resistenze e strategie di sopravvivenza che possono invertire il corso di un mondo in crisi e prossimo alla catastrofe.

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Information

Publisher
EINAUDI
Year
2017
ISBN
9788858426463
Capitolo ottavo

I conflitti di scala: comprendere il surriscaldamento

Permettetemi di riassumere brevemente quanto detto finora prima di proseguire nella discussione.
  • All’epoca contemporanea può essere assegnato il nome di Antropocene: l’impronta dell’uomo è infatti visibile ovunque in seguito a un incremento esponenziale delle sue attività. Le premesse di questo aumento sono state la crescita demografica e il progresso tecnologico, a loro volta alimentati da risorse non rinnovabili e causa, a breve termine, di degrado ambientale e di cambiamento climatico a lungo termine.
  • Per quanto esistano importanti variazioni regionali, il regime ideologico attualmente in auge, egemonico e globale, incoraggia la mercificazione e la deregolamentazione dei mercati ogni qual volta essi possano portare beneficio ai potenti. Generalmente chiamata neoliberismo, quest’ideologia tende a tradurre le questioni politiche in questioni economiche o gestionali, evitando il dibattito su valori fondamentali, sulla giustizia sociale e sulle condizioni necessarie al benessere duraturo dell’umanità.
  • Il neoliberismo dell’Antropocene si caratterizza per la presenza di processi fuori controllo all’interno di ambiti eterogenei e interconnessi. Ciò significa che la crescita avviene senza meccanismi che ne stabiliscano il limite massimo, o, per dirlo attenendomi alla metafora del surriscaldamento, che il riscaldamento è acceso ma manca il termostato. La fruizione dell’energia, l’espansione urbana e la crescita demografica, il turismo e le ondate migratorie, la produzione di rifiuti e i suoi effetti diretti sull’ambiente a livello locale sono tipici esempi di processi fuori controllo, cosí come lo sono la straordinaria crescita dell’uso di internet dal 1990 a oggi, nonché del commercio internazionale. Tuttavia, l’esempio piú chiaro di neoliberismo impazzito ci è probabilmente dato dalla finanziarizzazione, la cui natura di commercio di beni fittizi (il denaro), unita all’irregolare ma frequente scoppio di bolle, assicura la costante instabilità del sistema a livello globale. La competizione da tapis roulant, che si verifica a diversi livelli di scala, alimenta la degenerazione dei processi e dimostra come questi manchino di limiti e di obiettivi.
  • Il principale doppio legame, o l’irrisolvibile dilemma, della nostra epoca è conciliare crescita economica e sostenibilità ecologica. L’una preclude l’altra, eppure i politici e le organizzazioni mondiali affermano di sostenerle entrambe. È possibile identificare altri aspetti del sistema globale che rispondono alla logica del doppio vincolo, come la tensione tra l’universalismo dei diritti dell’uomo e l’evidente particolarismo della distinzione de facto tra vite umane di serie A e di serie B, e forse il problema dell’incompatibilità tra politiche di classe e politiche ecologiche.
  • La spinta verso livelli di scala superiori è intrinseca alla globalizzazione, i cui detrattori propendono invece in larga parte per la direzione opposta. Per quanto la «globalizzazione dal basso», ovvero l’economia informale e il piccolo commercio internazionale informale, sia un fenomeno molto diffuso, i processi su larga scala, o su scala estesa, provocano cambiamenti di ben maggiore portata e incisività. La nozione di «scala» può essere concettualizzata in termini di spazio, di organizzazione sociale, di universi cognitivi e orizzonti temporali, e in tutti questi contesti lo stato surriscaldato del mondo in cui viviamo provoca conflitti di scala piú potenti ed evidenti che mai. Alcuni tra i piú noti conflitti di scala avvengono quando comunità locali sono prevaricate da interessi di larga scala, quando le urgenze quotidiane di breve periodo hanno priorità rispetto alla sopravvivenza di lungo periodo, o quando la creazione di impiego a livello locale conta piú della sostenibilità ambientale.

Salire di livello: le conseguenze.

Il termine «scontro di civiltà» non offre una descrizione esatta del mondo contemporaneo. La nozione di «scontro di civiltà», enunciata da Samuel Huntington1, considera le differenze culturali profonde come forza scatenante e causa primaria di conflitti che, secondo Huntington, esploderanno lungo le «linee di faglia» che separano le civiltà. Pochi, per non dire nessuno, dei conflitti di cui siamo spettatori oggi si sviluppano lungo queste «linee di faglia». Se è vero che molti tra gli odierni conflitti armati coinvolgono musulmani schierati contro l’egemonia occidentale, è altrettanto vero che buona parte degli scontri avviene tra i musulmani stessi. Inoltre, gruppi ribelli come Boko Haram o Daesh (l’Isis) possono difficilmente essere considerati rappresentanti della «civiltà musulmana». La mia controtesi è che il concetto di scontro tra ordini di grandezza risulta piú chiaro, versatile e utile nel decifrare le frizioni e le tensioni provocate dal neoliberismo globale, dall’egemonia dei combustibili fossili e dai danni ambientali che ne conseguono.
Nonostante gli effetti del passaggio a una scala superiore siano stati già menzionati molte volte nei capitoli precedenti, permettetemi di tornare brevemente sul punto. Passare a una scala piú alta significa espandere qualcosa per trarne una qualche forma di beneficio. In politica, la versione moderna di questo concetto è incarnata dal nazionalismo, che vede un’estensione dei limiti sistemici dei mondi di vita attraverso un’incorporazione delle comunità negli Stati-nazione2. La chiave del successo per uno Stato-nazione risiede nella sua capacità di rendere congruenti la scala politica e quella cognitiva, garantendo l’identificazione degli abitanti con la comunità nazionale da loro immaginata.
In un mondo surriscaldato come quello odierno, gli esempi piú importanti e ricchi di conseguenze dell’aumento di scala sono forse quelli riscontrabili nell’economia, campo in cui gli attori minori vengono sbaragliati dalle grandi multinazionali. Ecco un ricordo piuttosto significativo del periodo di ricerca sul campo che ho svolto in Australia: nel gennaio del 2014, la catena The Coffee Club, presente in tutto il paese, aprí un nuovo punto vendita in Goondoon Street, il cuore commerciale di Gladstone. Dall’altro lato della strada, una tavola calda a conduzione famigliare aveva per molti anni fatto affari servendo consistenti colazioni accompagnate da un caffè piuttosto forte, preparato con una miscela casalinga. Poco dopo l’inaugurazione del nuovo punto Coffee Club, apparve la scritta «vendesi attività» sulle finestre del vecchio bar. Nel suo libro sull’esplosione del turismo, Becker descrive con le seguenti parole una scena avvenuta in una città da poco meta del turismo di massa:
Poi uscí con noi in strada, e indicò quali negozi sulla sua via erano stati cacciati in seguito all’arrivo delle boutique di alta moda. «Il primo vicolo sulla sinistra: c’erano un macellaio, un fiorista e un fornaio. Tutti scomparsi. Adesso solo chi lavora nella moda internazionale può permettersi di pagare l’affitto»3.
Salire di scala crea economie di scala. Le attività commerciali minori si trovano quindi schiacciate nella competizione, ma vi è anche un altro effetto generale, in termini di riduzione della flessibilità, che vale la pena menzionare. Consentitemi di utilizzare come esempio le piantagioni. Le monoculture presenti nelle piantagioni, contrariamente alla versatilità dei contadini, implicano una semplificazione strutturale, un appiattimento delle competenze del lavoratore. La produttività aumenta, ma al singolo lavoratore manca la capacità di far funzionare da solo la piantagione, a differenza del contadino con i propri animali e la propria terra. Diventando un lavoratore dipendente, un contadino trae un vantaggio pecuniario, ma perde autonomia e flessibilità in quanto il suo sostentamento dipende ora interamente dalla piantagione. Oltre a questo, le piantagioni, per loro stessa natura, riducono la biodiversità e di conseguenza la flessibilità ecologica. D’altro canto, non si dovrebbe neppure considerare l’agricoltura su piccola scala come una panacea. Non sfamerà il mondo, e come mi ha detto una volta Robert Pijpers in una conversazione personale, se la vostra fattoria si trova in una zona non fertile dell’Africa occidentale, la vostra famiglia patirà la fame a ogni stagione delle piogge; a quel punto, anche un alienante posto di lavoro in città diventerà preferibile alle incertezze di un’agricoltura contadina su piccola scala.
La logica omologante e semplificatrice della piantagione, descritta da Mintz come il prototipo della fabbrica4, può essere riscontrata ovunque vi sia sviluppo industriale, ma, in un’era di interconnessioni globali e di facile mobilità per gli investimenti di capitale, essa diventa onnipresente. Pensate solo a come il vostro programma di videoscrittura e di presentazione di testi modella il modo in cui lavorate mentre, simultaneamente, vi facilita nel creare connessioni con gli altri. Il programma della Microsoft, tuttora egemonico tra i software di videoscrittura e presentazione, potrebbe trovare un parallelo quasi perfetto nel fenomeno di omologazione dei container e delle relative infrastrutture5. In maniera simile all’imposizione del sistema metrico nella misurazione, l’introduzione di proporzioni fisse per i container, iniziata nei primi anni Sessanta, ha provocato una trasformazione del commercio mondiale di cui pochi comprendono l’entità. Lo scaricatore di porto indisciplinato e spesso non sindacalizzato è una reliquia del passato, visto che oggi le merci passano dalle carrozze o dai camion alle navi attraverso gru operate da un esiguo numero di uomini ben pagati. Sul piano dell’organizzazione delle attività lavorative, il passaggio dal lavoro ad alta intensità di manodopera al lavoro meccanizzato avvenuto nei porti è simile a quello, già descritto precedentemente, che ha interessato il settore minerario, dove l’estrazione del carbone, anch’essa ad alta densità di manodopera, ha ceduto il passo all’estrazione meccanizzata del petrolio. Ma per permettere a container standardizzati, differenti per colori e marchi, ma identici per dimensioni e proporzioni, di conquistare il mondo, è stato necessario adattare le ferrovie, i camion, le navi e la conformazione dei porti stessi, molti dei quali hanno dovuto essere completamente ricostruiti. A questo punto, il mondo del commercio ha stabilito uno standard industriale, e i concorrenti incapaci di reggere la competizione da tapis roulant della Regina Rossa sono stati condannati all’oblio, come il porto di Liverpool, che non essendo riuscito a riconfigurarsi, parzialmente per l’opposizione del forte sindacato dei lavoratori portuali, ha imboccato la via del declino verso la fine degli anni Sessanta. (Un controesempio ci è fornito da Erem e Durrenberger, che riportano come un’unione sindacale di lavoratori portuali della Carolina del Sud sia riuscita, dopo l’avvento dei container, a estendere la propria dimensione di lotta permettendo a portuali di tutto il mondo di rafforzare la loro posizione)6.
Oltre a riconfigurare lavoro e infrastrutture, la transizione verso un’omologazione su larga scala incarnatasi nelle navi portacontainer ha abbassato fortemente i costi dei trasporti. Di conseguenza, dal punto di vista economico, ha perfettamente senso per un venditore di giocattoli dell’Indiana scegliere di non rifornirsi di Barbie da un produttore locale ma bensí in Cina, dove il costo della manodopera è inferiore. Prima delle navi portacontainer questo non sarebbe potuto accadere.
Tali sistemi di comunicazione, trasporto, consumo e produzione, omologati e funzionanti su vasta scala, formano l’infrastruttura del mondo surriscaldato. I conflitti di scala sono palesi. Le unioni sindacali dei portuali di Liverpool operavano su scala locale e sono state scavalcate da processi in atto su scala internazionale; ugualmente, le fabbriche di giocattoli del Midwest hanno perso la competizione contro entità operative estere e su larga scala, in grado di spedire i propri prodotti ovunque nel mondo, a un prezzo basso.
I conflitti di scala nell’economia – ossia, in ambito di produzione, distribuzione e consumo – possono essere positivi per l’«economia mondiale» (un’astrazione di ben poca rilevanza per la vita delle persone) ma non per quelli che ne subiscono direttamente gli effetti. In uno studio sui coltivatori di banane dell’isola caraibica di Dominica, la studiosa del surriscaldamento Frida Aamnes ha analizzato le risposte locali alla deregolamentazione del mercato europeo delle banane7. Dopo l’indipendenza, e fino agli anni Novanta, la Dominica e altri Stati caraibici orientali per decenni avevano potuto esportare a un prezzo minimo garantito le proprie banane nel Regno Unito e in Europa, grazie ad accordi della prima e seconda Convenzione di Lomé. Dopo la fine di questi accordi preferenziali, svaniti gradualmente negli anni Novanta, i piccoli produttori di banane dominicani, proprietari perlopiú di piccoli appezzamenti, si trovarono a dover competere con le banane prodotte su larga scala in America centrale. Era impossibile per le piccole coltivazioni della Dominica produrre banane a prezzi competitivi. I politici locali se la presero principalmente con i contadini, accusandoli di pigrizia, mentre le Ong attive sull’isola li incoraggiarono a esplorare il commercio equo e solidale, per poter accedere a una nicchia di mercato dove le banane vengono prodotte in condizioni di lavoro socialmente responsabili. Gli agricoltori esaminati nello studio di Aamnes preferirono optare per la flessibilità, invece che per le monoculture su vasta scala delle piantagioni o per i vincoli imposti dal commercio equo e solidale (che detta numerose condizioni ai propri produttori). Molti continuarono a coltivare banane, integrando però le proprie entrate in svariati modi, lavorando come contadini indipendenti con una produzione piccola ma variegata di frutta e ortaggi e qualche animale; altri fecero della propria casa un piccolo negozio in cui vendere cibo e bevande; alcuni si misero a vendere marijuana; alcuni affittarono una camera della propria abitazione; altri ancora guadagnavano qualche soldo pescando, facendo gli autisti, lavorando in cantieri stradali e cosí via. In altre parole, non reagirono passando a una scala superiore, né provarono a connettersi a una rete alternativa su larga scala (il commercio equo e solidale), ma tentarono invece di trovare un modo di sopravvivere preservando, al contempo, la propria autonomia. Nel loro caso, questo presupponeva un’economia locale, fondata su pratiche a loro volta locali sul piano di produzione, distribuzione e consum...

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