Il futuro della democrazia
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Il futuro della democrazia

Norberto Bobbio

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Il futuro della democrazia

Norberto Bobbio

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«Tutti i testi qui raccolti trattano problemi molto generali e sono (o meglio vorrebbero essere) elementari. Sono stati scritti per il pubblico che s'interessa di politica, non per gli addetti ai lavori. Sono stati dettati da una preoccupazione essenziale: far discendere la democrazia dal cielo dei principî alla terra dove si scontrano corposi interessi. Ho sempre pensato che questo sia l'unico modo per rendersi conto delle contraddizioni in cui versa una società democratica e delle vie tortuose che deve seguire per uscirne senza smarrirvisi, per riconoscere i suoi vizi congeniti senza scoraggiarsi e senza perdere ogni illusione nella possibilità di migliorarla». Norberto Bobbio

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Democrazia e sistema internazionale

1. Mi sono venuto occupando in questi ultimi anni di due fra le «grandi dicotomie» che dominano nella teoria generale della politica: democrazia-autocrazia, paceguerra. Provenendo da studi giuridici, me ne sono occupato soprattutto dal punto di vista delle loro rispettive strutture normative: la prima si può risolvere normativisticamente nella dicotomia autonomia-eteronomia, la seconda in quest’altra: nomia e anomia. Questa riduzione serve a mostrare che la prima dicotomia è una sottospecie della seconda: tanto la democrazia quanto l’autocrazia sono due forme di nomia, cui si contrappone una situazione idealmente anomica, com’è quella della guerra. Nasce allora la domanda: quale rapporto hanno con la guerra-anomia le due forme nomiche? Hanno lo stesso tipo di rapporto o hanno rapporti diversi?
Da questa domanda sono derivati vari temi ampiamente discussi in questi anni dagli studiosi di relazioni internazionali, riguardanti sia il rapporto tra democrazia interna e pace internazionale sia il rapporto inverso tra democrazia internazionale e pace interna1. Tutto questo dibattito si può ricondurre a due domande-limite: «È possibile un sistema democratico internazionale fra stati tutti autocratici?», «È possibile un sistema autocratico internazionale fra stati tutti democratici?» Sono due domande che vengono formulate non perché vi si debba rispondere (la risposta infatti pare scontata), ma per mettere in evidenza l’intreccio dei problemi che nascono dal confronto fra le due dicotomie. I problemi attualmente dibattuti sono su per giú di questa natura: 1) se le democrazie siano piú pacifiche delle autocrazie; 2) se, posto che siano piú pacifiche, la pace esterna possa dipendere da una progressiva estensione degli stati democratici e dalla democratizzazione della comunità internazionale; 3) quali conseguenze abbia la presenza di stati non democratici nel sistema internazionale e la mancata democratizzazione del sistema stesso sulla democrazia interna degli stati democratici, in altre parole, se sia possibile essere democratici in un universo non democratico.
M’interessa per ora in modo particolare quest’ultimo punto. In scritti recenti ho svolto il tema dello sviluppo della democrazia moderna dal punto di vista delle promesse non mantenute2. Non mantenute, in parte perché non potevano esserlo, in parte per il sopraggiungere di ostacoli imprevisti. Di questi ostacoli ho preso in considerazione sinora soltanto quelli interni. Non mi ero ancora posto il problema degli ostacoli esterni, intendo di quelli che un regime democratico incontra in quanto fa parte della società internazionale che è di per se stessa essenzialmente anomica e di cui fanno parte stati non democratici.
Nell’ultimo saggio scritto prima di morire, intitolato Autoritarismo e democrazia nella società moderna, Gino Germani si era posto il problema se le democrazie fossero in grado di sopravvivere. Tra le cause della maggiore vulnerabilità delle democrazie rispetto alle autocrazie, Germani teneva conto anche delle cause esterne, cioè di quelle dipendenti dai rapporti inevitabili che qualsiasi stato ha con altri stati, e giungeva alla conclusione che «allo stato presente del “sistema internazionale”, la situazione di stretta interdipendenza e la internazionalizzazione della politica interna, tendono a favorire le soluzioni autoritarie piú che quelle democratiche»3. Nel libro Comment les démocracies finissent (Grasset, Paris, 1983, trad. it., Rizzoli, Milano 1984), Jean-François Revel, con il vigore e rigore polemici che gli sono abituali, sostiene che le democrazie sarebbero destinate a finire e a rappresentare un episodio di breve durata nella storia del mondo per l’incapacità di difendersi dal loro grande avversario, il totalitarismo, dovuta in parte ai dissensi interni, in parte all’eccesso di arrendevolezza di fronte al piú astuto e piú spietato antagonista. Richard Falk, direttore del Centro di studi internazionali dell’Università di Princeton, sostiene che «l’esistenza di armi nucleari, anche senza che si verifichi una guerra nucleare, è fondamentalmente in contrasto con un ordinamento democratico»4.
Sono soltanto alcuni esempi tra i molti che si potrebbero citare della connessione che si è venuta scoprendo e rappresentando in questi anni fra democrazia e sistema internazionale, ovvero sui limiti che uno stato democratico al suo interno subisce nei rapporti internazionali, per il fatto di esser membro di un sistema di stati in gran parte non democratici, e la cui costituzione, posto che si possa parlare di costituzione nello stesso modo con cui se ne parla rispetto al sistema interno, non è democratica.
2. La storia si ripete e si ripetono anche le riflessioni che gli uomini fanno sulla loro storia. Gli scrittori repubblicani, sopravvissuti durante la formazione delle grandi monarchie, avevano sostenuto su per giú la stessa tesi assistendo alla fine delle repubbliche soggiogate dai piú potenti vicini. Come un tempo era finita la libertà delle città greche per opera della conquista macedone, cosí era finita la libertà europea che veniva identificata con la storia dei liberi comuni. Fortunatamente non si ripetono soltanto le idee ma anche gli errori di previsione. Alla fine del Settecento sarebbe nato il primo grande stato repubblicano dopo la fine della repubblica romana, che avrebbe smentito tutte le deplorazioni sulla fine delle repubbliche: gli Stati Uniti d’America. Chi sa che anche questa volta le previsioni dei profeti di sventure siano destinate a non avverarsi.
Il pensiero repubblicano, che era rimasto vivo nel Settecento in Inghilterra, in Olanda, in Italia e in Francia, ad onta del fatto che i grandi stati territoriali erano nati all’inizio dell’età moderna come monarchie, aveva sempre attribuito agli stati repubblicani, anche alle repubbliche aristocratiche, una maggiore volontà di pace a paragone dei grandi stati monarchici: le repubbliche, si diceva, erano piú esperte nell’arte del commercio che in quella della guerra. Nelle Memorie di Jean de Witt, che si aprono col motto «Sola respublica veram pacem et felicitatem experitur», si contrappone la volontà di benessere delle repubbliche alla volontà di potenza e di espansione delle monarchie sicché «gli abitanti di una repubblica sono infinitamente piú felici dei sudditi di un paese governato da un solo capo supremo». Mentre l’arte politica dei principi era stata paragonata a quella del leone e della volpe (in uno dei piú famosi capitoli del Principe di Machiavelli), il de Witt paragonava l’arte delle repubbliche a quella del gatto che deve essere insieme «agile e prudente»5.
La tesi della minor bellicosità delle repubbliche rispetto alle monarchie fu ripresa e consolidata da Montesquieu, il quale sostenne con il suo linguaggio solenne e perentorio che lo spirito delle monarchie è la guerra e il desiderio di grandezza, quello delle repubbliche è la pace e la moderazione. Di questa affermazione dava diverse spiegazioni: è contro la natura delle cose, diceva, che una repubblica conquisti una città non desiderosa di entrare nella sua sfera; se una democrazia conquista un popolo per governarlo come suddito, essa pone in pericolo la propria libertà perché sarà costretta a conferire una troppo grande autorità ai magistrati che invierà nello stato conquistato. Proprio perché piú deboli le repubbliche avevano sempre avuto una tendenza a riunirsi in confederazioni o leghe permanenti come le antiche città greche e ai suoi tempi le Province Unite di Olanda e i Cantoni svizzeri. Ancora una volta era contrario alla natura delle cose che in una costituzione federale uno stato ne conquistasse un altro. Sotto questo aspetto le repubbliche non solo avevano offerto un esempio di minore aggressività ma avevano dato origine a quelle alleanze permanenti, le associazioni fra stati, che lo stesso Montesquieu aveva magnificato chiamandole società di società. Queste associazioni, che avevano fatto la loro apparizione nei primi progetti di pace perpetua come quello di Kant, hanno rappresentato, sino ai giorni nostri, la via obbligata per perseguire una politica di pace stabile.
3. Che la maggior parte degli stati attualmente esistenti non siano democratici è un dato di fatto incontestabile, di cui non c’è che da prendere atto. Merita invece qualche osservazione il secondo punto: in che senso, e perché, l’attuale società internazionale non possa dirsi democratica. Per illustrare questo secondo tema ritengo non vi sia modo migliore che quello di mostrare attraverso quale processo ideale nasca un governo democratico secondo la ricostruzione razionale che ne hanno fatto le dottrine contrattualistiche del Sei e Settecento, il cui punto di partenza è lo stato di natura, inteso proprio come quello stato anomico attualmente ancora in parte sussistente nei rapporti internazionali, come stato di guerra permanente, se non attuale, potenziale; il punto di arrivo è lo stato civile, come stato di pace, se non perpetua, stabile; e il passaggio dall’uno all’altro avviene attraverso un accordo o un insieme di accordi, di cui il primo, anche se non dichiarato o tacito o implicito, è un patto di non aggressione tra i singoli individui che vogliono uscire dallo stato di natura.
Il patto di non aggressione, come ogni altro patto del resto, è definito dal suo contenuto6. Il contenuto del patto di non aggressione, per quanto puramente negativo e non esplicitamente menzionato nelle opere dei contrattualisti, è di estrema importanza per la nascita della società...

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