Lo stadio di Wimbledon
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Lo stadio di Wimbledon

Daniele Del Giudice

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Lo stadio di Wimbledon

Daniele Del Giudice

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«Il navigante segue il faro calcolando continuamente la distanza; è un buon modo, credo, quello di avvicinarsi alle cose misurando sempre quanto se ne è lontani».

«Il giovane ha fatto la sua scelta: cercherà di rappresentare le persone e le cose sulla pagina, non perché l'opera conta piú della vita, ma perché solo dedicando tutta la propria attenzione all'oggetto, in un'appassionata relazione col mondo delle cose, potrà definire in negativo il nocciolo irriducibile della soggettività, cioè se stesso».
Italo Calvino Con questo suo esordio cosí luminoso e inclassificabile, nel 1983 Daniele Del Giudice apriva una nuova strada per il romanzo italiano. Lo stadio di Wimbledon è la storia di un incontro impossibile, quello tra chi in queste pagine dice io e un non-scrittore morto da anni, una figura evanescente e inafferrabile, decisiva per la società culturale del suo Paese pur senza aver mai scritto una riga. Il protagonista si mette sulle tracce di quest'uomo irraggiungibile e conosce chi una volta l'aveva amato, calpesta i suoi stessi marciapiedi, si fa largo tra le maglie della memoria nella speranza impossibile di trovare risposte al suo enigma: perché non ha lasciato qualcosa di scritto? Ma in fondo, come suggeriva Calvino nella quarta di copertina, chi sia quest'uomo e da cosa fosse mosso non è poi tanto importante. A contare davvero sono le domande e le inquietudini che attraversano il libro, e la dialettica tra letteratura e vita che va in scena appena sotto la superficie delle frasi. È meglio rappresentare la vita delle persone o agire su di essa? Raccontare o esistere? A contare davvero è la luce di una scrittura senza eguali.

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Information

Publisher
EINAUDI
Year
2013
ISBN
9788858411391

1.

Anche se è stato un sonno breve, come questo di mezz’ora, dopo bisogna ricominciare tutto da capo. Sono procedure normali della continuità, e seduto in treno posso farle con delicatezza. Ho cominciato solo ascoltando: siamo fermi, ma non in una stazione, c’è troppo silenzio; e d’altra parte sembra una sosta troppo rassegnata perché si tratti di un segnale chiuso.
Ho aperto gli occhi, e forse non ero pronto. Il militare di mezza età, al quale avevo prestato il giornale prima di addormentarmi, dice sorridendo: «Si è rotto il treno». Si alza, prende il berretto e l’impermeabile dalla retina e una sua cartella di cuoio; poi si affaccia al finestrino e fa un cenno definitivo: «È meglio andare a piedi».
Anch’io guardo fuori ma è difficile rendersi conto: siamo tra le rocce e il mare, in pieno paesaggio. Lui si gira sulla porta dello scompartimento, si aggiusta l’impermeabile tirando giú la divisa. Dice: «Manca solo un chilometro alla stazione, dopo la curva. Se aspettiamo che salgano da Trieste per il traino ci vorrà un’ora». Saluta, senza uscire. Sono appena all’inizio, e la disponibilità è ancora un’intenzione che non dovrei tradire subito. Cosí ho raccolto le mie cose e l’ho seguito.
Quando abbiamo superato il locomotore lui ha parlato con i macchinisti. Si sono detti cose tecniche, toccavano la motrice bloccata; guardavano in aria i fili e ridevano. La mattina è limpidissima, quasi primaverile; o forse è il mio stare qui, inspiegabile e leggero. Vorrei regolare il passo sulla cadenza delle traversine, ma ci manca sempre qualche centimetro e ogni tanto devo farne uno raddoppiato. Velocemente anche, perché l’ufficiale va abbastanza svelto.
Mi ha spiegato nei dettagli il guasto del treno. Presto parliamo di linea e di tensione, di raggi di curva, di percentuali di pendenza; o meglio, lui parla con proprietà e naturalezza, e io mi sforzo di limitare il mio linguaggio fatto di «su» e di «giú». Scendiamo: lui col corpo all’indietro, dondolando la cartella, io con le mani in tasca. Ha domandato: «Vede la prospettiva?» Vedevo la città per la prima volta, il golfo e le montagne, il faro, il castello, le case al di qua e al di là, e certo pensavo che doveva farmi un qualche effetto. Si è messo a ridere, lui parlava dei binari: qui sono paralleli, saldamente, poi a punta di freccia, sempre di piú fino alla stazione. Dice: «Pensi che facciamo un mucchio di calcoli per la prospettiva, per riprodurre un difetto della vista». Ci ho pensato ma non sapevo cosa rispondere, e cosí siamo andati avanti in silenzio.
Adesso sento la mancanza del caffè, anzi della colazione vera e propria. Abbiamo visto la «marmotta» avvicinarsi, andava verso il treno, sempre piú grande; l’abbiamo vista staccarsi dalla stazione, dopo si è sentito il rumore del diesel.
I segnali ferroviari sono visibili solo a distanza; da vicino si attenuano, da sotto sembrano spenti. Anche di questo l’ufficiale ha spiegato le ragioni. Dopo un po’ gli ho domandato se è vero che nei ponti si progetta anche un punto in cui minarli. Lui si è fermato; per la prima volta è teso. L’ho tranquillizzato, come togliendo una nuvola dal panorama. Riprende a camminare, dice: «Sono previste alcune camere di scoppio, dove l’appoggio è massimo». Però non è ancora convinto, e mi ha domandato perché volevo saperlo. Ho detto che mi sembrava una buona dimensione del lavoro, semplicemente: pensano una cosa e la realizzano in tutto, compreso il posto adatto per distruggerla col minimo sforzo. Lui dice: «È una buona pratica, ma di queste camere di scoppio non se ne fanno piú tante. Adesso la guerra non prevede ritirate cosí modeste, con i ponti tagliati alle spalle».
Ormai siamo in piano, quasi in città. Nell’ultimo tratto ho evitato un paio di domande indirette sul perché vengo qui. Non vorrei parlarne e in fondo non sono nemmeno arrivato. Invece i ponti sembra che lo interessino, e anch’io non ho mai modo di discuterne. Ho raccontato che avevo visto montarne uno in cemento armato, sull’autostrada. Era un pianale prefabbricato, appoggiato sui piloni. Era piú lungo degli incastri, sembrava che non ci stesse, era impensabile che avessero sbagliato le misure. Dai quattro angoli della piattaforma venivano fuori dei cavi di acciaio, li hanno serrati ai martinetti e poi hanno cominciato a tirare. Tiravano lentamente, con molte grida. Il cemento prima si è compresso poi si è dilatato, alla fine c’è stato uno schianto secco, un boato nella valle e il ponte è andato a posto. All’ufficiale non ho detto che era stato un momento di assoluta simultaneità, in cui tutto appariva compresente.
Anche questa volta lui si è fermato, ha infilato la cartella sotto il braccio, perimetrava con le mani molte parti di cielo, diceva spesso «vede…»; ha distinto vari tipi di cemento, di campate, di martinetti, di portata. Ha domandato se avevo capito. Ho detto «Sí», però nell’ultima parte mi sono distratto; guardavo lui fermo tra i binari, e gli ero grato.
Scavalchiamo gli ultimi scambi, scegliamo una pensilina centrale. Ho immaginato spesso queste visite e probabilmente ogni cosa sarà diversa; forse lo è già nell’essere arrivato a Trieste come se fossi il treno. Nell’atrio della stazione l’ufficiale si è fermato di nuovo. Si è tolto il cappello, lisciandosi i capelli. Ha detto: «C’è qualcos’altro che vuole sapere sui ponti?» Ho risposto di no, sorridendo. Però potrebbe indicarmi la libreria antiquaria.
Ci siamo salutati; lui è andato verso l’uscita, io verso il bar.
La libreria me l’aspettavo piccola, preziosità per pochi. È un monumento. Monumentale nella posizione e nell’ampiezza delle scaffalature, nelle rilegature in pelle, nell’atteggiamento di garbata e irremovibile custodia dell’uomo con gli occhiali, ben vestito. Il tono stesso con cui dice «Desidera?» impedisce di guardare. Bisogna chiedere, e quando chiedo la risposta è negativa: «No, i libri su Trieste o di triestini sono i primi a sparire». Sembra che anche le persone, in questo tempio, abbiano un’ospitalità molto breve. Vorrei prendere tempo, dico: «Esiste un catalogo?» Lui scuote la testa, fa un mezzo passo verso la porta. Dato che i titoli che cerco non ci sono, accenno genericamente all’argomento. Lui avanza ancora, dice: «No, niente. Provi in una libreria di cose correnti». Con quel «correnti» si deve immaginare la miseria di libri contemporanei, di librerie senza storia; un trovare facilmente, entrando, pagando, andando via.
Mano a mano che lui viene avanti io mi sposto di lato. Quando siamo quasi paralleli ripiego su un’informazione stradale. Questa sí mi viene offerta con entusiasmo, con una minuzia topografica di piantine e numeri civici. Seguendo l’uomo per guardare le pagine gialle, capisco perché è legittima l’immagine del tempio: dove eravamo, e piú oltre non mi faceva andare, un vestibolo; poi un pronao da cui partono, lateralmente, due corridoi rivestiti di scaffalature. Piú dentro ancora, proprio come in una celletta, la gigantografia di Umberto Saba, lassú: vecchissimo, minuto, vestito di nero, il passo deciso sospeso a metà, il bastone parallelo alla gamba slanciata in avanti. Lí sotto una donna con il grembiule azzurro agita un piumino.
Non è questo che tradisce la sacralità del luogo; piuttosto certe scalfitture nel legno o i vuoti negli ultimi ripiani. C’è un colore complessivo di carta da pacchi, e un odore equivalente. Mentre sto ancora guardando, l’uomo mi dà la mano; è una stretta alla quale manca la pressione di diverse dita.
Fuori, ho dato un’ultima occhiata ai pochi libri esposti con convinzione sullo sfondo di una tendina rossa plissettata, come nelle vetrine dei parrucchieri.
Proseguo per strade dritte, secondo una pianta favorevole che permette di contare bene le traverse. Ho individuato una libreria corrente, in pratica sono entrato e uscito. Ne ho ricavato però un’ulteriore indicazione, e ora la seguo scendendo verso il mare. È una giornata lucida, appena fredda; solo la presenza del mare è strana, forse perché questa città non posso pensarla che da sud, e mi disorienta la posizione del sole rispetto all’acqua e il tipo di luce e di colore. O forse perché sono abituato ai mari che scorrono in modo tangenziale, non che cominciano, come qui.
Adesso sono in un’altra libreria: un’impressione complessiva di remainders. Parecchi libri, senza alcun sussiego. Anche il libraio, con la sua complessione massiccia e un maglione a V sopra un altro a girocollo, sembra piuttosto un venditore di armi. Molte giacenze, sono queste il vero eroismo di un libraio, collane intere non antiche ma vecchie. Gli ho chiesto due titoli; lui si è arrampicato verso un piano superiore, al quale nonostante la familiarità dell’ambiente non posso essere ammesso. Dopo un po’ ridiscende col libro di una trentina di anni fa. Sulla copertina c’è una fotografia dell’autore, come colorata a mano: biondo, con i capelli lisci tirati all’indietro, gli occhiali e la cravatta, e sul collo una ruga circolare. Col libraio ci accordiamo su un prezzo convenzionale, comunque meno di un libro di oggi.
Mi sono avvicinato a un reparto con la targhetta «Trieste». Non c’è la rivista con l’articolo della scrittrice, ma un suo libro di saggi, e l’articolo è lí dentro. Il libraio si è messo a lavare il pavimento. Gli ho mostrato il libro dal suo verso, battendo l’indice sul nome. Dico: «È ancora viva?» Lui si è sollevato dallo spazzolone. Dà un’occhiata alla copertina poi dice: «Sí, credo di sí. È ai cronici, qualcuno va a trovarla».
Avrei voglia di guardare uno ad uno i libri, certe collane che mi mancano da sempre, certi titoli che provo a chiedere in ogni città, in ogni libreria. Ci provo anche qui. Lui storce la bocca, dice: «No, quelli no». E perché? Dice che in questa città, per le diverse lingue e i molti mestieri e le poche librerie bisogna tenere tutto, dal manuale tecnico alla letteratura. Ma anche il tutto, probabilmente, avrà il suo limite.
Uscendo dal negozio sono incerto. Dovrei continuare il mio percorso verso l’università, secondo i consigli pertinenti del libraio antiquario, per non parlare della biblioteca comunale. Ma è un momento in cui sento maggiormente la tentazione di perdermi, di vagare. Forse non c’è un percorso, ma solo un’intermittenza tra la probabilità e l’improbabilità. È come se ogni spostamento lo decidessi lí per lí, per vedere dove porta, e questa scoperta, poi, non fosse altro che l’inizio che cercavo. Vorrei mantenere una certa inerzia, con piccole spinte indispensabili e sufficienti.
È in questo modo che arrivo alla biblioteca comunale; passo in rassegna decine di schede; ogni tanto le faccio scorrere veloci col pollice sul bordo, e la calligrafia si mette in movimento. Poi comincio a tirare fuori i cassettini e a portarli al tavolo, tra due ragazze. Dalle schede ci si può fare un’idea della storia della città. Alcuni titoli settecenteschi mi incuriosiscono: Il viaggio parallelo del libro e della vita, oppure Di come un luogo vecchio invecchi lo scrittore. Ma quanto posso perdermi? E quanto posso deviare?
Ho finito col chiedere il massimo consentito, tre libri nei quali non ho trovato quasi nulla, e che ora lascio aperti sul tavolo. La biblioteca la stanno restaurando: nelle scale, dove vado a respirare, c’è uno spettacolo di disfatta, di precarietà bellica. Immagino un ospedale militare allestito qui in modo provvisorio. Mi sono portato il mio libro con lo scrittore biondo in copertina, e ho dovuto dimostrare al bibliotecario che era veramente mio. Nell’indice dei nomi c’è naturalmente anche quello della persona per cui sono venuto in questa città. Però adesso non leggo le pagine che lo riguardano. Cerco invece i riferimenti alla scrittrice. «Già al caffè Garibaldi uno dei soliti amici aveva condotto una sera con sé e presentataci una sua giovanissima nipote, che ci osservò in giro con occhi sfavillanti, ascoltò qualche nostra battuta di dialogo, disse infine una frase che ci sorprese, come a voler concludere una discussione, e si congedò. Ricordo che molti sguardi la seguirono e Svevo, vicino a me, si lasciò sfuggire un’esclamazione: “che splendidi occhi quella figliola!”»
Ritorno nella sala, rimetto tutto a posto; guardo le librerie e i busti nelle nicchie. La biblioteca è protettiva, potrei restare qui, dove si trasforma il molto in poco; un lavoro che cresce di giorno in giorno, bibliografie e scalette, il posto ad uno dei tavoli che diventa il «mio», il caffè a metà mattina con una di queste ragazze, con la quale prima o poi farei amicizia. Ma qui non ho nulla da fare.
Dopo la biblioteca la situazione è ancora piú incerta. L’università? Potrebbe essere chiusa. E poi, quella vecchia o quella nuova? Vuole saperlo anche l’autista dell’autobus, quando gli chiedo se ci va. L’autobus è un altro, scendo di corsa. Ho già fatto piú volte su e giú tra il ghetto e la piazza del municipio, una piazza perfettamente nordica, per tre lati come Salisburgo e sul quarto, dove dovrebbe esserci il teatro, il mare.
Arrivo alla fermata giusta senza essermi deciso. Aspetto. Andare in via Cecilia Rittmeyer? Escluso, questo non è un pellegrinaggio. Potrei andare al cronicario. Sono passate poche decine di minuti dall’esclamazione di Svevo, e il percorso dall’immagine di una giovane «dagli occhi sfavillanti» a quella che ora mi vado facendo, tutto il suo tempo, è durato quanto l’attesa di alcuni autobus. Quanti anni avrà? Cerco di capire quando può essersi svolta la scena del caffè. Anche tenendo fermi i punti fissi, il calcolo è troppo approssimativo. Spero semplicemente in un’età a me favorevole.
Andare subito al cronicario? Andare veramente all’università? Andare a pranzo? Sul marciapiede opposto passano due negri. Un vecchio triestino, con la moglie, commenta la loro negritudine. Io, tra me e me, commento la triestinità del triestino. Chissà come commenterà lui, appena avrà finito di guardarmi, e cosa penserà adesso, che col mio aspetto evidentemente forestiero, proprio adesso che sta arrivando l’autobus, mi giro e vado via.
Comincio a perdere quota lentamente, ripercorrendo le stesse strade che ho già fatto, riattraversando la grande piazza col suo lato incoerente, dalla parte dove non guardo. È una specie di decelerazione interna, naturale, in attesa che appaia un ristorante. Ne ho trovato uno nel cuore del ghetto, e fino alla frutta è andato tutto abbastanza bene; ho deciso di non pensare piú a cosa faccio qui. È subentrata una pigrizia opaca del fantasticare: sulle foto dei pugili alle pareti o sul gestore napoletano. Ogni volta si alza, va in cucina, porta un piatto al mio tavolo e si risiede a mangiare con la famiglia a quello accanto. Parlano un dialetto incontaminato come una forma di resistenza.
Chiedo l’elenco telefonico; cerco di ragionare, anche come esercizio contro l’inebetimento, e alla fine i numeri possibili si riducono a tre. La casa della scrittrice, l’ospedale piú in vista sull’elenco, e un altro ospedale di cui è indicato il reparto lungodegenti. Il primo non risponde, il secondo non sa, il terzo è quello giusto. Chiedo a che ora posso andare. All’altro capo c’è un momento di perplessità: «Sarebbe alle cinque». Ho immaginato altre due ore cosí, ho detto: «Non posso venire adesso?» La voce maschile risponde: «Ma sí, venga quando vuole». Sembrava piuttosto permissivo, quasi incoraggiante. Forse il problema non è l’affollamento delle visite.
Adesso cammino veloce. Ho preso un taxi, ho dato all’uomo l’indirizzo, usciamo dal centro. L’ospedale è su una collina, al limite della città. Non è un corpo unico, ma diverse villette in salita, con giardini e ortensie. Il tassista ha insistito per arrivare fino al padiglione. Ho calcolato per l’ultima volta l’età della donna, e del resto è l’ultima volta che posso immaginarla.
La palazzina è silenziosa. Una piccola rampa di scale; all’ammezzato mi richiudo alle spalle una porta a vetri. C’è un lungo corridoio verdolino, con una luce nordica e pomeridiana; qui sí qualcosa di austroungarico, e ancora una volta, non so perché, immagini di guerra. Nessun infermiere; soltanto, in fondo al corridoio, un vecchio in pigiama che struscia i piedi camminando accosto al muro. Per guardarmi si è voltato lentamente, con tutto il corpo, come se gli fosse impossibile una rotazione parziale e disarticolata. Ho imboccato la prima porta tra lui e me, una cucina. Dentro, una donna enorme ha indicato il piano superiore, una stanza esattamente sopra a questa.
Un altro giro di scale, un’altra porta a vetri, una pianta identica a quella precedente. Laggiú c’è l’ingresso della stanza; ora sono io a camminare rasente alla parete, mi fermo prima della soglia. Non vorrei presentarmi da solo; se la disposizione del piano è la stessa, troverò facilmente l’infermeria. Faccio per voltarmi; alle spalle arriva un infermiere, un ragazzo coi capelli lunghi e gli zatteroni bianchi. Dice che ho parlato con lui al telefono. Sto per rallegrarmi, ma mi spinge nella s...

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