Il futuro della democrazia
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Il futuro della democrazia

Norberto Bobbio

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Il futuro della democrazia

Norberto Bobbio

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«Tutti i testi qui raccolti trattano problemi molto generali e sono (o meglio vorrebbero essere) elementari. Sono stati scritti per il pubblico che s'interessa di politica, non per gli addetti ai lavori. Sono stati dettati da una preoccupazione essenziale: far discendere la democrazia dal cielo dei principß alla terra dove si scontrano corposi interessi. Ho sempre pensato che questo sia l'unico modo per rendersi conto delle contraddizioni in cui versa una società democratica e delle vie tortuose che deve seguire per uscirne senza smarrirvisi, per riconoscere i suoi vizi congeniti senza scoraggiarsi e senza perdere ogni illusione nella possibilità di migliorarla». Norberto Bobbio

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Informations

Éditeur
EINAUDI
Année
2013
ISBN
9788858411698

Democrazia e sistema internazionale

1. Mi sono venuto occupando in questi ultimi anni di due fra le «grandi dicotomie» che dominano nella teoria generale della politica: democrazia-autocrazia, paceguerra. Provenendo da studi giuridici, me ne sono occupato soprattutto dal punto di vista delle loro rispettive strutture normative: la prima si puĂČ risolvere normativisticamente nella dicotomia autonomia-eteronomia, la seconda in quest’altra: nomia e anomia. Questa riduzione serve a mostrare che la prima dicotomia Ăš una sottospecie della seconda: tanto la democrazia quanto l’autocrazia sono due forme di nomia, cui si contrappone una situazione idealmente anomica, com’ù quella della guerra. Nasce allora la domanda: quale rapporto hanno con la guerra-anomia le due forme nomiche? Hanno lo stesso tipo di rapporto o hanno rapporti diversi?
Da questa domanda sono derivati vari temi ampiamente discussi in questi anni dagli studiosi di relazioni internazionali, riguardanti sia il rapporto tra democrazia interna e pace internazionale sia il rapporto inverso tra democrazia internazionale e pace interna1. Tutto questo dibattito si puĂČ ricondurre a due domande-limite: «È possibile un sistema democratico internazionale fra stati tutti autocratici?», «È possibile un sistema autocratico internazionale fra stati tutti democratici?» Sono due domande che vengono formulate non perchĂ© vi si debba rispondere (la risposta infatti pare scontata), ma per mettere in evidenza l’intreccio dei problemi che nascono dal confronto fra le due dicotomie. I problemi attualmente dibattuti sono su per giĂș di questa natura: 1) se le democrazie siano piĂș pacifiche delle autocrazie; 2) se, posto che siano piĂș pacifiche, la pace esterna possa dipendere da una progressiva estensione degli stati democratici e dalla democratizzazione della comunitĂ  internazionale; 3) quali conseguenze abbia la presenza di stati non democratici nel sistema internazionale e la mancata democratizzazione del sistema stesso sulla democrazia interna degli stati democratici, in altre parole, se sia possibile essere democratici in un universo non democratico.
M’interessa per ora in modo particolare quest’ultimo punto. In scritti recenti ho svolto il tema dello sviluppo della democrazia moderna dal punto di vista delle promesse non mantenute2. Non mantenute, in parte perchĂ© non potevano esserlo, in parte per il sopraggiungere di ostacoli imprevisti. Di questi ostacoli ho preso in considerazione sinora soltanto quelli interni. Non mi ero ancora posto il problema degli ostacoli esterni, intendo di quelli che un regime democratico incontra in quanto fa parte della societĂ  internazionale che Ăš di per se stessa essenzialmente anomica e di cui fanno parte stati non democratici.
Nell’ultimo saggio scritto prima di morire, intitolato Autoritarismo e democrazia nella societĂ  moderna, Gino Germani si era posto il problema se le democrazie fossero in grado di sopravvivere. Tra le cause della maggiore vulnerabilitĂ  delle democrazie rispetto alle autocrazie, Germani teneva conto anche delle cause esterne, cioĂš di quelle dipendenti dai rapporti inevitabili che qualsiasi stato ha con altri stati, e giungeva alla conclusione che «allo stato presente del “sistema internazionale”, la situazione di stretta interdipendenza e la internazionalizzazione della politica interna, tendono a favorire le soluzioni autoritarie piĂș che quelle democratiche»3. Nel libro Comment les dĂ©mocracies finissent (Grasset, Paris, 1983, trad. it., Rizzoli, Milano 1984), Jean-François Revel, con il vigore e rigore polemici che gli sono abituali, sostiene che le democrazie sarebbero destinate a finire e a rappresentare un episodio di breve durata nella storia del mondo per l’incapacitĂ  di difendersi dal loro grande avversario, il totalitarismo, dovuta in parte ai dissensi interni, in parte all’eccesso di arrendevolezza di fronte al piĂș astuto e piĂș spietato antagonista. Richard Falk, direttore del Centro di studi internazionali dell’UniversitĂ  di Princeton, sostiene che «l’esistenza di armi nucleari, anche senza che si verifichi una guerra nucleare, Ăš fondamentalmente in contrasto con un ordinamento democratico»4.
Sono soltanto alcuni esempi tra i molti che si potrebbero citare della connessione che si Ăš venuta scoprendo e rappresentando in questi anni fra democrazia e sistema internazionale, ovvero sui limiti che uno stato democratico al suo interno subisce nei rapporti internazionali, per il fatto di esser membro di un sistema di stati in gran parte non democratici, e la cui costituzione, posto che si possa parlare di costituzione nello stesso modo con cui se ne parla rispetto al sistema interno, non Ăš democratica.
2. La storia si ripete e si ripetono anche le riflessioni che gli uomini fanno sulla loro storia. Gli scrittori repubblicani, sopravvissuti durante la formazione delle grandi monarchie, avevano sostenuto su per giĂș la stessa tesi assistendo alla fine delle repubbliche soggiogate dai piĂș potenti vicini. Come un tempo era finita la libertĂ  delle cittĂ  greche per opera della conquista macedone, cosĂ­ era finita la libertĂ  europea che veniva identificata con la storia dei liberi comuni. Fortunatamente non si ripetono soltanto le idee ma anche gli errori di previsione. Alla fine del Settecento sarebbe nato il primo grande stato repubblicano dopo la fine della repubblica romana, che avrebbe smentito tutte le deplorazioni sulla fine delle repubbliche: gli Stati Uniti d’America. Chi sa che anche questa volta le previsioni dei profeti di sventure siano destinate a non avverarsi.
Il pensiero repubblicano, che era rimasto vivo nel Settecento in Inghilterra, in Olanda, in Italia e in Francia, ad onta del fatto che i grandi stati territoriali erano nati all’inizio dell’etĂ  moderna come monarchie, aveva sempre attribuito agli stati repubblicani, anche alle repubbliche aristocratiche, una maggiore volontĂ  di pace a paragone dei grandi stati monarchici: le repubbliche, si diceva, erano piĂș esperte nell’arte del commercio che in quella della guerra. Nelle Memorie di Jean de Witt, che si aprono col motto «Sola respublica veram pacem et felicitatem experitur», si contrappone la volontĂ  di benessere delle repubbliche alla volontĂ  di potenza e di espansione delle monarchie sicchĂ© «gli abitanti di una repubblica sono infinitamente piĂș felici dei sudditi di un paese governato da un solo capo supremo». Mentre l’arte politica dei principi era stata paragonata a quella del leone e della volpe (in uno dei piĂș famosi capitoli del Principe di Machiavelli), il de Witt paragonava l’arte delle repubbliche a quella del gatto che deve essere insieme «agile e prudente»5.
La tesi della minor bellicositĂ  delle repubbliche rispetto alle monarchie fu ripresa e consolidata da Montesquieu, il quale sostenne con il suo linguaggio solenne e perentorio che lo spirito delle monarchie Ăš la guerra e il desiderio di grandezza, quello delle repubbliche Ăš la pace e la moderazione. Di questa affermazione dava diverse spiegazioni: Ăš contro la natura delle cose, diceva, che una repubblica conquisti una cittĂ  non desiderosa di entrare nella sua sfera; se una democrazia conquista un popolo per governarlo come suddito, essa pone in pericolo la propria libertĂ  perchĂ© sarĂ  costretta a conferire una troppo grande autoritĂ  ai magistrati che invierĂ  nello stato conquistato. Proprio perchĂ© piĂș deboli le repubbliche avevano sempre avuto una tendenza a riunirsi in confederazioni o leghe permanenti come le antiche cittĂ  greche e ai suoi tempi le Province Unite di Olanda e i Cantoni svizzeri. Ancora una volta era contrario alla natura delle cose che in una costituzione federale uno stato ne conquistasse un altro. Sotto questo aspetto le repubbliche non solo avevano offerto un esempio di minore aggressivitĂ  ma avevano dato origine a quelle alleanze permanenti, le associazioni fra stati, che lo stesso Montesquieu aveva magnificato chiamandole societĂ  di societĂ . Queste associazioni, che avevano fatto la loro apparizione nei primi progetti di pace perpetua come quello di Kant, hanno rappresentato, sino ai giorni nostri, la via obbligata per perseguire una politica di pace stabile.
3. Che la maggior parte degli stati attualmente esistenti non siano democratici Ăš un dato di fatto incontestabile, di cui non c’ù che da prendere atto. Merita invece qualche osservazione il secondo punto: in che senso, e perchĂ©, l’attuale societĂ  internazionale non possa dirsi democratica. Per illustrare questo secondo tema ritengo non vi sia modo migliore che quello di mostrare attraverso quale processo ideale nasca un governo democratico secondo la ricostruzione razionale che ne hanno fatto le dottrine contrattualistiche del Sei e Settecento, il cui punto di partenza Ăš lo stato di natura, inteso proprio come quello stato anomico attualmente ancora in parte sussistente nei rapporti internazionali, come stato di guerra permanente, se non attuale, potenziale; il punto di arrivo Ăš lo stato civile, come stato di pace, se non perpetua, stabile; e il passaggio dall’uno all’altro avviene attraverso un accordo o un insieme di accordi, di cui il primo, anche se non dichiarato o tacito o implicito, Ăš un patto di non aggressione tra i singoli individui che vogliono uscire dallo stato di natura.
Il patto di non aggressione, come ogni altro patto del resto, Ăš definito dal suo contenuto6. Il contenuto del patto di non aggressione, per quanto puramente negativo e non esplicitamente menzionato nelle opere dei contrattualisti, Ăš di estrema importanza per la nascita della societĂ ...

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