Il mondo si è diviso in due campi: il campo dell’imperialismo e il campo della lotta contro l’imperialismo […] Alla guida dei paesi del capitalismo si trovano due principali paesi, l’Inghilterra e l’America […] Alla guida di coloro che si oppongono e lottano alla morte contro l’imperialismo si trova il nostro paese, l’Unione Sovietica.
STALIN, 18 dicembre 1925.
Internazionalista è chi senza riserve, senza esitazioni, senza condizioni è pronto a difendere l’Urss, perché l’Urss è la base del movimento rivoluzionario mondiale.
STALIN, 1º agosto 1927.
La rivoluzione mondiale come atto unico è una sciocchezza. Essa avviene in tempi diversi e in paesi diversi. Anche le azioni dell’Armata Rossa sono cosa che riguarda la rivoluzione mondiale.
STALIN a Dimitrov, 21 gennaio 1940.
1. Rivoluzione mondiale e «socialismo in un solo paese».
La morte di Lenin lasciò il segno su tutti i comunisti. Il suo corpo imbalsamato, avvolto nella bandiera della Comune di Parigi e collocato in un mausoleo sulla Piazza Rossa di Mosca, venne consegnato al loro sistema simbolico. Al suo funerale, il 27 gennaio 1924, furono soprattutto Zinov′ev e Stalin, in assenza di Trockij, a celebrare la nascita di un culto. Il giuramento pronunciato da Stalin con toni di devozione religiosa rappresentò probabilmente il momento piú significativo di quel passaggio, anche se non molti se ne resero conto allora. Il culto doveva costituire il centro di gravità delle nuove forme di sacralizzazione della politica prodotte dal regime. Il culto di Lenin e la codificazione del marxismo-leninismo furono anzi i due fondamenti della transizione dallo slancio utopistico dei primi anni postrivoluzionari a una forma organizzata di messianismo, dotata di dogmi ideologici e di riti canonici1. La fedeltà ai precetti leniniani costituí da quel momento in avanti una fonte di legittimazione irrinunciabile. L’unità del gruppo dirigente sovietico e del partito mondiale della rivoluzione fu un assioma sempre piú indiscutibile. In realtà, tale unità era largamente fittizia e il suo principio si doveva risolvere in un perverso meccanismo repressivo nelle stesse élite politiche. Soltanto la figura carismatica di Lenin aveva potuto ricomporre i numerosi conflitti sorti sin dall’epoca dell’Ottobre nello stato maggiore della rivoluzione. Ma dal 1917 in avanti, Lenin aveva mostrato volti troppo diversi perché si potessero facilmente comporre in una sintesi politica. La sua eredità lasciava piú incertezze che certezze. I successori se la contesero dando luogo alla piú classica delle lotte per il potere, che si riverberò sull’intero movimento comunista.
Né la scelta della Nep, né il rigido regime interno del partito rappresentavano motivi di unità tra i bolscevichi. Già nel corso del 1923 l’irrequieto Trockij aveva aperto le ostilità su entrambe le questioni, denunciando la «burocratizzazione» generata dalla sovrapposizione tra il partito e lo Stato, predicando una democrazia circoscritta agli organi del partito, e invocando una maggiore pressione verso l’industrializzazione del paese. Ma la questione che piú di ogni altra investiva il senso stesso della rivoluzione ereditata da Lenin era il fiasco dell’«ottobre tedesco», spia inequivocabile del fallimento del suo progetto rivoluzionario mondiale. La dura smentita di tale progetto avrebbe potuto essere constatata molto prima del 1923. Lenin vi si era sottratto, lasciando la patata bollente nelle mani dei suoi successori. Alla prima occasione, in Germania, essi avevano inseguito le sue stesse chimere, con una maggiore accortezza cospirativa consentita dalla presenza di un forte partito comunista, ma con la medesima tendenza a scambiare le proprie illusioni per la realtà. L’ennesimo insuccesso delle forze rivoluzionarie in Germania poneva ora dinanzi a interrogativi ancora piú stringenti, ma il gruppo dirigente bolscevico li evitò.
Sin dal dicembre 1923 Zinov′ev e Trockij si scontrarono sulle «lezioni degli avvenimenti tedeschi». Ma il conflitto tra i due piú accesi sostenitori del tentativo insurrezionale non implicava nessuna autocritica e revisione2. Zinov′ev adossò cinicamente la responsabilità della sconfitta all’insufficiente risolutezza dei dirigenti tedeschi, Trockij prese le loro difese, accusando il suo rivale di burocratismo. Entrambi ritenevano che si fosse persa un’autentica occasione rivoluzionaria3. Sebbene in una diversa misura, tutti i principali leader bolscevichi erano stati coinvolti nella decisione sull’azione insurrezionale. Per il momento, nessuno si espose nel trarre lezioni piú serie dall’«ottobre tedesco». Cosí le tensioni che già percorrevano il gruppo dirigente bolscevico si acuirono, dando però luogo a un falso dibattito incentrato sulla tattica invece che sull’analisi. L’enfasi cadde sull’occasione perduta e sull’esigenza di seguire ancora piú strettamente l’esempio bolscevico. Le voci critiche, come Radek nel partito sovietico e Wilhelm Pieck in quello tedesco, vennero messe a tacere. Furono anzi incoraggiate le tendenze estremiste nella Kpd, con la promozione di Ruth Fischer e Arkady Maslow, gli avversari «di sinistra» di Brandler e di Thalheimer4.
Il XIII Congresso della Rkp(b), nel maggio 1924, sembrò chiudere la prima fase del conflitto aperto da Trockij e stabilizzare al posto di comando il «triumvirato» composto da Zinov′ev, Kamenev e Stalin. I motivi di consolidamento erano significativi. La Nep aveva posto le basi per la ripresa economica del paese e per un relativo equilibrio nei rapporti tra città e campagna. La costituzione dello Stato federale aveva coronato la riconquista bolscevica di parte sostanziale del territorio appartenuto all’impero zarista, mentre gli ultimi focolai di resistenza nazionale in Ucraina e altrove erano stati soffocati. Apparentemente, i riconoscimenti diplomatici dell’Unione Sovietica da parte dei principali paesi europei, a cominciare dalla Gran Bretagna, costituivano un fattore altrettanto valido di stabilità. Era però evidente l’assenza di un pensiero strategico e di una visione della situazione internazionale adeguata alla nuova stabilità che si annunciava anche in Germania e in Europa. Soltanto Bucharin, ormai passato su posizioni moderate dopo i suoi trascorsi di estrema sinistra, presentò un’interpretazione dell’eredità di Lenin diversa da quella dei due principali pretendenti alla successione, Zinov′ev e Trockij, invitando i bolscevichi a prendere atto della fine delle illusioni rivoluzionarie. Era in corso, a suo giudizio, «una certa stabilizzazione» dell’economia capitalistica garantita dal capitale americano, sebbene il mondo occidentale continuasse a soffrire l’assenza di un ruolo politico degli Stati Uniti adeguato al loro ruolo economico. Sul piano ideologico, questa nuova situazione generava una tendenza al «pacifismo» della borghesia occidentale, che si era manifestata negli stessi riconoscimenti diplomatici dell’Urss e nella crescita del ruolo di governo delle socialdemocrazie. Di conseguenza, occorreva liquidare lo schema adottato dai bolscevichi dopo l’Ottobre, secondo il quale la loro vicenda si sarebbe ripetuta con le medesime modalità anche altrove5. In altre parole, Bucharin suggeriva di rinunciare all’universalità del modello rivoluzionario bolscevico e di abbandonare le concezioni piú catastrofiste che avevano condizionato il movimento comunista. Egli fu il solo dirigente bolscevico a compiere un simile passo e a trarre una lezione seria dal fallimento insurrezionale in Germania. La revisione da lui proposta rimase isolata e senza seguito.
La deriva «di sinistra» del Comintern venne pienamente confermata al V Congresso, nel giugno-luglio 1924. La principale parola d’ordine lanciata in tale circostanza fu quella della «bolscevizzazione» dei partiti comunisti. Ennesimo slogan vago e ambivalente emanato da Mosca, la «bolscevizzazione» esigeva al tempo stesso un piú forte allineamento al modello russo e una maggiore articolazione nazionale dei partiti comunisti6. Essa rispondeva a un’esigenza di disciplinamento che si poteva far risalire indietro nel tempo fino alle celebri «ventuno condizioni», ma che ora assumeva l’aspetto di un rilancio identitario per far fronte alla crisi del movimento. Il varo della «bolscevizzazione» dei partiti comunisti e la sacralizzazione del «leninismo» furono contestuali a una lettura catastrofista della crisi del capitalismo postbellico e a una ripresa della polemica anti-socialdemocratica. Zinov′ev coniò la formula della socialdemocrazia come «ala sinistra» del fascismo, toccando l’apice del manicheismo bolscevico7. Il gruppo dirigente russo continuava a non fare i conti con il fallimento dell’«ottobre tedesco». Bucharin non ripeté al Comintern i convincimenti maturati ed espressi dinanzi al congresso del partito sovietico. Stalin continuò a mantenersi defilato dalle questioni internazionali lasciando la scena a Zinov′ev, suo alleato nello scontro con Trockij. Sulla condotta di Stalin pesava la sua scarsa familiarità con le questioni internazionali. Ancor piú pesava il duro giudizio personale formulato nei suoi riguardi da Lenin nel proprio «testamento», anche se questo documento offriva giudizi liquidatori su tutti i possibili eredi. Ma i silenzi e le incertezze del gruppo dirigente bolscevico riflettevano soprattutto una difficoltà di orientamento. Nello stesso tempo, il contributo dei comunisti europei alla definizione di una strategia politica del movimento dopo l’«ottobre tedesco» fu irrilevante. Il loro discorso politico, dal francese Albert Treint alla tedesca Fischer, fu incentrato sulla «bolscevizzazione» e sulla lotta contro le «deviazioni», che poteva essere interpretata nei modi piú diversi, ma unificava il loro universo mentale. Sotto la direzione del Politbjuro, il Comintern post-leniniano richiamò ancora una volta i partiti comunisti al valore universale dell’esperienza russa.
Fu il lancio del Piano Dawes e l’avvio di un intervento americano nella ricostruzione europea, nell’estate 1924, a ...