Non Ăš per importunarvi con una nuova storia nĂ© per fare esercizio di calligrafia, come ho fatto anchâio per lungo tempo; nĂ© per bisogno di veritĂ â non mi interessa affatto, â che mi decido a parlarvi di quello che non avendo capito mi pesa da quarantâanni sulle spalle. Voi penserete: perchĂ© non se la sbroglia da sĂ©? Infatti ho cercato, molto. Ma, visto che questa ricerca solitaria mi portava alla morte â sono stata due volte per morire «di mia propria mano», come si dice â ho pensato che sfogarsi con qualcuno sarebbe stato meglio, se non per gli altri almeno per me. E che faccia bene parlare delle proprie cose, ho dovuto sperimentare che ha qualche fondamento reale. Come vi ho detto, questi quarantâanni, o meglio i primi venti anni di questi quarantâanni, a furia di volerli scientemente ignorare, si sono cosĂ ingarbugliati che non riesco a districarli, a fare ordine. Io purtroppo sono molto ordinata, anzi direi un poâ fissata: e cosĂ i fatti passati mi schiacciano come una mosca ai muri di questa stanza che si Ăš fatta troppo piena. Capirete, ci vivo da sempre. Ci sono libri naturalmente, quadri, specchi, tavoli, tanti tavoli che uno sta sullâaltro, oggetti inutili che ho comprato o che mi hanno regalato e che non ho osato rifiutare. Vi spiego: oggi Ăš venuta come al solito Dina per pulire: viene due volte la settimana. E spolverando un piccolo animale stilizzato, naturalmente svedese, che mi regalĂČ George, ha esclamato sottovoce: «Quanto Ăš brutto!» Lo sapevo, lo so da quando me lo regalĂČ: ma sentirlo dire mi ha fatto ricordare quanto Ăš rimasto brutto in tutti questi anni. E mi Ăš venuto il sospetto che non ci si voglia mai disfare delle cose brutte che ci cascano fra le mani perchĂ© pensiamo che la nostra vicinanza le possa migliorare. E cosĂ, con questo sospetto che ha tarlato la mia sicurezza, ho buttato via lâanimaletto e mi sono decisa a parlarvi.
Scusate ancora, ma ho bisogno di voi per essere in grado di sbarazzarmi di tutte le cose brutte che ci sono qui dentro. Parlando, dalla reazione di chi ascolta, puoi capire cosa va tenuto e cosa buttato. Ho bisogno di voi per liberarmi di tutte le cose inutili che affollano questa stanza. Ho la bocca piena della loro polvere. Ho detto un minimo di ordine, non di veritĂ .
Anche voi associate la parola «ordine» con la parola «verità », e la parola «intelligenza» con la parola «bontà »? Ho fatto sempre questo errore. Non mi fraintendete, non «verità »: ma solo un minimo di ordine in tutte queste «non verità », nelle quali nascendo, o meglio â come diceva mio fratello Ivanoe â cascando da quel cavolo sulla terra, mi sono trovata a strisciare prima, e a camminare dopo. Non vorrei buttare discredito sui morti e sui vivi che ho incontrato, ma visto che mi sono state dette, come a tutti del resto, piĂș bugie che veritĂ , come potrei io, ora, sperare di parlarvi illudendomi di arrivare ad un ordine-veritĂ ? E no: credo proprio che questo mio sforzo per non morire soffocata nel disordine sarĂ una bella sfilza di bugie.
Pazienza! Speriamo, almeno, di riuscire a districarle, cosĂ che ci si possa passare lo straccio per spolverare senza sbattere in un vasetto sbreccato, uno specchietto antico, un orologio fermo dalle due e mezzo (da quando?)
Una delle prime bugie nelle quali inciampai cadendo giĂș dal cavolo fu di credere che i sette individui, maschi e femmine che dormivano, si agitavano, mangiavano, sbadigliavano sotto il nostro tetto, fossero tutti miei fratelli e sorelle; che la casa dove vivevamo fosse di nostra proprietĂ ; che tutti mi amavano molto; che mio padre era siciliano e mia madre lombarda. La prima veritĂ , o che mi suonĂČ come tale, mi fu detta da mio fratello Carlo una mattina che mi spingeva in acqua dal precipizio delle scalette dellâĂgnina a nuotare: ed io avevo paura. Disse: «Noi Sapienza abbiamo tutti imparato a nuotare prima di camminare e tu, cosĂ grande e grossa (avevo sei anni), hai paura. Sei una bastarda». Non rimasi male delle sue parole, perchĂ© Carlo aveva dei bei baffi neri e le labbra molto morbide a toccare, e me lo disse sorridendo ed accarezzandomi i capelli. Non rimasi male, ma quella parola mi diede molto da pensare e mi permise, come vedrete, di scoprire molte cose.
Intanto mi fece scoprire la parola «bastardo» che non avevo mai sentito. Mi affascinĂČ moltissimo e la ripetei molte volte per ricordarmela: esercizio che si rivelĂČ efficace e che ho sempre adottato in seguito, tanto che, in qualsiasi posto mi trovassi, se sentivo una parola che mi colpiva, la ripetevo, credo, muovendo anche le labbra. Mi sentivo dire in queste occasioni: «Ma finiscila di biascicare!» Una volta mia sorella Licia aggiunse: «Sembri una mentecatta», ed io senza piĂș ascoltarla abbandonai la prima preda per questa seconda, «mentecatta», che non conoscevo. E dĂ i a masticare! tanto che Licia uscĂ dalla porta sbattendola. A casa mia, quando câera qualcosa che non andava, si sbatacchiavano le porte. Biascicando la parola bastarda, anzi con la parola bastarda che mi usciva dagli occhi, dalle orecchie, col sudore delle ascelle e della schiena â era la prima volta che prendevo contatto con questo esercizio, e fu molto faticoso â ascoltai la spiegazione del professore Jsaya. Era il mio maestro, mi dava lezioni nella sua stanza, ed era un supplizio per me, perchĂ© il pavimento era pieno di pulci: e mentre lui spiegava, dovendo stare immobile per rispetto alla sua fatica, «à un grande intellettuale ed Ăš una vera gentilezza che ti fa dandoti lezioni: quindi immobile, mi raccomando!» â dovendo stare immobile e non potendo chinarmi per grattarmi sotto il tavolo, quelle ne approfittavano per consumare il loro pasto indisturbate. Credo che mi aspettassero con molta ansia, perchĂ© oltre me non câera nessuno dal professore Jsaya. Non aveva nessuno: si rifaceva il letto da sĂ© e, anche quando spiegava, camminava sempre di corsa dal tavolo alla finestra e dalla finestra, girando intorno alle mie spalle, ancora alla finestra, dove qualche volta si affacciava e sputava giĂș per strada. Certo, lui non lo potevano mordere, e si sfogavano con le mie caviglie. In seguito mi feci la convinzione che corresse proprio per non essere morsicato. Era un supplizio, ma il professore Jsaya era lâunico che rispondeva alle mie domande. Questa fu la sua risposta: «Bastardo si dice di un animale o di una persona della quale non si sappiano le origini». E siccome io non capivo, e glielo dissi, mi indicĂČ il suo cane e mi parlĂČ delle razze. Era un incrocio fra un lupo ed un cane di unâaltra razza non bene identificata, e per questo la parte di lupo in Pussi â era il nome di quel bastardo â essendo avvezza ai climi freddi, soffriva terribilmente lĂ in Sicilia: e gli mancava il fiato. Per questo stava sempre con la bocca spalancata, la lingua fuori, e nelle pause lunghe, che il professore faceva spesso â qualche volta si dimenticava addirittura di me: me lo disse lui: «Scusami piccola, mi ero dimenticato che eri qui!» â si sentiva il respiro forte di Pussi.
Aveva caldo. Mi fece molta pena, perchĂ© anchâio avevo sempre caldo, e da allora, quando vedevo un cane con la lingua di fuori, sudavo. E cominciai a sognare per loro prati verdi e distese di neve, commovendomi tanto da ansimare sempre di piĂș. Ma da questa spiegazione la cosa piĂș importante che appresi sulla parola bastardo fu, sempre secondo le sue parole, che tutti i poliziotti sono bastardi. Io ci credetti senzâaltro, credevo a tutto quello che diceva; ma di tutti quelli che ho incontrato e fissato per vedere se spalancavano la bocca e tiravano fuori la lingua, nessuno lo ha mai fatto. Una volta ne seguii uno per tutta via Cappellini: si fermĂČ davanti ai cartelloni del cinema Mirone ed aprĂ un poco la bocca. Era il segno? O uno sbadiglio? Non mi convinse, e pensai di chiederne spiegazione al professore Jsaya. Mi ricordo solo adesso di essermi dimenticata di domandarglielo: peccato.
Peccato proprio. Ma Ăš morto. Ă morto in un ospizio dove mio padre riuscĂ a farlo accettare anche se come professore era stato cacciato da tutte le scuole del regno, per offesa alla religione, al regime o qualcosa di simile. RiuscĂ, e pagando una retta mensile, ottenne anche di fargli assegnare una stanzetta dove lui, come mi dissero, trasportĂČ tutti i suoi libri. Fu Carlo a raccontarmelo mentre seguivamo il feretro di mio padre. «Eh Iuzza! Era un grande intellettuale!» disse sorridendo come sempre, dolcemente. Lo guardai, aveva ancora i baffi neri ma le labbra chissĂ se erano ancora morbide a toccare. «Era un grande intellettuale lui! Come avrebbe potuto dormire nella camerata insieme a tutti quei limoni spremuti dai fasci littori se, per dirla come lui la diceva, pensava, anzi âcogitavaâ anche la notte?» Sempre sorridendo aggiunse che lâultima volta che lâaveva visto non gli era sembrato troppo scontento di quella sistemazione, se non per il fatto che una donna gli rifaceva il letto ogni mattina, e cosĂ lui era costretto a fare doppio lavoro: disfarlo e rifarlo: «Le donne sono una dannazione Carluzzu mio! Manco il letto sanno fare! Manco il letto, cosĂ come manco sanno starci sopra col proprio uomo!» Non sembrava troppo scontento. Era sempre scontento il professore Jsaya: le labbra strette come se avesse sempre la puzza sotto il naso, il capo piegato in avanti ad ascoltare senza guardarti. Di solito, dopo aver ascoltato attentamente, rizzava il capo e serrando le labbra sempre piĂș, come se addirittura avesse la nausea, rispondeva con voce dolce: «O dunque! Mi pare proprio che la tua domanda, sia per lâinsensatezza con la quale Ăš stata formulata, sia per la sua essenza fanciullesca, non richieda risposta. Impara prima a formularle le domande! E che cazzo! Qui si perde tempo! Vediamo di occuparci di cose sensate, o almeno di cose, visto che ci appressiamo ad entrare in questo mondo di merda, che il buon senso comune e la legge ci costringono a ritenere tali. Apri bene gli occhi e dimmi la terza coniugazione del verboâŠÂ» Era sempre scontento. Forse, come diceva Licia, perchĂ© aveva studiato a Londra? In quanti posti aveva studiato il professore Jsaya!
⊠cosâĂš che non ero riuscita ad afferrare di quel discorso difficilissimo? Quale discorso? Seguivo il feretro di mio padre, e mi accorgo che ho perduto qualcosa che avevo pensato di dirvi. Cosâera? Si dice che quando ci si dimentica di unâidea che si vuole comunicare, Ăš perchĂ© si tratta di una bugia. SarĂ per questo? Ma se era una bugia a me interessa di piĂș! Ho smarrito qualcosa, dato che dal funerale mi ritrovo seduta su un gradino delle scale della casa del professore Jsaya, tremante e con un fico in mano. Non ho voglia di mangiarlo, eppure Ăš un fico di quelli con le mandorle dentro, che mi piacciono tanto. Uno scambio delle rotaie dei miei ricordi non ha funzionato, e mi ritrovo in questa stanza a rivedere carte, appunti, senza unâindicazione precisa. Ă fatale che sia cosĂ, con tutto questo disordine che ho creato per mettere ordine. Come fare? Come si fa con la pellicola alla moviola quando si monta un film. TornerĂČ indietro. Mi alzo dal gradino e rientro nella stanza. Il professore Jsaya, invece di correre, sta fermo in piedi davanti a me, ed urla. SĂ, urla che siamo un popolo di pecoroni, che non facciamo che crearci dei falsi miti, che⊠SĂ, adesso ricordo, gli avevo chiesto se lui, che sapeva tante lingue, che leggeva tutti quei libri in tutte le lingue, perfino in russo, fosse piĂș intelligente di Licia, di Ivanoe, di Galileo Galilei. Dopo una pausa tanto lunga che credevo non mi avrebbe piĂș risposto, si volta invece di scatto verso di me, e con i piedi inchiodati al pavimento e tutto il corpo e le braccia che sbattono nellâaria: «E certo! Anche piĂș intelligente di quel fottuto scimunito di Mussolini! Certo! Ă mai possibile che scambiate la cultura ammuffita per genio, e la memoria per intelligenza? Ma proprio non potete vivere senza farvi un dio, un duce del primo fesso che vi capita sottomano? Decadenza! Corruzione! E voi donne specialmente, sempre con gli occhioni languidi spalancati in attesa di un principe perfetto⊠Siete fascisti; ecco cosa siete, fascisti». Esco da quella porta cercando di ricordare quelle nuove parole che mi piacciono, ma che non sono riuscita ad afferrare. Ă per questo che tremo cosĂ? Per lo sforzo inutile che faccio di ricordarne almeno una? «Siete fascisti, perchĂ© siete deboli». No, non aveva detto deboli. «E vi volete fare dei⊠a tutti i costi. La cultura se⊠Ú una schifezza. Tuo padre Ăš un facilone che la dĂ a bere solo perchĂ© Ăš coraggioso⊠coraggioso! Il coraggio dellâincoscienza. Anche di lui hanno fatto unâŠÂ» E perchĂ© aveva sghignazzato quando aveva detto che avrebbe preferito morire di fame, piuttosto che insegnare a quegli animaletti votati al conformismo che brulicano come vermi nelle scuole di Stato? Mi dovetti fermare e sedere sulle scale: tremavo tanto che avevo paura di cadere. Ce lâaveva con me? Eppure, dopo, mi aveva dato un fico secco e mi aveva sorriso, cosa che non faceva mai. E sempre sorridendo: «Scusa Goliarda, sono argomenti che mi fanno quagliare il sangue negli occhi, ma tu non câentri, tu sei una bambina, e sarai una donna imbecille come tutte le donne, ma molto carina». Mi misi a piangere: avevo perduto tante belle parole nuove. Cercai di ricordarmene almeno una, asciugandomi gli occhi: ma niente, si erano perse tutte nel fracasso di quella voce che non sospettavo potesse assordare come la voce di Ivanoe, di Arminio, di Musetta. CosĂ, da quel giorno, ogni volta che bussavo alla sua porta, cominciavo a tremare. Non avvenne piĂș che lui gridasse, ma io ormai tremavo. CosĂ oggi so che il periodo, credo lungo, in cui lui mi diede lezioni Ăš diviso esattamente in due parti: quello nel quale non tremavo ancora, e quello nel quale ho tremato. E solo adesso so perchĂ© avevo «dimenticato» quei gridi. PerchĂ© questa divisione si Ăš ripetuta in me, e si ripete sempre, quando frequento a lungo una persona. Solo che da molti anni comincio a tremare ancora prima che un gesto, unâesclamazione, uno sguardo rivelino lâaltro lato di noi che cerchiamo di nascondere agli altri. O a noi stessi?
E tremavo, seguendo il feretro, per questâaltro volto che mio padre mi aveva rivelato morendo. Carlo usciva da sotto la bara con un leggero sorriso: gli era dolce quel peso? Mi guardai intorno. No, il professore Jsaya non câera. Chiesi a Carlo, che aveva ripreso il suo posto accanto a me. «Quando gli dissero dei funerali si mise a letto con la faccia rivolta verso il muro e non parlĂČ piĂș». GiĂ . «Non a caso il libro âCuoreâ Ăš stato scritto! E non a caso anche un antifascista come Peppino Sapienza lo regala a sua figlia. Siamo un popolo di minchioni, te lo dico io piccola: minchioni! Anchâio, ma almeno a me i malati ed i morti mi fanno schifo». I funerali gli dovevano fare molto schifo. Non lo rividi piĂș. Peccato. PerchĂ©, a parte il professore Jsaya, non câera nessuno che rispondesse alle mie domande. O meglio: parlavano talmente forte ed erano cosĂ alti â il professore Jsaya era piccolo â che io non osavo chiedere niente a nessuno di loro. Ma scusate, come si fa ad infilare una domanda quando la gente parla tanto, ininterrottamente? Ho lâimpressione di avere, a casa mia, sempre solo ascoltato. Non mi ricordo di avere aperto bocca, se non per piangere, gridare e cantare, quando loro me lo chiedevano per divertirli. Mi mettevano in mezzo alla stanza del pianoforte. Arminio suonava ed io dovevo ballare, cantare o fare lâimitazione della cantante di varietĂ che avevamo visto la sera prima. Mi portavano sempre a teatro, al cinema ed anche allâopera, loro. Mio padre allâopera dei pupi. Mi portavano sempre, tanto che non mi ricordo quando fu la prima volta. E naturalmente, pensando che tutto Ăš uguale per tutti, e cioĂš che mia madre era come tutte le madri, mio padre come tutti i padri, la mia casa e le mie mani come la casa e le mani di tutti, rimasi sbalordita quando, molto tempo dopo â il professore Jsaya mi aveva giĂ abbandonata da un pezzo in quelle scuole rigurgitanti di vermiciattoli â in casa dei Bruno, che stavano al primo piano, scopersi che non era cosĂ. I Bruno erano cinque e, cosa incredibile, di questi cinque, solo Pino, quello grasso che tutti chiamavano «Bombolo» e che aveva dodici anni â un vecchio â, era stato al cinema solo due volte. Per non parlare poi del teatro, dellâopera dei pupi, dellâopera vera. Rimasi cosĂ sbalordita della scoperta che quel pomeriggio, malgrado le loro insistenze, non riuscii a spiegargli comâera, nĂ© a fare nessuna delle imitazioni che facevo ai miei fratelli. Mi ci volle molto esercizio â la notte nella mia stanza mentre tutti dormivano â per preparare una bella descrizione delle meraviglie che loro non conoscevano. Per la prima e lâultima volta nella mia vita mi sentii avvantaggiata sugli altri. E su questo vantaggio campai, anche con delle punte abbastanza forti di crudeltĂ . Non a caso insistevo sulle meraviglie che i miei mi portavano a vedere, mentre loro â sĂ, la loro casa era sempre in penombra, con le piante verdi allâingresso, il mangiare profumato tutti i giorni alla stessa ora, le preghiere dellâAve Maria tutte le sere nel buio della stanza della madre profumata da qualche fiore â loro avessero pure tutto questo, ma io avevo ben altro, e lo sentivo da come mi aspettavano il pomeriggio, da come seguivano il racconto di una pellicola che avevo visto. Ci mettevo tutta la volontĂ , gliela raccontavo scena per scena, recitando ora la parte di lui ora la parte di lei, ora del cattivo ora della vecchia mamma. Tutta la volontĂ per schiacciarli â loro che avevano tanto â tutta la volontĂ per schiacciarli sotto questo che a me era dato e che non poteva essere eguagliato a niente. La mia grande vittoria era quando si mettevano a piangere per la commozione: mi faceva piacere vederli piangere. La descrizione della partenza della Regina Cristina sulla nave, con il suo amore ucciso per pura cattiveria da un perfido cortigiano, fu il mio trionfo: tutti piangevano, e Rosina addirittura singhiozzava. Lâunico inconveniente fu che mi misi a piangere anche io, e questo mi fece scadere un poâ nel loro concetto, perchĂ© non mi chiesero piĂș di ripetere la scena, â come invece mi avevano pregato di fare tutto il pomeriggio. Se ne rimasero zitti, intontiti, annoiati. Non mi invidiavano piĂș?
Non lo rividi piĂș. No.
Lo rividi dopo che lui mi aveva abbandonata. Ero entrata di corsa: dai dieci ai sedici anni non camminavo mai, correvo finchĂ© la maniglia della porta non mi fermĂČ. Correvo nello studio di mio padre per dirgli qualcosa, di una telefonata, una bolletta da pagare: e lo vedo sprofondato nella poltrona di cuoio. Stava lĂ, composto che si guardava le unghie con una faccia⊠«Non si dice faccia di una persona, Ăš volgare; degli animali si dice muso; delle persone si dice viso». Con il viso scontento. Mi fece appena un cenno col capo senza guardarmi. Li avevo disturbati? Rimasi in mezzo alla stanza, immobilizzata. Ecco, avevo in mano un telegramma per lâavvocato. Posai quel telegramma sulla scrivania, ed uscii in punta di piedi con la speranza di non essere stata vista, e sempre con questa speranza presi a chiudere la porta. Li avevo disturbati? Eppure per mesi ero andata da lui tutti i pomeriggi. Con la mano sulla maniglia, mentre cercavo di chiudere facendo meno rumore che mi fosse possibile, sentii la voce dellâavvocato: «Ma insomma, Ăš possibile che debba essere sempre io a tirarti fuori dai pasticci? Quanto hai perso in quella bisca dâinferno? Lo sai che non ho una lira. Che vuoi, che mi impegni anche la camicia?» Dopo una pausa, riconobbi molto bene la voce sottile che rispondeva: «Ma Peppino, non câĂš bisogno di impegnarsi la camicia. CâĂš lâanello. Lo sai che mi devi aiutare. Siamo amici da quarantâanni, e tu sei sempre stato piĂș fortunato di me».
«Fortunato! Fortunato! Sempre tâho aiutato, e sempre ti aiuterĂČ. Ma pagare per questo tuo viziaccio che tâha ripreso ora, e che ci spreme come una sanguisuga, no! E che diavolo! Aiutarti sĂ! Ma per questo tuoâŠÂ»
«Vedo con piacere che stai diventando un ben pensante! Da quando? Vedo che siamo arrivati a parlare di viziacci! Bene. Mi compiaccio! Ti sei scordato i tuoi? O non li ritieni viziacci, solo perché non li paghi!» Mio padre urlava: «E va bene: viziacc...