Lettera aperta
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Lettera aperta

Goliarda Sapienza, Angelo Pellegrino

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  1. 208 pages
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Lettera aperta

Goliarda Sapienza, Angelo Pellegrino

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Guerresca e pacifica, aggressiva e mite. Cosí è Goliarda Sapienza anche da bambina: una bambina che vive un suo mondo violento, senza nessuna concessione, che piange con lacrime di rabbia, che respira l'aspra bellezza siciliana, che vede i suoi genitori per quello che sono: una madre sindacalista, tenace nel distinguersi da tutte le altre «donnette», un padre siciliano dalla testa ai piedi. E per rimettere ordine tra le bugie dei ricordi, recupera dalla memoria frammenti di sé che a poco a poco si compongono nel percorso di una donna che vuole essere padrona della sua vita e della sua felicità. Innocente, ricco, tenero, delirante, doloroso come solo l'infanzia e l'adolescenza possono essere, Lettera aperta è il prezzo d'amore pagato da chi ha affrontato una realtà incandescente che prima non era in grado di affrontare, lasciandosi cosí alle spalle le «cose brutte che ci sono qua dentro». Introduzione di Monica Farnetti.
A cura di Angelo Pellegrino.

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Information

Publisher
EINAUDI
Year
2017
ISBN
9788858425701

1.

Non è per importunarvi con una nuova storia né per fare esercizio di calligrafia, come ho fatto anch’io per lungo tempo; né per bisogno di verità – non mi interessa affatto, – che mi decido a parlarvi di quello che non avendo capito mi pesa da quarant’anni sulle spalle. Voi penserete: perché non se la sbroglia da sé? Infatti ho cercato, molto. Ma, visto che questa ricerca solitaria mi portava alla morte – sono stata due volte per morire «di mia propria mano», come si dice – ho pensato che sfogarsi con qualcuno sarebbe stato meglio, se non per gli altri almeno per me. E che faccia bene parlare delle proprie cose, ho dovuto sperimentare che ha qualche fondamento reale. Come vi ho detto, questi quarant’anni, o meglio i primi venti anni di questi quarant’anni, a furia di volerli scientemente ignorare, si sono cosí ingarbugliati che non riesco a districarli, a fare ordine. Io purtroppo sono molto ordinata, anzi direi un po’ fissata: e cosí i fatti passati mi schiacciano come una mosca ai muri di questa stanza che si è fatta troppo piena. Capirete, ci vivo da sempre. Ci sono libri naturalmente, quadri, specchi, tavoli, tanti tavoli che uno sta sull’altro, oggetti inutili che ho comprato o che mi hanno regalato e che non ho osato rifiutare. Vi spiego: oggi è venuta come al solito Dina per pulire: viene due volte la settimana. E spolverando un piccolo animale stilizzato, naturalmente svedese, che mi regalò George, ha esclamato sottovoce: «Quanto è brutto!» Lo sapevo, lo so da quando me lo regalò: ma sentirlo dire mi ha fatto ricordare quanto è rimasto brutto in tutti questi anni. E mi è venuto il sospetto che non ci si voglia mai disfare delle cose brutte che ci cascano fra le mani perché pensiamo che la nostra vicinanza le possa migliorare. E cosí, con questo sospetto che ha tarlato la mia sicurezza, ho buttato via l’animaletto e mi sono decisa a parlarvi.
Scusate ancora, ma ho bisogno di voi per essere in grado di sbarazzarmi di tutte le cose brutte che ci sono qui dentro. Parlando, dalla reazione di chi ascolta, puoi capire cosa va tenuto e cosa buttato. Ho bisogno di voi per liberarmi di tutte le cose inutili che affollano questa stanza. Ho la bocca piena della loro polvere. Ho detto un minimo di ordine, non di verità.
Anche voi associate la parola «ordine» con la parola «verità», e la parola «intelligenza» con la parola «bontà»? Ho fatto sempre questo errore. Non mi fraintendete, non «verità»: ma solo un minimo di ordine in tutte queste «non verità», nelle quali nascendo, o meglio – come diceva mio fratello Ivanoe – cascando da quel cavolo sulla terra, mi sono trovata a strisciare prima, e a camminare dopo. Non vorrei buttare discredito sui morti e sui vivi che ho incontrato, ma visto che mi sono state dette, come a tutti del resto, piú bugie che verità, come potrei io, ora, sperare di parlarvi illudendomi di arrivare ad un ordine-verità? E no: credo proprio che questo mio sforzo per non morire soffocata nel disordine sarà una bella sfilza di bugie.
Pazienza! Speriamo, almeno, di riuscire a districarle, cosí che ci si possa passare lo straccio per spolverare senza sbattere in un vasetto sbreccato, uno specchietto antico, un orologio fermo dalle due e mezzo (da quando?)

2.

Una delle prime bugie nelle quali inciampai cadendo giú dal cavolo fu di credere che i sette individui, maschi e femmine che dormivano, si agitavano, mangiavano, sbadigliavano sotto il nostro tetto, fossero tutti miei fratelli e sorelle; che la casa dove vivevamo fosse di nostra proprietà; che tutti mi amavano molto; che mio padre era siciliano e mia madre lombarda. La prima verità, o che mi suonò come tale, mi fu detta da mio fratello Carlo una mattina che mi spingeva in acqua dal precipizio delle scalette dell’Ògnina a nuotare: ed io avevo paura. Disse: «Noi Sapienza abbiamo tutti imparato a nuotare prima di camminare e tu, cosí grande e grossa (avevo sei anni), hai paura. Sei una bastarda». Non rimasi male delle sue parole, perché Carlo aveva dei bei baffi neri e le labbra molto morbide a toccare, e me lo disse sorridendo ed accarezzandomi i capelli. Non rimasi male, ma quella parola mi diede molto da pensare e mi permise, come vedrete, di scoprire molte cose.
Intanto mi fece scoprire la parola «bastardo» che non avevo mai sentito. Mi affascinò moltissimo e la ripetei molte volte per ricordarmela: esercizio che si rivelò efficace e che ho sempre adottato in seguito, tanto che, in qualsiasi posto mi trovassi, se sentivo una parola che mi colpiva, la ripetevo, credo, muovendo anche le labbra. Mi sentivo dire in queste occasioni: «Ma finiscila di biascicare!» Una volta mia sorella Licia aggiunse: «Sembri una mentecatta», ed io senza piú ascoltarla abbandonai la prima preda per questa seconda, «mentecatta», che non conoscevo. E dài a masticare! tanto che Licia uscí dalla porta sbattendola. A casa mia, quando c’era qualcosa che non andava, si sbatacchiavano le porte. Biascicando la parola bastarda, anzi con la parola bastarda che mi usciva dagli occhi, dalle orecchie, col sudore delle ascelle e della schiena – era la prima volta che prendevo contatto con questo esercizio, e fu molto faticoso – ascoltai la spiegazione del professore Jsaya. Era il mio maestro, mi dava lezioni nella sua stanza, ed era un supplizio per me, perché il pavimento era pieno di pulci: e mentre lui spiegava, dovendo stare immobile per rispetto alla sua fatica, «È un grande intellettuale ed è una vera gentilezza che ti fa dandoti lezioni: quindi immobile, mi raccomando!» – dovendo stare immobile e non potendo chinarmi per grattarmi sotto il tavolo, quelle ne approfittavano per consumare il loro pasto indisturbate. Credo che mi aspettassero con molta ansia, perché oltre me non c’era nessuno dal professore Jsaya. Non aveva nessuno: si rifaceva il letto da sé e, anche quando spiegava, camminava sempre di corsa dal tavolo alla finestra e dalla finestra, girando intorno alle mie spalle, ancora alla finestra, dove qualche volta si affacciava e sputava giú per strada. Certo, lui non lo potevano mordere, e si sfogavano con le mie caviglie. In seguito mi feci la convinzione che corresse proprio per non essere morsicato. Era un supplizio, ma il professore Jsaya era l’unico che rispondeva alle mie domande. Questa fu la sua risposta: «Bastardo si dice di un animale o di una persona della quale non si sappiano le origini». E siccome io non capivo, e glielo dissi, mi indicò il suo cane e mi parlò delle razze. Era un incrocio fra un lupo ed un cane di un’altra razza non bene identificata, e per questo la parte di lupo in Pussi – era il nome di quel bastardo – essendo avvezza ai climi freddi, soffriva terribilmente lí in Sicilia: e gli mancava il fiato. Per questo stava sempre con la bocca spalancata, la lingua fuori, e nelle pause lunghe, che il professore faceva spesso – qualche volta si dimenticava addirittura di me: me lo disse lui: «Scusami piccola, mi ero dimenticato che eri qui!» – si sentiva il respiro forte di Pussi.
Aveva caldo. Mi fece molta pena, perché anch’io avevo sempre caldo, e da allora, quando vedevo un cane con la lingua di fuori, sudavo. E cominciai a sognare per loro prati verdi e distese di neve, commovendomi tanto da ansimare sempre di piú. Ma da questa spiegazione la cosa piú importante che appresi sulla parola bastardo fu, sempre secondo le sue parole, che tutti i poliziotti sono bastardi. Io ci credetti senz’altro, credevo a tutto quello che diceva; ma di tutti quelli che ho incontrato e fissato per vedere se spalancavano la bocca e tiravano fuori la lingua, nessuno lo ha mai fatto. Una volta ne seguii uno per tutta via Cappellini: si fermò davanti ai cartelloni del cinema Mirone ed aprí un poco la bocca. Era il segno? O uno sbadiglio? Non mi convinse, e pensai di chiederne spiegazione al professore Jsaya. Mi ricordo solo adesso di essermi dimenticata di domandarglielo: peccato.

3.

Peccato proprio. Ma è morto. È morto in un ospizio dove mio padre riuscí a farlo accettare anche se come professore era stato cacciato da tutte le scuole del regno, per offesa alla religione, al regime o qualcosa di simile. Riuscí, e pagando una retta mensile, ottenne anche di fargli assegnare una stanzetta dove lui, come mi dissero, trasportò tutti i suoi libri. Fu Carlo a raccontarmelo mentre seguivamo il feretro di mio padre. «Eh Iuzza! Era un grande intellettuale!» disse sorridendo come sempre, dolcemente. Lo guardai, aveva ancora i baffi neri ma le labbra chissà se erano ancora morbide a toccare. «Era un grande intellettuale lui! Come avrebbe potuto dormire nella camerata insieme a tutti quei limoni spremuti dai fasci littori se, per dirla come lui la diceva, pensava, anzi “cogitava” anche la notte?» Sempre sorridendo aggiunse che l’ultima volta che l’aveva visto non gli era sembrato troppo scontento di quella sistemazione, se non per il fatto che una donna gli rifaceva il letto ogni mattina, e cosí lui era costretto a fare doppio lavoro: disfarlo e rifarlo: «Le donne sono una dannazione Carluzzu mio! Manco il letto sanno fare! Manco il letto, cosí come manco sanno starci sopra col proprio uomo!» Non sembrava troppo scontento. Era sempre scontento il professore Jsaya: le labbra strette come se avesse sempre la puzza sotto il naso, il capo piegato in avanti ad ascoltare senza guardarti. Di solito, dopo aver ascoltato attentamente, rizzava il capo e serrando le labbra sempre piú, come se addirittura avesse la nausea, rispondeva con voce dolce: «O dunque! Mi pare proprio che la tua domanda, sia per l’insensatezza con la quale è stata formulata, sia per la sua essenza fanciullesca, non richieda risposta. Impara prima a formularle le domande! E che cazzo! Qui si perde tempo! Vediamo di occuparci di cose sensate, o almeno di cose, visto che ci appressiamo ad entrare in questo mondo di merda, che il buon senso comune e la legge ci costringono a ritenere tali. Apri bene gli occhi e dimmi la terza coniugazione del verbo…» Era sempre scontento. Forse, come diceva Licia, perché aveva studiato a Londra? In quanti posti aveva studiato il professore Jsaya!
… cos’è che non ero riuscita ad afferrare di quel discorso difficilissimo? Quale discorso? Seguivo il feretro di mio padre, e mi accorgo che ho perduto qualcosa che avevo pensato di dirvi. Cos’era? Si dice che quando ci si dimentica di un’idea che si vuole comunicare, è perché si tratta di una bugia. Sarà per questo? Ma se era una bugia a me interessa di piú! Ho smarrito qualcosa, dato che dal funerale mi ritrovo seduta su un gradino delle scale della casa del professore Jsaya, tremante e con un fico in mano. Non ho voglia di mangiarlo, eppure è un fico di quelli con le mandorle dentro, che mi piacciono tanto. Uno scambio delle rotaie dei miei ricordi non ha funzionato, e mi ritrovo in questa stanza a rivedere carte, appunti, senza un’indicazione precisa. È fatale che sia cosí, con tutto questo disordine che ho creato per mettere ordine. Come fare? Come si fa con la pellicola alla moviola quando si monta un film. Tornerò indietro. Mi alzo dal gradino e rientro nella stanza. Il professore Jsaya, invece di correre, sta fermo in piedi davanti a me, ed urla. Sí, urla che siamo un popolo di pecoroni, che non facciamo che crearci dei falsi miti, che… Sí, adesso ricordo, gli avevo chiesto se lui, che sapeva tante lingue, che leggeva tutti quei libri in tutte le lingue, perfino in russo, fosse piú intelligente di Licia, di Ivanoe, di Galileo Galilei. Dopo una pausa tanto lunga che credevo non mi avrebbe piú risposto, si volta invece di scatto verso di me, e con i piedi inchiodati al pavimento e tutto il corpo e le braccia che sbattono nell’aria: «E certo! Anche piú intelligente di quel fottuto scimunito di Mussolini! Certo! È mai possibile che scambiate la cultura ammuffita per genio, e la memoria per intelligenza? Ma proprio non potete vivere senza farvi un dio, un duce del primo fesso che vi capita sottomano? Decadenza! Corruzione! E voi donne specialmente, sempre con gli occhioni languidi spalancati in attesa di un principe perfetto… Siete fascisti; ecco cosa siete, fascisti». Esco da quella porta cercando di ricordare quelle nuove parole che mi piacciono, ma che non sono riuscita ad afferrare. È per questo che tremo cosí? Per lo sforzo inutile che faccio di ricordarne almeno una? «Siete fascisti, perché siete deboli». No, non aveva detto deboli. «E vi volete fare dei… a tutti i costi. La cultura se… è una schifezza. Tuo padre è un facilone che la dà a bere solo perché è coraggioso… coraggioso! Il coraggio dell’incoscienza. Anche di lui hanno fatto un…» E perché aveva sghignazzato quando aveva detto che avrebbe preferito morire di fame, piuttosto che insegnare a quegli animaletti votati al conformismo che brulicano come vermi nelle scuole di Stato? Mi dovetti fermare e sedere sulle scale: tremavo tanto che avevo paura di cadere. Ce l’aveva con me? Eppure, dopo, mi aveva dato un fico secco e mi aveva sorriso, cosa che non faceva mai. E sempre sorridendo: «Scusa Goliarda, sono argomenti che mi fanno quagliare il sangue negli occhi, ma tu non c’entri, tu sei una bambina, e sarai una donna imbecille come tutte le donne, ma molto carina». Mi misi a piangere: avevo perduto tante belle parole nuove. Cercai di ricordarmene almeno una, asciugandomi gli occhi: ma niente, si erano perse tutte nel fracasso di quella voce che non sospettavo potesse assordare come la voce di Ivanoe, di Arminio, di Musetta. Cosí, da quel giorno, ogni volta che bussavo alla sua porta, cominciavo a tremare. Non avvenne piú che lui gridasse, ma io ormai tremavo. Cosí oggi so che il periodo, credo lungo, in cui lui mi diede lezioni è diviso esattamente in due parti: quello nel quale non tremavo ancora, e quello nel quale ho tremato. E solo adesso so perché avevo «dimenticato» quei gridi. Perché questa divisione si è ripetuta in me, e si ripete sempre, quando frequento a lungo una persona. Solo che da molti anni comincio a tremare ancora prima che un gesto, un’esclamazione, uno sguardo rivelino l’altro lato di noi che cerchiamo di nascondere agli altri. O a noi stessi?

4.

E tremavo, seguendo il feretro, per quest’altro volto che mio padre mi aveva rivelato morendo. Carlo usciva da sotto la bara con un leggero sorriso: gli era dolce quel peso? Mi guardai intorno. No, il professore Jsaya non c’era. Chiesi a Carlo, che aveva ripreso il suo posto accanto a me. «Quando gli dissero dei funerali si mise a letto con la faccia rivolta verso il muro e non parlò piú». Già. «Non a caso il libro “Cuore” è stato scritto! E non a caso anche un antifascista come Peppino Sapienza lo regala a sua figlia. Siamo un popolo di minchioni, te lo dico io piccola: minchioni! Anch’io, ma almeno a me i malati ed i morti mi fanno schifo». I funerali gli dovevano fare molto schifo. Non lo rividi piú. Peccato. Perché, a parte il professore Jsaya, non c’era nessuno che rispondesse alle mie domande. O meglio: parlavano talmente forte ed erano cosí alti – il professore Jsaya era piccolo – che io non osavo chiedere niente a nessuno di loro. Ma scusate, come si fa ad infilare una domanda quando la gente parla tanto, ininterrottamente? Ho l’impressione di avere, a casa mia, sempre solo ascoltato. Non mi ricordo di avere aperto bocca, se non per piangere, gridare e cantare, quando loro me lo chiedevano per divertirli. Mi mettevano in mezzo alla stanza del pianoforte. Arminio suonava ed io dovevo ballare, cantare o fare l’imitazione della cantante di varietà che avevamo visto la sera prima. Mi portavano sempre a teatro, al cinema ed anche all’opera, loro. Mio padre all’opera dei pupi. Mi portavano sempre, tanto che non mi ricordo quando fu la prima volta. E naturalmente, pensando che tutto è uguale per tutti, e cioè che mia madre era come tutte le madri, mio padre come tutti i padri, la mia casa e le mie mani come la casa e le mani di tutti, rimasi sbalordita quando, molto tempo dopo – il professore Jsaya mi aveva già abbandonata da un pezzo in quelle scuole rigurgitanti di vermiciattoli – in casa dei Bruno, che stavano al primo piano, scopersi che non era cosí. I Bruno erano cinque e, cosa incredibile, di questi cinque, solo Pino, quello grasso che tutti chiamavano «Bombolo» e che aveva dodici anni – un vecchio –, era stato al cinema solo due volte. Per non parlare poi del teatro, dell’opera dei pupi, dell’opera vera. Rimasi cosí sbalordita della scoperta che quel pomeriggio, malgrado le loro insistenze, non riuscii a spiegargli com’era, né a fare nessuna delle imitazioni che facevo ai miei fratelli. Mi ci volle molto esercizio – la notte nella mia stanza mentre tutti dormivano – per preparare una bella descrizione delle meraviglie che loro non conoscevano. Per la prima e l’ultima volta nella mia vita mi sentii avvantaggiata sugli altri. E su questo vantaggio campai, anche con delle punte abbastanza forti di crudeltà. Non a caso insistevo sulle meraviglie che i miei mi portavano a vedere, mentre loro – sí, la loro casa era sempre in penombra, con le piante verdi all’ingresso, il mangiare profumato tutti i giorni alla stessa ora, le preghiere dell’Ave Maria tutte le sere nel buio della stanza della madre profumata da qualche fiore – loro avessero pure tutto questo, ma io avevo ben altro, e lo sentivo da come mi aspettavano il pomeriggio, da come seguivano il racconto di una pellicola che avevo visto. Ci mettevo tutta la volontà, gliela raccontavo scena per scena, recitando ora la parte di lui ora la parte di lei, ora del cattivo ora della vecchia mamma. Tutta la volontà per schiacciarli – loro che avevano tanto – tutta la volontà per schiacciarli sotto questo che a me era dato e che non poteva essere eguagliato a niente. La mia grande vittoria era quando si mettevano a piangere per la commozione: mi faceva piacere vederli piangere. La descrizione della partenza della Regina Cristina sulla nave, con il suo amore ucciso per pura cattiveria da un perfido cortigiano, fu il mio trionfo: tutti piangevano, e Rosina addirittura singhiozzava. L’unico inconveniente fu che mi misi a piangere anche io, e questo mi fece scadere un po’ nel loro concetto, perché non mi chiesero piú di ripetere la scena, – come invece mi avevano pregato di fare tutto il pomeriggio. Se ne rimasero zitti, intontiti, annoiati. Non mi invidiavano piú?

5.

Non lo rividi piú. No.
Lo rividi dopo che lui mi aveva abbandonata. Ero entrata di corsa: dai dieci ai sedici anni non camminavo mai, correvo finché la maniglia della porta non mi fermò. Correvo nello studio di mio padre per dirgli qualcosa, di una telefonata, una bolletta da pagare: e lo vedo sprofondato nella poltrona di cuoio. Stava lí, composto che si guardava le unghie con una faccia… «Non si dice faccia di una persona, è volgare; degli animali si dice muso; delle persone si dice viso». Con il viso scontento. Mi fece appena un cenno col capo senza guardarmi. Li avevo disturbati? Rimasi in mezzo alla stanza, immobilizzata. Ecco, avevo in mano un telegramma per l’avvocato. Posai quel telegramma sulla scrivania, ed uscii in punta di piedi con la speranza di non essere stata vista, e sempre con questa speranza presi a chiudere la porta. Li avevo disturbati? Eppure per mesi ero andata da lui tutti i pomeriggi. Con la mano sulla maniglia, mentre cercavo di chiudere facendo meno rumore che mi fosse possibile, sentii la voce dell’avvocato: «Ma insomma, è possibile che debba essere sempre io a tirarti fuori dai pasticci? Quanto hai perso in quella bisca d’inferno? Lo sai che non ho una lira. Che vuoi, che mi impegni anche la camicia?» Dopo una pausa, riconobbi molto bene la voce sottile che rispondeva: «Ma Peppino, non c’è bisogno di impegnarsi la camicia. C’è l’anello. Lo sai che mi devi aiutare. Siamo amici da quarant’anni, e tu sei sempre stato piú fortunato di me».
«Fortunato! Fortunato! Sempre t’ho aiutato, e sempre ti aiuterò. Ma pagare per questo tuo viziaccio che t’ha ripreso ora, e che ci spreme come una sanguisuga, no! E che diavolo! Aiutarti sí! Ma per questo tuo…»
«Vedo con piacere che stai diventando un ben pensante! Da quando? Vedo che siamo arrivati a parlare di viziacci! Bene. Mi compiaccio! Ti sei scordato i tuoi? O non li ritieni viziacci, solo perché non li paghi!» Mio padre urlava: «E va bene: viziacc...

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