Anche se Ăš stato un sonno breve, come questo di mezzâora, dopo bisogna ricominciare tutto da capo. Sono procedure normali della continuitĂ , e seduto in treno posso farle con delicatezza. Ho cominciato solo ascoltando: siamo fermi, ma non in una stazione, câĂš troppo silenzio; e dâaltra parte sembra una sosta troppo rassegnata perchĂ© si tratti di un segnale chiuso.
Ho aperto gli occhi, e forse non ero pronto. Il militare di mezza etĂ , al quale avevo prestato il giornale prima di addormentarmi, dice sorridendo: «Si Ăš rotto il treno». Si alza, prende il berretto e lâimpermeabile dalla retina e una sua cartella di cuoio; poi si affaccia al finestrino e fa un cenno definitivo: «à meglio andare a piedi».
Anchâio guardo fuori ma Ăš difficile rendersi conto: siamo tra le rocce e il mare, in pieno paesaggio. Lui si gira sulla porta dello scompartimento, si aggiusta lâimpermeabile tirando giĂș la divisa. Dice: «Manca solo un chilometro alla stazione, dopo la curva. Se aspettiamo che salgano da Trieste per il traino ci vorrĂ unâora». Saluta, senza uscire. Sono appena allâinizio, e la disponibilitĂ Ăš ancora unâintenzione che non dovrei tradire subito. CosĂ ho raccolto le mie cose e lâho seguito.
Quando abbiamo superato il locomotore lui ha parlato con i macchinisti. Si sono detti cose tecniche, toccavano la motrice bloccata; guardavano in aria i fili e ridevano. La mattina Ăš limpidissima, quasi primaverile; o forse Ăš il mio stare qui, inspiegabile e leggero. Vorrei regolare il passo sulla cadenza delle traversine, ma ci manca sempre qualche centimetro e ogni tanto devo farne uno raddoppiato. Velocemente anche, perchĂ© lâufficiale va abbastanza svelto.
Mi ha spiegato nei dettagli il guasto del treno. Presto parliamo di linea e di tensione, di raggi di curva, di percentuali di pendenza; o meglio, lui parla con proprietĂ e naturalezza, e io mi sforzo di limitare il mio linguaggio fatto di «su» e di «giĂș». Scendiamo: lui col corpo allâindietro, dondolando la cartella, io con le mani in tasca. Ha domandato: «Vede la prospettiva?» Vedevo la cittĂ per la prima volta, il golfo e le montagne, il faro, il castello, le case al di qua e al di lĂ , e certo pensavo che doveva farmi un qualche effetto. Si Ăš messo a ridere, lui parlava dei binari: qui sono paralleli, saldamente, poi a punta di freccia, sempre di piĂș fino alla stazione. Dice: «Pensi che facciamo un mucchio di calcoli per la prospettiva, per riprodurre un difetto della vista». Ci ho pensato ma non sapevo cosa rispondere, e cosĂ siamo andati avanti in silenzio.
Adesso sento la mancanza del caffĂš, anzi della colazione vera e propria. Abbiamo visto la «marmotta» avvicinarsi, andava verso il treno, sempre piĂș grande; lâabbiamo vista staccarsi dalla stazione, dopo si Ăš sentito il rumore del diesel.
I segnali ferroviari sono visibili solo a distanza; da vicino si attenuano, da sotto sembrano spenti. Anche di questo lâufficiale ha spiegato le ragioni. Dopo un poâ gli ho domandato se Ăš vero che nei ponti si progetta anche un punto in cui minarli. Lui si Ăš fermato; per la prima volta Ăš teso. Lâho tranquillizzato, come togliendo una nuvola dal panorama. Riprende a camminare, dice: «Sono previste alcune camere di scoppio, dove lâappoggio Ăš massimo». PerĂČ non Ăš ancora convinto, e mi ha domandato perchĂ© volevo saperlo. Ho detto che mi sembrava una buona dimensione del lavoro, semplicemente: pensano una cosa e la realizzano in tutto, compreso il posto adatto per distruggerla col minimo sforzo. Lui dice: «à una buona pratica, ma di queste camere di scoppio non se ne fanno piĂș tante. Adesso la guerra non prevede ritirate cosĂ modeste, con i ponti tagliati alle spalle».
Ormai siamo in piano, quasi in cittĂ . Nellâultimo tratto ho evitato un paio di domande indirette sul perchĂ© vengo qui. Non vorrei parlarne e in fondo non sono nemmeno arrivato. Invece i ponti sembra che lo interessino, e anchâio non ho mai modo di discuterne. Ho raccontato che avevo visto montarne uno in cemento armato, sullâautostrada. Era un pianale prefabbricato, appoggiato sui piloni. Era piĂș lungo degli incastri, sembrava che non ci stesse, era impensabile che avessero sbagliato le misure. Dai quattro angoli della piattaforma venivano fuori dei cavi di acciaio, li hanno serrati ai martinetti e poi hanno cominciato a tirare. Tiravano lentamente, con molte grida. Il cemento prima si Ăš compresso poi si Ăš dilatato, alla fine câĂš stato uno schianto secco, un boato nella valle e il ponte Ăš andato a posto. Allâufficiale non ho detto che era stato un momento di assoluta simultaneitĂ , in cui tutto appariva compresente.
Anche questa volta lui si Ăš fermato, ha infilato la cartella sotto il braccio, perimetrava con le mani molte parti di cielo, diceva spesso «vedeâŠÂ»; ha distinto vari tipi di cemento, di campate, di martinetti, di portata. Ha domandato se avevo capito. Ho detto «SĂ», perĂČ nellâultima parte mi sono distratto; guardavo lui fermo tra i binari, e gli ero grato.
Scavalchiamo gli ultimi scambi, scegliamo una pensilina centrale. Ho immaginato spesso queste visite e probabilmente ogni cosa sarĂ diversa; forse lo Ăš giĂ nellâessere arrivato a Trieste come se fossi il treno. Nellâatrio della stazione lâufficiale si Ăš fermato di nuovo. Si Ăš tolto il cappello, lisciandosi i capelli. Ha detto: «CâĂš qualcosâaltro che vuole sapere sui ponti?» Ho risposto di no, sorridendo. PerĂČ potrebbe indicarmi la libreria antiquaria.
Ci siamo salutati; lui Ăš andato verso lâuscita, io verso il bar.
La libreria me lâaspettavo piccola, preziositĂ per pochi. Ă un monumento. Monumentale nella posizione e nellâampiezza delle scaffalature, nelle rilegature in pelle, nellâatteggiamento di garbata e irremovibile custodia dellâuomo con gli occhiali, ben vestito. Il tono stesso con cui dice «Desidera?» impedisce di guardare. Bisogna chiedere, e quando chiedo la risposta Ăš negativa: «No, i libri su Trieste o di triestini sono i primi a sparire». Sembra che anche le persone, in questo tempio, abbiano unâospitalitĂ molto breve. Vorrei prendere tempo, dico: «Esiste un catalogo?» Lui scuote la testa, fa un mezzo passo verso la porta. Dato che i titoli che cerco non ci sono, accenno genericamente allâargomento. Lui avanza ancora, dice: «No, niente. Provi in una libreria di cose correnti». Con quel «correnti» si deve immaginare la miseria di libri contemporanei, di librerie senza storia; un trovare facilmente, entrando, pagando, andando via.
Mano a mano che lui viene avanti io mi sposto di lato. Quando siamo quasi paralleli ripiego su unâinformazione stradale. Questa sĂ mi viene offerta con entusiasmo, con una minuzia topografica di piantine e numeri civici. Seguendo lâuomo per guardare le pagine gialle, capisco perchĂ© Ăš legittima lâimmagine del tempio: dove eravamo, e piĂș oltre non mi faceva andare, un vestibolo; poi un pronao da cui partono, lateralmente, due corridoi rivestiti di scaffalature. PiĂș dentro ancora, proprio come in una celletta, la gigantografia di Umberto Saba, lassĂș: vecchissimo, minuto, vestito di nero, il passo deciso sospeso a metĂ , il bastone parallelo alla gamba slanciata in avanti. LĂ sotto una donna con il grembiule azzurro agita un piumino.
Non Ăš questo che tradisce la sacralitĂ del luogo; piuttosto certe scalfitture nel legno o i vuoti negli ultimi ripiani. CâĂš un colore complessivo di carta da pacchi, e un odore equivalente. Mentre sto ancora guardando, lâuomo mi dĂ la mano; Ăš una stretta alla quale manca la pressione di diverse dita.
Fuori, ho dato unâultima occhiata ai pochi libri esposti con convinzione sullo sfondo di una tendina rossa plissettata, come nelle vetrine dei parrucchieri.
Proseguo per strade dritte, secondo una pianta favorevole che permette di contare bene le traverse. Ho individuato una libreria corrente, in pratica sono entrato e uscito. Ne ho ricavato perĂČ unâulteriore indicazione, e ora la seguo scendendo verso il mare. Ă una giornata lucida, appena fredda; solo la presenza del mare Ăš strana, forse perchĂ© questa cittĂ non posso pensarla che da sud, e mi disorienta la posizione del sole rispetto allâacqua e il tipo di luce e di colore. O forse perchĂ© sono abituato ai mari che scorrono in modo tangenziale, non che cominciano, come qui.
Adesso sono in unâaltra libreria: unâimpressione complessiva di remainders. Parecchi libri, senza alcun sussiego. Anche il libraio, con la sua complessione massiccia e un maglione a V sopra un altro a girocollo, sembra piuttosto un venditore di armi. Molte giacenze, sono queste il vero eroismo di un libraio, collane intere non antiche ma vecchie. Gli ho chiesto due titoli; lui si Ăš arrampicato verso un piano superiore, al quale nonostante la familiaritĂ dellâambiente non posso essere ammesso. Dopo un poâ ridiscende col libro di una trentina di anni fa. Sulla copertina câĂš una fotografia dellâautore, come colorata a mano: biondo, con i capelli lisci tirati allâindietro, gli occhiali e la cravatta, e sul collo una ruga circolare. Col libraio ci accordiamo su un prezzo convenzionale, comunque meno di un libro di oggi.
Mi sono avvicinato a un reparto con la targhetta «Trieste». Non câĂš la rivista con lâarticolo della scrittrice, ma un suo libro di saggi, e lâarticolo Ăš lĂ dentro. Il libraio si Ăš messo a lavare il pavimento. Gli ho mostrato il libro dal suo verso, battendo lâindice sul nome. Dico: «à ancora viva?» Lui si Ăš sollevato dallo spazzolone. DĂ unâocchiata alla copertina poi dice: «SĂ, credo di sĂ. Ă ai cronici, qualcuno va a trovarla».
Avrei voglia di guardare uno ad uno i libri, certe collane che mi mancano da sempre, certi titoli che provo a chiedere in ogni città , in ogni libreria. Ci provo anche qui. Lui storce la bocca, dice: «No, quelli no». E perché? Dice che in questa città , per le diverse lingue e i molti mestieri e le poche librerie bisogna tenere tutto, dal manuale tecnico alla letteratura. Ma anche il tutto, probabilmente, avrà il suo limite.
Uscendo dal negozio sono incerto. Dovrei continuare il mio percorso verso lâuniversitĂ , secondo i consigli pertinenti del libraio antiquario, per non parlare della biblioteca comunale. Ma Ăš un momento in cui sento maggiormente la tentazione di perdermi, di vagare. Forse non câĂš un percorso, ma solo unâintermittenza tra la probabilitĂ e lâimprobabilitĂ . Ă come se ogni spostamento lo decidessi lĂ per lĂ, per vedere dove porta, e questa scoperta, poi, non fosse altro che lâinizio che cercavo. Vorrei mantenere una certa inerzia, con piccole spinte indispensabili e sufficienti.
Ă in questo modo che arrivo alla biblioteca comunale; passo in rassegna decine di schede; ogni tanto le faccio scorrere veloci col pollice sul bordo, e la calligrafia si mette in movimento. Poi comincio a tirare fuori i cassettini e a portarli al tavolo, tra due ragazze. Dalle schede ci si puĂČ fare unâidea della storia della cittĂ . Alcuni titoli settecenteschi mi incuriosiscono: Il viaggio parallelo del libro e della vita, oppure Di come un luogo vecchio invecchi lo scrittore. Ma quanto posso perdermi? E quanto posso deviare?
Ho finito col chiedere il massimo consentito, tre libri nei quali non ho trovato quasi nulla, e che ora lascio aperti sul tavolo. La biblioteca la stanno restaurando: nelle scale, dove vado a respirare, câĂš uno spettacolo di disfatta, di precarietĂ bellica. Immagino un ospedale militare allestito qui in modo provvisorio. Mi sono portato il mio libro con lo scrittore biondo in copertina, e ho dovuto dimostrare al bibliotecario che era veramente mio. Nellâindice dei nomi câĂš naturalmente anche quello della persona per cui sono venuto in questa cittĂ . PerĂČ adesso non leggo le pagine che lo riguardano. Cerco invece i riferimenti alla scrittrice. «GiĂ al caffĂš Garibaldi uno dei soliti amici aveva condotto una sera con sĂ© e presentataci una sua giovanissima nipote, che ci osservĂČ in giro con occhi sfavillanti, ascoltĂČ qualche nostra battuta di dialogo, disse infine una frase che ci sorprese, come a voler concludere una discussione, e si congedĂČ. Ricordo che molti sguardi la seguirono e Svevo, vicino a me, si lasciĂČ sfuggire unâesclamazione: âche splendidi occhi quella figliola!â»
Ritorno nella sala, rimetto tutto a posto; guardo le librerie e i busti nelle nicchie. La biblioteca Ú protettiva, potrei restare qui, dove si trasforma il molto in poco; un lavoro che cresce di giorno in giorno, bibliografie e scalette, il posto ad uno dei tavoli che diventa il «mio», il caffÚ a metà mattina con una di queste ragazze, con la quale prima o poi farei amicizia. Ma qui non ho nulla da fare.
Dopo la biblioteca la situazione Ăš ancora piĂș incerta. LâuniversitĂ ? Potrebbe essere chiusa. E poi, quella vecchia o quella nuova? Vuole saperlo anche lâautista dellâautobus, quando gli chiedo se ci va. Lâautobus Ăš un altro, scendo di corsa. Ho giĂ fatto piĂș volte su e giĂș tra il ghetto e la piazza del municipio, una piazza perfettamente nordica, per tre lati come Salisburgo e sul quarto, dove dovrebbe esserci il teatro, il mare.
Arrivo alla fermata giusta senza essermi deciso. Aspetto. Andare in via Cecilia Rittmeyer? Escluso, questo non Ăš un pellegrinaggio. Potrei andare al cronicario. Sono passate poche decine di minuti dallâesclamazione di Svevo, e il percorso dallâimmagine di una giovane «dagli occhi sfavillanti» a quella che ora mi vado facendo, tutto il suo tempo, Ăš durato quanto lâattesa di alcuni autobus. Quanti anni avrĂ ? Cerco di capire quando puĂČ essersi svolta la scena del caffĂš. Anche tenendo fermi i punti fissi, il calcolo Ăš troppo approssimativo. Spero semplicemente in unâetĂ a me favorevole.
Andare subito al cronicario? Andare veramente allâuniversitĂ ? Andare a pranzo? Sul marciapiede opposto passano due negri. Un vecchio triestino, con la moglie, commenta la loro negritudine. Io, tra me e me, commento la triestinitĂ del triestino. ChissĂ come commenterĂ lui, appena avrĂ finito di guardarmi, e cosa penserĂ adesso, che col mio aspetto evidentemente forestiero, proprio adesso che sta arrivando lâautobus, mi giro e vado via.
Comincio a perdere quota lentamente, ripercorrendo le stesse strade che ho giĂ fatto, riattraversando la grande piazza col suo lato incoerente, dalla parte dove non guardo. Ă una specie di decelerazione interna, naturale, in attesa che appaia un ristorante. Ne ho trovato uno nel cuore del ghetto, e fino alla frutta Ăš andato tutto abbastanza bene; ho deciso di non pensare piĂș a cosa faccio qui. Ă subentrata una pigrizia opaca del fantasticare: sulle foto dei pugili alle pareti o sul gestore napoletano. Ogni volta si alza, va in cucina, porta un piatto al mio tavolo e si risiede a mangiare con la famiglia a quello accanto. Parlano un dialetto incontaminato come una forma di resistenza.
Chiedo lâelenco telefonico; cerco di ragionare, anche come esercizio contro lâinebetimento, e alla fine i numeri possibili si riducono a tre. La casa della scrittrice, lâospedale piĂș in vista sullâelenco, e un altro ospedale di cui Ăš indicato il reparto lungodegenti. Il primo non risponde, il secondo non sa, il terzo Ăš quello giusto. Chiedo a che ora posso andare. Allâaltro capo câĂš un momento di perplessitĂ : «Sarebbe alle cinque». Ho immaginato altre due ore cosĂ, ho detto: «Non posso venire adesso?» La voce maschile risponde: «Ma sĂ, venga quando vuole». Sembrava piuttosto permissivo, quasi incoraggiante. Forse il problema non Ăš lâaffollamento delle visite.
Adesso cammino veloce. Ho preso un taxi, ho dato allâuomo lâindirizzo, usciamo dal centro. Lâospedale Ăš su una collina, al limite della cittĂ . Non Ăš un corpo unico, ma diverse villette in salita, con giardini e ortensie. Il tassista ha insistito per arrivare fino al padiglione. Ho calcolato per lâultima volta lâetĂ della donna, e del resto Ăš lâultima volta che posso immaginarla.
La palazzina Ăš silenziosa. Una piccola rampa di scale; allâammezzato mi richiudo alle spalle una porta a vetri. CâĂš un lungo corridoio verdolino, con una luce nordica e pomeridiana; qui sĂ qualcosa di austroungarico, e ancora una volta, non so perchĂ©, immagini di guerra. Nessun infermiere; soltanto, in fondo al corridoio, un vecchio in pigiama che struscia i piedi camminando accosto al muro. Per guardarmi si Ăš voltato lentamente, con tutto il corpo, come se gli fosse impossibile una rotazione parziale e disarticolata. Ho imboccato la prima porta tra lui e me, una cucina. Dentro, una donna enorme ha indicato il piano superiore, una stanza esattamente sopra a questa.
Un altro giro di scale, unâaltra porta a vetri, una pianta identica a quella precedente. LaggiĂș câĂš lâingresso della stanza; ora sono io a camminare rasente alla parete, mi fermo prima della soglia. Non vorrei presentarmi da solo; se la disposizione del piano Ăš la stessa, troverĂČ facilmente lâinfermeria. Faccio per voltarmi; alle spalle arriva un infermiere, un ragazzo coi capelli lunghi e gli zatteroni bianchi. Dice che ho parlato con lui al telefono. Sto per rallegrarmi, ma mi spinge nella s...