Il primo libro di antropologia
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Marco Aime

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Il primo libro di antropologia

Marco Aime

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Che cos'è l'antropologia culturale? Se lo chiedete a una persona di media cultura, ne avrete forse una risposta abbastanza sensata. Se lo chiedete a un antropologo, preparatevi ad ascoltare una trattazione lunga e complessa dalla quale uscirete con le idee meno chiare di prima. Marco Aime prova a spiegare chi è e cosa fa un antropologo oggi, rovesciando gli approcci teorici tradizionali.
In effetti la natura dell'antropologia non è piú cosí definita, di popoli sconosciuti da studiare ce ne sono sempre meno, i confini tra l'Occidente e il cosiddetto Sud del mondo sono sempre piú labili, i paradigmi del secolo scorso sono crollati e l'antropologo si trova ad affrontare problematiche sempre nuove, i terreni di ricerca sono mutati e in molti casi gli studiosi sono tornati a casa, occupandosi di eventi culturali vicini, contaminandosi con altri saperi. La purezza, cosí come l'oggettività, non è piú una virtú.
Ai quattro angoli del mondo come sotto casa propria, l'antropologo osserva, guarda, ascolta, assaggia, tocca, annusa. Il suo sapere si costruisce su basi sensoriali, prima di arrivare a tradursi in teorie e modelli. Sul terreno, egli non vede strutture, società, politica, economia, ma gente che si incontra, parla, combatte, si scambia oggetti, produce, costruisce, mangia, si organizza, prega, vive.
Perciò questo libro ha una scansione percettiva: parte dall'osservazione concreta di quanto è sotto gli occhi di tutti, per arrivare solo alla fine ai costrutti teorici piú ampi di un mondo intricato ed affascinante.

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Information

Publisher
EINAUDI
Year
2014
ISBN
9788858412763

IL PRIMO LIBRO DI ANTROPOLOGIA

Capitolo 1

La valigetta dell’antropologo

Nonostante non si sia mai redatto un vero e proprio codice di comportamento, nel corso degli anni gli antropologi si sono dotati di una valigetta di attrezzi teorici e metodologici che sono loro propri. Attrezzi forgiati nel tempo, affinati, a volte accantonati da alcuni o volutamente non utilizzati. Non si tratta di un kit sempre ben ordinato: in genere lascia spazio alla personalizzazione della scelta e dell’uso, ma si nota una certa aria di famiglia. Soprattutto nell’utilizzo di certe chiavi di lettura dei fenomeni sociali e culturali, perché sono appunto queste a caratterizzare lo sguardo antropologico rispetto a quello di altre discipline consimili e a tracciarne i confini.
1. Attrezzi vari.
Letteralmente antropologia significa «studio dell’uomo». Una definizione che potrebbe apparire un po’ supponente: anche la filosofia, la psicologia, la storia, la medicina studiano l’uomo, quale diritto avrebbe allora l’antropologia di arrogarsi il primato? Sarebbe piú corretto dire che l’antropologia non studia l’uomo, ma gli uomini. Non è l’individuo a interessare l’antropologo, quanto il suo essere parte di un gruppo di individui con cui intrattiene relazioni di vario genere: affettive, parentali, sessuali, di vicinato, commerciali, politiche e via dicendo. Sono tali relazioni, unite a quelle che gli individui instaurano con il loro ambiente, a diventare oggetto di studio per l’antropologia, quelle che nel loro insieme chiamiamo «cultura».
Ogni gesto, ogni parola, ogni regola vengono compresi da un determinato gruppo di persone in quanto condivisi. Non esiste manuale di antropologia che si rispetti che non riporti la celebre definizione che Sir Edward Tylor coniò nel 1871:
La cultura […], presa nel suo significato etnografico piú ampio, è quell’insieme che include conoscenze, credenze, arte, morale, legge, costume e ogni altra capacità e usanza acquisita dall’uomo come appartenente a una società.
Una definizione che è stata successivamente accusata di essere un po’ troppo rigida e statica, ma le cui sintesi e chiarezza fanno sí che regga al trascorrere del tempo. Ancor piú sintetica e altrettanto efficace la definizione dell’antropologa americana Ruth Benedict: «La cultura è ciò che tiene insieme gli uomini».
Ogni relazione umana, se ben analizzata, si rivela molto piú complessa di quanto possa apparire nella sua espressione piú immediata e visibile. Religione, economia, parentela, arte, appaiono categorie a sé stanti, solo dopo essere state create e definite per poi essere classificate da un osservatore esterno, ma nella mente degli individui, a livello piú o meno conscio, tali espressioni sono spesso inevitabilmente connesse a qualche livello. Sarebbe possibile studiare l’arte medioevale ignorando il ruolo della Chiesa? Ma non è soltanto la religione a essere connessa con la produzione di capolavori, lo erano anche i mecenati, la cui storia si intreccia con l’economia. La Divina commedia è impregnata di politica e di filosofia oltre a essere un’opera d’arte letteraria. Come comprendere alcuni dibattiti anche attuali relativi alla scienza senza tenere conto dei principî religiosi e dell’etica? Lo stesso si può dire a proposito dell’economia: anche se lo facciamo senza pensarci, ogni volta che prendiamo in mano una moneta o una banconota per pagare, non stiamo compiendo una semplice operazione commerciale, ma stiamo mettendo in gioco una serie di segni e simboli che rimandano a un immaginario condiviso. Quel pezzo di carta rettangolare e azzurro non vale venti euro di per sé: è solamente un portatore di valore, un segno, che funziona perché condiviso, almeno nell’area dell’euro.
I diversi modi di organizzare la società, la vita quotidiana, le differenti cognizioni del mondo circostante che l’inventario antropologico ci offre, rispondono di volta in volta a esigenze e processi storici particolari, che rimandano e dànno vita a loro volta a una rete di simboli. Quella rete che, come ebbe a dire Max Weber, l’uomo crea per poi rimanervi impigliato. Sebbene il metodo antropologico privilegi ambiti di studio ristretti, piú simili a un laboratorio, una rete non può essere percepita osservandone solo una maglia. Lo sguardo antropologico deve essere necessariamente olistico, totalizzante, deve tener conto dei vari elementi di una società e di una cultura per poterne analizzare anche uno solo. Si parte quindi da un nodo della rete per comprenderne l’intera struttura, per poi tornare ad analizzare quel nodo alla luce del tutto. Un procedimento che Jean-Loup Amselle ha messo bene in luce utilizzando una metafora informatica, quella delle connessioni: ogni particolare si definisce connettendosi a significanti globali.
L’antropologo, quindi, cerca regole nell’insieme di pratiche – spesso strane e di difficile comprensione a uno sguardo esterno – che un gruppo umano mette in atto. Tenta di dare ordine alle azioni che ognuno di noi compie quotidianamente, in maniera spesso meccanica, conformista, senza sentire la necessità di ricondurle a un determinato concetto di cultura.
Fin qui una delle caratteristiche dell’antropologia culturale: partire dall’osservazione particolare per giungere a una comprensione globale. Se la filosofia si occupa dell’uomo – inteso come essere universale –, l’antropologia si occupa degli uomini, in relazione al contesto culturale, storico e ambientale in cui essi vivono. Per l’antropologo ogni gruppo umano è un caso a sé, che come tale va analizzato. Per questo l’approccio relativista è uno dei pilastri fondanti delle discipline antropologiche, uno degli attrezzi che non possono mancare nella valigetta dell’antropologo. Per relativismo si intende un atteggiamento secondo il quale ogni espressione culturale deve essere spiegata all’interno del quadro simbolico della società che la produce. Infatti, quelle che chiamiamo culture sono degli insiemi di comportamenti e regole che vengono appresi vivendo in un determinato contesto sociale. Come sostiene Claude Lévi-Strauss a proposito dei diritti universali,
le grandi dichiarazioni dei diritti dell’uomo hanno la forza e la debolezza di enunciare un ideale troppo spesso dimentico del fatto che l’uomo non realizza la propria natura in un’umanità astratta, ma in culture tradizionali.
Un esempio celebre di tale approccio ci è dato dal noto studio condotto nel 1937 da Evans-Pritchard sulle credenze di magia e stregoneria degli azande, popolazione del Sudan meridionale. Il grande antropologo britannico riuscí a mettere in luce come il fatto che gli azande riportassero ogni accadimento della vita quotidiana a spiegazioni che rimandavano alla magia o alla stregoneria, apparisse irrazionale solo se analizzato all’interno del nostro sistema di valori. Al contrario, una volta ricostruito il quadro di riferimento culturale degli azande, con la loro rete di attribuzioni simboliche e di significati – in pratica il loro modo di leggere e concepire il mondo –, tutto appariva quanto mai chiaro e assolutamente razionale, se riferito a quel sistema di valori.
A tale proposito in antropologia vengono utilizzati due termini, introdotti da Marvin Harris e presi in prestito dalla linguistica, per indicare due diverse prospettive di osservazione: etico ed emico. Quando si parla di punto di vista etico, si intende quello dell’osservatore esterno, del ricercatore che spesso è altro rispetto alla comunità in cui studia. È uno sguardo da fuori, che tenta di ricondurre i fatti osservati a una logica di tipo scientifico. Diverso è il punto di vista di chi fa parte della società in oggetto e che percepisce gli stessi fatti con una prospettiva interna, che spesso compie gesti e agisce senza per forza darsi spiegazioni, ma per abitudine, conformismo, routine.
A problemi comuni gli individui dànno risposte differenti, perché, come afferma Clifford Geertz, «i problemi, essendo esistenziali, sono universali, le loro soluzioni, essendo umane, sono diverse». Ogni forma di espressione culturale scaturisce dall’elaborazione prodotta da un cervello biologicamente e strutturalmente identico a quello di ogni altro essere umano. Il fatto che nelle svariate popolazioni del pianeta si riscontri una struttura psichica simile, non impedisce a ciascuna di esse di sviluppare soluzioni diverse, e pertanto culturali, a situazioni condizionate da eventi esterni, oppure di adottare scelte assolutamente arbitrarie e convenzionali. In questo modo la cultura diventa una sorta di magazzino del sapere accumulato da un gruppo. È pur vero che, malgrado le specificità, esistono delle forme di trasversalità che attraversano con un certo grado di approssimazione, se non tutte, molte culture. Un atteggiamento relativista non si traduce pertanto nell’impossibilità di comparare sistemi diversi. Il fatto che due sistemi o due modelli siano incommensurabili, non vuole dire che non siano comparabili tra di loro.
L’atteggiamento relativista si oppone all’etnocentrismo, termine coniato nel 1906 dal sociologo americano William G. Sumner, che esprimerebbe «una concezione per la quale il proprio gruppo è considerato il centro di ogni cosa e tutti gli altri sono considerati e valutati in rapporto a esso». Il risultato inevitabile è di giudicare sbagliato tutto ciò che non risponde ai propri canoni. Aborrito dagli antropologi, l’etnocentrismo è però un tratto che accomuna la maggior parte dei gruppi umani del presente e del passato. Gli antichi greci chiamavano «barbari» i non greci, i lugbara dell’Uganda definiscono gli stranieri gente che cammina a testa in giú e il nome di moltissime popolazioni significa «gli uomini», il che indica che gli altri sono un po’ meno uomini se non, addirittura, non uomini. Insomma, ogni società tende a pensarsi fondamentalmente buona e circondata da gruppi e persone tendenzialmente non buoni.
I BARBARI DI MONTAIGNE, I PERSIANI DI MONTESQUIEU
Uno degli insegnamenti dell’antropologia è: diffidare dell’idea di naturalezza, soprattutto di fronte alle diverse risposte che le società forniscono a problemi comuni. Ciò che spesso ci appare naturale, in realtà è solo il prodotto di abitudini consolidate nel tempo, e l’abitudine, come fece già notare oltre quattro secoli fa Montaigne,
è in verità una maestra di scuola imperiosa e ingannatrice, […] ci si manifesta con un viso furioso e tirannico, sul quale noi non siamo piú liberi neppure di alzare gli occhi. La vediamo a ogni momento forzare le regole di natura.
Credere che ciò che ci è consueto sia naturale può indurre a pensare che tutto ciò che differisce non lo sia. Un’idea che è spesso madre dell’etnocentrismo e che porta e vedere nel diverso una condizione inferiore, di barbarie. Lo aveva già intuito Montaigne, quando scriveva: «Io ritengo che non vi è nulla di barbaro e di selvaggio in quelle popolazioni […]. La realtà è che ognuno definisce barbarie quello che non è nei suoi usi». Oppure, come sostiene Lévi-Strauss: «Il barbaro è anzitutto l’uomo che crede alla barbarie».
Due secoli dopo, Montesquieu inventava dei persiani in visita a Parigi, per innescare quel senso di spaesamento e di sguardo sull’alterità scevro dai condizionamenti dell’abitudine che serve a collocare gli usi di una comunità nella mappa delle comunità tutte. Quei persiani ci osservano con occhi stranieri, si stupiscono, provano meraviglia e disagio, ammirano e criticano l’Occidente. Montesquieu utilizza i loro occhi disincantati e stupiti a un tempo per esprimere, con sarcasmo e ironia, le sue critiche alla nostra società. Cosí fa scrivere da uno di loro:
Il re di Francia è il principe piú potente d’Europa. Non possiede miniere d’oro come il re di Spagna suo vicino, ma ha piú ricchezze di lui, perché le ricava dalla vanità dei suoi sudditi, piú inesauribile delle miniere […]. D’altronde questo re è un gran mago: esercita il suo potere anche sullo spirito dei suoi sudditi, li fa pensare come vuole. Se nel suo tesoro c’è solo un milione di scudi e gliene occorrono due, gli basta persuaderli che uno scudo ne vale due, ed essi ci credono […]. Quanto ti dico di questo principe non deve stupirti: c’è un altro grande mago piú potente di lui, il quale domina sul suo spirito non meno di quanto egli domini su quello degli altri. Questo mago, che si chiama papa, ora gli fa credere che tre è uguale a uno, che il pane che mangia non è pane, che il vino non è vino, e mille altre cose del genere.
Ironico, ma mai arrogante, questo è lo spirito di Montesquieu e dei suoi amici orientali.
Mi pare, Usbek, che noi giudichiamo le cose sempre in base a un riferimento segreto a noi stessi. Non mi sorprende che i negri dipingano il diavolo di un candore abbagliante e i loro dèi neri come il carbone […]. È stato detto molto bene che, se i triangoli si facessero un dio, gli darebbero tre lati.
Testi di riferimento.
MONTAIGNE, M. DE, Del costume e del non cambiare facilmente una legge ricevuta, in Saggi, Mondadori, Milano 1986 (1580).
MONTESQUIEU, Lettere persiane, Rizzoli, Milano 2000 (1758).
2. Polifonia di sguardi.
Ai tre stadi operativi solitamente previsti in una ricerca antropologica – descrizione, analisi e interpretazione – occorre aggiungere un passo preliminare, quello in cui il ricercatore definisce l’ambito della ricerca e determina quali concetti mettere in evidenza. «Ognuno ha la filosofia delle proprie attitudini», scriveva Cesare Pavese, e ogni antropologo finisce per privilegiare gli aspetti di una società che ritiene piú importanti, ma che per un altro verso gli sono piú consoni. Conosco antropologi che privilegiano ricerche sullo spazio o d’archivio, perché caratterialmente non si sentono a loro agio nel condurre interviste; altri che al contrario non amano né gli archivi né la dimensione quantitativa e prediligono l’intervista diretta.
La personalità, il genere, l’età, la nazionalità, gli studi compiuti finiscono per condizionare l’approccio alla ricerca. Il lavoro sul campo e l’analisi che ne segue costituiscono una prassi unificata: la situazione etnografica non è infatti definita solo dalla società studiata, ma anche dalla tradizione etnologica che sta «nella testa» dell’etnografo.
Nel 1967 la celebre antropologa britannica Mary Douglas scrisse un articolo intitolato If the Dogon…, dove sosteneva che, se a studiare quel popolo del Mali fossero stati etnografi inglesi, le cose sarebbero probabilmente andate in modo diverso. Forse avremmo avuto testi pieni di diagrammi di parentela, linee di discendenza, segmenti clanici e via dicendo, come nella migliore tradizione del funzionalismo britannico dell’epoca. Curiosamente, dice la Douglas, quei dogon, cosí attenti alla tradizione e all’estetica, somigliano molto ai francesi, o meglio, a certi francesi, come André Breton. Cosí come i rudi e quasi rozzi nuer del Sudan, studiati da Edward Evan Evans-Pritchard, con le loro «idee cosmologiche confuse» e la loro forte passione per i buoi, ricordano molto i britannici, con i quali condividono le metafore bovine per indicare alcuni eventi della vita quotidiana.
Nel corso della pur non lunghissima storia dell’antropologia, sono diversi i paradigmi che hanno caratterizzato i tanti sguardi antropologici dando vita, a volte, anche ad accesi dibattiti accademici. Come nelle barzellette dove ci sono un italiano, un tedesco, un inglese… proviamo a immaginare un gruppo di antropologi che si ritrova a osservare una gerla.
– Questo strumento testimonia che la popol...

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