Il bacio era piú eccitante di una penetrazione, piú emozionante di un incontro inaspettato, piú straziante di un addio, piú...
Imma si svegliò bollente. Ci mise un po’ a capire dove si trovava e perché. I mobili dell’Ikea su cui posava lo sguardo non le erano di grande aiuto: la libreria Billy, la poltrona Ektorp, il porta televisore vattelappesca. Solo quando incrociò la pergamena incorniciata della laurea e la targa in ottone dorato, iniziò a realizzare. Un tascabile dal titolo Invisibile agli occhi sul pavimento, e alcune foto digitali di Valentina che scorrevano dentro un apparecchio, le diedero la conferma: si trovava nello studio adibito a camera degli ospiti in casa dei cognati. Pian piano ricostruí. Era tornata zuppa, frastornata e felice, e dopo essersi cambiata dalla testa ai piedi, senza nemmeno cenare tanta la stanchezza, si era fatta prestare il libro di Martelli e tanti saluti a tutti.
Doveva essersi addormentata di colpo, mentre tentava di leggere la prima pagina, infatti la piantana era rimasta accesa. Alzandosi per spegnerla guardò l’ora. Oddio! Se non si sbrigava, la sua venuta a Roma sarebbe stata inutile. Peggio, ingiustificata.
Trovò sul tavolo del soggiorno un bigliettino con le istruzioni per l’allarme e le chiavi da lasciare nella cassetta della posta. Si preparò a tempo record, schizzò fuori e prese un autobus senza rassettare le idee né la capigliatura. Inopportuna e petulante, continuava a infilarsi nei suoi pensieri quella canzone che il giorno prima un vecchio con la fisarmonica cantava all’angolo di una via: Arrivederci Roma Good bye Auf Wiedersehen…
L’acquazzone aveva lavato tutto. Il Tevere era tornato biondo, e se ne stava acquattato a rovinare i ponti, zitto zitto, nella luce limpida della primavera ritrovata.
Davanti a Montecitorio, sotto un obelisco particolarmente massiccio, c’era un cordone di polizia e un assembramento di cittadini dall’aria poco rassicurante, intorno a un cartello con su scritto Datevi all’Ippica. Una protesta di tassisti. Si infilò fra i giacconi di pelle, a suo rischio e pericolo, perché quelli, sul taxi o sulla terra ferma, erano sempre incazzati, e ancora piú incazzati sembravano certi romani che bofonchiavano lí vicino. “E mò l’istruzione e mò le tasse. Ma annatevene a casa vostra, aho”.
Ci volle la mano di dio per arrivare dall’altra parte. Si ritrovò in un viavai di pinguini in doppiopetto, di portaborse e faccendieri, impermeabili agli appellativi che volavano dalla folla finalmente compatta al di là di ogni opposta fazione. Cercò di raggiungere il palazzo maledicendo i sampietrini. La prima cosa che avrebbe fatto se per qualche motivo l’avessero eletta sindaco di Roma era una bella colata di asfalto, non per niente l’avevano inventato.
La seduta per fortuna doveva essere finita in ritardo, infatti avvistò l’onorevole, affiancato da due giovani assistenti. Veniva avanti con un sorriso stampato in faccia, che si accentuava non appena qualcuno gli rivolgeva la parola. Cosí, inevitabilmente, toccò anche a lei. Solo che appena la mise a fuoco, il sorriso si ridimensionò, e quando venne a sapere che non voleva parlare della solita questione dei manifesti elettorali abusivi, come aveva creduto inizialmente, ma del caso Miulli, si trasformò in una smorfia di disappunto.
Imma cercò di rassicurarlo. Aveva solo qualche domanda da fargli. In via del tutto confidenziale, anche nel suo interesse, per evitare il rischio di strumentalizzazioni.
“A che proposito?” si infastidí Martelli.
Imma alluse al fatto che lui Donata Miulli l’aveva conosciuta, e piuttosto bene. Almeno cosí le risultava…
“Non so di cosa stia parlando”, rispose l’onorevole, mentre un’espressione dura gli irrigidiva la mascella. Quella ragazza l’aveva incrociata, come tanti altri giovani ai quali aveva cercato di dare una mano. E allora?
“Eravate a Matera, il giorno in cui la Miulli è scomparsa, il 4 marzo. Sbaglio?”
“Sicuramente lei lo sa meglio di me. Da quando è iniziata la campagna elettorale giro come una trottola, senza l’agenda sono perso. Non è escluso che fossi in zona”.
L’aveva liquidata di lí a poco, bloccando i suoi tentativi di approfondire il discorso e invitandola a non speculare. La cosa non lo avrebbe sorpreso, purtroppo.
“Sto prendendo misure per certi versi impopolari, – aveva concluso Martelli con l’aria di uno che cerca la posa per il monumento, – ma non mi fermo”.
Poi, approfittando del fatto che la sovrastava di una testa e mezzo, si era astratto nel suo Olimpo e l’aveva rapidamente distanziata.
Bel risultato! E lei che per incontrarlo si era fatta cinquecento chilometri. In Marozzi.
A metà dell’Ottocento avevano disboscato la Lucania per ricavarne le traversine dei binari destinate al regno di Napoli. Solo che poi arrivò l’Unità d’Italia. Il treno, nella regione ormai rapata a zero, non ci passò. E ancora nel duemila e rotti le Ferrovie dello Stato servivano la Basilicata poco e niente: se non si voleva usare la macchina, il modo migliore per viaggiare era la fantasia.
O la Marozzi. Roma Matera in sette ore esclusi i ritardi. Nella capitale le sue vetture rosse a due piani facevano capolinea in un enorme piazzale da dove partivano automezzi di tutti i colori, di tutte le ditte e per ogni destinazione. Infatti c’era una folla di badanti che tornavano a casa con le borse zeppe, di studenti del Sud, di aspiranti padri o madri di famiglia venuti su per un colloquio di lavoro.
Imma aspettò una mezz’ora fra la gente accalcata sul marciapiedi, poi un fremito annunciò l’arrivo dell’autobus.
Tutti iniziarono a spingere, cercando di raggiungere lo sportello dei bagagli, e anche lei lavorò di gomito fino a guadagnare la prima fila. Presto fu issata a bordo da quelli che si accalcavano per entrare. Le porte si erano appena chiuse e la corriera stava iniziando a muoversi quando attaccò un agghiacciante concertino di jingle intonati all’età e ai gusti di chi possedeva i rispettivi cellulari.
Per una memoria atavica il viaggio restava sinonimo di pericolo, tempeste e briganti, cosí appena in moto scattava l’allarme rosso dell’istinto e per tutto il tragitto si veniva bersagliati dalle telefonate menagramo dei parenti. “Dove siete? Tutto bene?”
Squillava anche il suo, di cellulare. Ma non era né il marito né la suocera. Né la sorella grande, che chiamava solo in quelle occasioni.
“Dottoressa, scusate…”
Calogiuri. Le disse esitante che aveva continuato i giri nelle agenzie di casting ed era venuto a sapere che Lolita avrebbe partecipato a uno spettacolo televisivo, lo registravano quel pomeriggio a Cinecittà.
“Ve l’ho voluto dire, dottoressa. Ho fatto male?”
“E perché?”
Quando si guardò intorno sul piazzale della Stazione Tiburtina, posando gli occhi sulle transenne dei lavori in corso, sui punkabbestia sotto il cavalcavia, sui cassonetti debordanti, e finalmente trovò ciò che cercava sotto l’orologio fermo a un orario sbagliato, dentro di lei certi cagnolini indisciplinatissimi, un intero esercito, si misero ad abbaiare e a scodinzolare tutti insieme, tanto che dovette fare la voce grossa: e ho capito, c’è Calogiuri!
L’appuntato si era presentato in jeans, camicia azzurrina e giaccone di pelle beige. Un manichino. Infatti si giravano a guardarlo – sfacciate! – vecchie e giovani, brutte e belle. Tante Messaline e Poppee, una piú svergognata dell’altra, con le chiome corvine e tutto il ben di dio da fuori, che sembravano non avere altro da fare se non appizzare gli occhi sul futuro maresciallo dei carabinieri. E non li abbassavano manco quando lei le fissava. Al contrario, sostenevano il suo sguardo, come a dire togliti di mezzo brutta racchia. Ma togliti di mezzo tu.
Presero la metropolitana fino a Termini, dove un collega di Calogiuri gli portò la macchina, e con quella si avviarono verso Cinecittà, fra i suv e le Smart.
Erano le quattro meno un quarto. L’ora delle mamme. Si avventavano nel traffico con cattiveria, strombazzando, lampeggiando, sorpassando da destra e da sinistra, tagliando la strada, sporgendo il medio dal finestrino, implacabili e determinate a passare su qualsiasi cadavere pur di arrivare in orario all’uscita delle scuole.
Davanti a Cinecittà un’impressionante coda di ragazzine si snodava a serpentone fino all’angolo e proseguiva dall’altra parte, in un trionfo di vite basse e natiche esposte come torte su un vassoio, capelli tinti, tatuaggi, piercing. Erano lí per un reality.
Non fu facile essere ammessi in quella che negli anni Sessanta era stata la fabbrica dei sogni de Noantri, né capire dove, adesso, stavano registrando lo spettacolo di varietà al quale avrebbe dovuto partecipare Lolita. Ma una volta sbrigate le formalità d’ingresso, chiedendo informazioni agli ultimi reduci di gloriose maestranze che popolavano i vialetti, Imma e Calogiuri furono indirizzati al teatro 5, dove Federico Fellini aveva realizzato quasi tutti i suoi film, come lessero su una targa.
Mentre l’appuntato cercava il capocomparse, Imma riuscí a infilarsi nel padiglione eludendo la sorveglianza di due tipi col transistor. La scena che si trovò di fronte piú che un sogno sembrava un incubo.
Fra runner, assistenti, operatori e truccatrici indaffarati e tesi come l’esercito di un generale golpista, in un calore infernale attraversato da refoli gelidi, sospese al soffitto con un gancio, le ginocchia raccolte al petto, le chiappe marchiate, decine di ragazze in perizoma penzolavano a mo’ di prosciutti, mentre qualcuno urlava nel megafono: “Le prosciuttine! Ne mancano cinque! Dove caaazzo siete?”
Naso per aria, quatta quatta, Imma si aggirò sotto quel firmamento di glutei, rivolgendo ogni volta la stessa domanda: “Sei tu Lolita?”, seguita da un: “Sai dov’è almeno?”, ottenendo al massimo qualche mugugno non ben decifrabile.
Stava per abbandonare ogni speranza, quando la proprietaria di uno di quei posteriori biascicò qualcosa: “Mi è sembrato di vederla nell’angolo, a destra”.
Nel punto indicato, la dottoressa si ritrovò sotto un didietro veramente notevole.
“Lolita, giusto?”, gli si rivolse.
“Io?! – sentí mugugnare dopo un po’. – No, non sono Lolita. Perché?”
“Mi hanno detto che era qui, le devo parlare di una cosa importante. Dov’è, me lo fai dire?” cercò di insistere.
“Da un po’ che non si vede in giro”, stava dicendo culetto d’oro, quando un energumeno puntò la dottoressa e quasi la afferrò di peso.
“Chi cazzo è questa? Chi l’ha fatta entrare?”
Senza manco rendersene conto, Imma si ritrovò all’uscita, inseguita da epiteti irripetibili, e lí venne raggiunta dopo un po’ da Calogiuri che iniziava a preoccuparsi perché non la vedeva piú. Anche lui non aveva concluso granché.
Dopo essersi qualificato, era riuscito a parlare col direttore di produzione e il capocomparse, ma entrambi sostenevano di non conoscere nessuna Lolita. In effetti, il nome non risultava nemmeno sulla lista per la busta paga.
“A meno che non sia un… come si chiama…”
“Pseudonimo?”
“Quello, dottoressa!”
Aspettarono che fini...